Scommesse

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GABRIELLA VERGARI.

Una scommessa è una scommessa, poco ma sicuro. Solo che non dovresti mai farne una a cuor leggero o dopo aver, ehm, per così dire alzato un po’ il gomito. Ma il senso dell’onore è il senso dell’onore: la gente c’è morta per cose come queste. E un vero gentiluomo non può ignorarlo: Parola di re non torna indietro, neanche se si rischia, come nel mio caso, una figura.
Ecco perché quando, ridacchiando sfottente sotto i baffi che non ha, Giorgio mi ha sventolato davanti al naso il risultato vincente, ho come intuito di non avere scelta e che avrei dovuto farlo, malgrado tra me e me mi maledicessi.
Come mi era saltato in mente di andarmi a cacciare in una situazione tanto fuor di luogo?
Tuttavia a volte è più forte di me. Sembra quasi che mi piaccia sfidare la sorte. Ḕ il mio modo di trastullarmi con i limiti, valicare i confini, o forse più semplicemente di giocare la noia.
“Nudo, nudo, nudo …” ha cominciato quindi Giorgio a canzonarmi.
Il nostro gruppetto era nella fase dell’abbiocco, quello del dopo-cena che, satollo di cibi, birre artigianali e vini scelti, sembra scorrere, languido e indolente, verso un appagato congedo. Può anche di tanto in tanto aprirsi a qualche rivelazione del momento ma in genere propende per frequenze a più bassa modulazione. Sonnolenti quanto  basta, stravaccati sui divani e abbracciati alle rispettive compagne, facciamo le ultime tirate dal sigaro o dalla sigaretta elettronica. Cazzeggiamo un po’, pronunciamo battute non troppo impegnative, lasciamo insomma scorrere quel che resta della serata senza permettere il minimo turbamento di un così morbido preludio all’imminente e promettente nottata.
A quest’imprevista – e, almeno per me, totalmente inopportuna – uscita di Giorgio, è invece come corso un brivido e l’atmosfera si è fatta d’improvviso elettrica.
Elena si è drizzata sulla sedia. Come un alligatore che affiori in esplorazione, Giuseppe ha aperto a sorpresa quei suoi occhi costantemente socchiusi con la scusa del fumo. Di colpo è sceso un silenzio interessato, mentre Giorgio continuava con la sua canzonatura. Mi sarei aspettato che qualcuno gli dicesse di smetterla. Che la cosa finisse lì, su due piedi, che nessuno fosse tanto sveglio da voler ancora differire il momento dei saluti. E soprattutto che nessuno mi avesse preso sul serio. Tra amici …
“Mica dirai sul serio?” ha infatti chiesto Agnese, da brava anima candida qual è.
“Tranquilla, non avrà le palle per farlo” l’ha subito rassicurata Teresa, con un piglio che mi ha smosso il nervoso. Hai capito la stronza! Sul momento non avrei saputo dire se mi stesse dando più sui nervi la sua scarsa considerazione nei miei confronti o il fatto che non avesse avuto nemmeno il buon gusto di abbassare la voce, come se stesse analizzando un altro dei suoi casi di studio e io non fossi nemmeno lì presente, in carne e ossa, vivo e ovviamente indeciso se battere in ritirata o darle una eclatante dimostrazione di quanto si stesse sbagliando. Certo che avrei avuto le palle per farlo! Ci avevo addirittura scommesso sopra. Solo non mi andava così, tra i resti della cena ancora sparsi per casa, Carla a Roma per lavoro, e le sue amiche che, a quanto pareva, si stavano mostrando ben intenzionate a soppesarmi e valutarmi, con tutti i commenti che, ero certissimo, le avrebbero riferito quanto prima e con dovizia di particolari.
“ Io invece credo che ce le abbia” ha insinuato Giulia, sollevando il suo drink al mio indirizzo, nell’improbabile imitazione della dark-lady di turno in un film americano d’azione. “Vero, Robertino, che ce le hai?” mi ha chiesto insinuante.
Robertino? E che era, mia zia? E tanta confidenza, da dove? Tra i dodici e i diciassette anni eravamo stati dirimpettai al mare, d’accordo, ma non avevamo condiviso che una pacata cordialità. Nulla a che fare con l’autentico spirito d’avventure balneari o la goliardia che mi aveva da allora unito a Giorgio, o a Giuseppe. C’era mi pare scappato pure un bacio, giusto così per non lasciare nulla d’intentato, ma senza seguito e, per quel che mi riguardava, senza alcun rimpianto. Poi era sparita dalla mia vita e da poco ricomparsa, al fianco di Riccardo. Non era certo sufficiente a giustificare quel Robertino e soprattutto tanto paternalistico ammiccamento.
Ad ogni buon conto, l’ho ringraziata mentalmente per il sostegno. Se non altro aveva segnato un punto a mio favore.
“Accidenti, Giorgio, ma non ci potevi pensare un po’ prima” è sbottato Claudio “Giusto domani sono di turno e, se continua così, non riuscirò a racimolare più di quattro ore di sonno.” “Riconoscerai che questa però non ce la possiamo perdere” l’ha rintuzzato Salvo, mentre Anna annuiva a sostegno.
Ma che stava accadendo? Quelli non sembravano affatto gli amici di sempre, i ragazzi con cui avevo condiviso di tutto. Non registravo tanta energia dall’ultima vittoria ai mondiali di calcio, quando c’eravamo abbracciati saltando tutti insieme come canguri impazziti prima di lanciarci  per strada, a sventolare il tricolore nel tripudio generale.
Mi sono dato un contegno, sicuro che Fulvio, il padrone di casa, sarebbe intervenuto quanto prima. Magari me le avrebbe poi fatte così, con tanto di  ammonimenti e frasi ad effetto, ma mi avrebbe cavato fuori da quell’impiccio. Ne ero certo, accadeva sempre.
Ho cominciato a ridere e a guardarlo, speranzoso. Ma Fulvio taceva. Anzi, ci si è messo pure lui: “Così, forse prima o poi imparerà a non cacciarsi in situazioni come queste”.
Sembrava mio padre. E perché poi tutti si stavano ostinando a parlare di me alla terza persona, quasi fossi più un caso che il loro solito Roberto?
“Dai, ma veramente …” mi sono schermito, nicchiando.
Non sapevo se dare ascolto alla parte di me che mi sollecitava a imboccare di filato la porta per spezzare  quel clima che stavo fastidiosamente percependo da branco, o all’altra che mi stuzzicava a rispondere, provocazione a provocazione, per vedere, come diceva la canzone, l’effetto che fa.
Più che dalla prospettiva del denudarmi in sé, mi sentivo in realtà frenato dall’assenza di Carla. Chissà come l’avrebbe presa e se me l’avrebbe fatta passare liscia. Avevo infatti già visto la maggior parte degli uomini presenti nella stanza sotto la doccia, dopo la partita a calcetto e loro avevano visto me, mille e mille volte. Non capivo che  piacere ci potessero provare, ora. Certo, la differenza la faceva la presenza delle amiche, in un contesto che non poteva essere più lontano da quello erotico. Ma veramente volevano questo da me? E da se stessi? E se  tutto ciò avesse poi in seguito impercettibilmente ma irreversibilmente mutato i rapporti tra noi? Si sentivano così sicuri di sé e delle loro reazioni?
Sapevo quel che intendevo perché ero già capitato, per sbaglio, in un campo di nudisti ed era stato terribile. Perfettamente vestito, non solo mi ero sentito come mai fuori posto ma avevo soprattutto provato un indicibile imbarazzo.
Non c’è nulla come l’altrui nudità a darti la percezione della forza di gravità e dei suoi effetti, con tutto un ciondolare, ballonzolare, pencolare di parti anatomiche nella loro varia interpretazione delle leggi naturali e genetiche. Certo, c’è anche del bello, ma in genere se ne percepisce l’eccezionalità e, strano per quanto si voglia, la fragilità e perfino la provvisorietà. Basterebbe l’accentuarsi di una curva lì, l’estenuarsi di un tratto là, l’irrigidirsi di una linea qua, l’allungarsi di un segmento qui che l’insieme potrebbe subito risultare ben diverso e disarmonico. Vedere tutte insieme quelle forme, offerte letteralmente senza veli, schermi o convenzioni, mi aveva, lo ammetto, frastornato e mio malgrado turbato, quasi mi stessi palesando come il peggiore degli intrusi, o dei voyeur. Come se mi stessi clandestinamente e rapacemente incuneando nell’altrui intimità, senza alcuna  possibilità di riscatto o ricambio, dato che il mio essere vestito escludeva a priori ogni condizione di  reciprocità.
Ma c’era stato anche dell’altro. Mi ero sentito addirittura violentato, quasi che tutti quei nudi mi stessero forzando a una conoscenza in fondo non richiesta  né desiderata. Come se mi sentissi sopraffatto, costretto a osservare, sondare, guardare … Un’invadenza da incubo! Avevo da allora  compreso che, per essere spontanea o liberatoria, la nudità va scelta o quantomeno condivisa, altrimenti non riesce a sottrarsi all’umiliazione, alla prevaricazione, o al grottesco.
Stavo giusto per dirlo quando Teresa è tornata alla carica: “ Che vi dicevo?”
Non ci ho visto più. Mi sono trovato nel mezzo della stanza a sbottonarmi lentamente la camicia. Qualcuno, forse Giacomo, ha abbassato le luci. Giulia ha velocemente digitato qualcosa sullo smart-phone, facendo poco dopo risuonare nella stanza le note, più che abusate ma sempre roche e sensuali al punto giusto, di You can leave your hut on.
Magari ce l’avessi avuto, in quel momento, un cappello, con cui giocare alla Full Monty!  Ovviamente non ce l’avevo e, quel che è peggio, non ero soprattutto Kim Basinger né mi attendeva lo sguardo compiaciuto e vagamente infoiato di Mickey Rourke, bensì quello, non avrei saputo come ben definirlo, di una decina di amici scoglionati o forse solo in vena di trasgressioni soft.
Vero è che in quel casino mi ci ero cacciato da solo, seppure non avessi esattamente immaginato un simile scenario, nella scommessa con Giorgio.
Mi sfilo la cintura e le ragazze cominciano ad applaudire, sottolineando i miei gesti con gli urletti di rito. Stanno al gioco o sono realmente coinvolte?
Giorgio riprende a  ridacchiare, Giuseppe ha nuovamente socchiuso gli occhi, e quasi mi offende lo scarso interesse che sembra rivolgere alla mia performance. Berrei con piacere del whiskey, ma non ho idea né di dove sia finito il mio bicchiere né, se è per questo, di nient’altro.
È come se mi stessi sdoppiando. C’è il Roberto che ancora mantiene il controllo e sa di star facendo una cazzata leggendaria, di cui dovrà presto pagare il conto, soprattutto a Carla. Ma avverto che sta non so da dove affiorando pure il Roberto altro, quello che, in un simile frangente, è perfino capace di divertirsi. Mi sento anche attore del dominio. Sono io che sto sollecitando i sensi, poco importa di che tipo siano, di questi miei improbabili spettatori. Io che li sto spingendo oltre, insieme a me. Io che, se mi fermassi ora, avrei solo giocato un po’, senza permettere a nessuno di farsi troppo male. E che invece decido di andare avanti. Perciò inizio ad ancheggiare, con movenze improvvisate ma a quanto pare azzeccate, dato l’intensificarsi degli oh femminili.
Adesso tocca ai mocassini, per fortuna scamosciati, così da non dover risolvere la questione pedalini che resta sempre incongrua e ridicola. Scalcio il primo in direzione di Giulia, che l’afferra come un trofeo, e il secondo in quella di Elena che si scosta, fintamente ritrosa. Non mi ero mai accorto di quanto potesse essere stronza.
Quindi armeggio con la lampo dei pantaloni. Poi col bottone della patta. Fingo di incepparmi, lo trattengo nell’asola, ancora e ancora, prima di slacciarlo definitivamente. Visibilio del pubblico. Entusiasmo alle stelle. In un angolino del mio cervello, registro che non sto andando affatto male: su un palcoscenico, con qualche gioco di luci in più e una coreografia un attimo più studiata, potrei perfino avere un futuro da entreneuse
In un altro angolino, decisamente più lucido, trovo tuttavia spazio per chiedermi se non sia il caso di finirla lì. Se non sia ormai più che sufficiente.
Mentre mi lascio scivolare la stoffa dalle gambe, penso infatti, veloce, che sto per varcare una linea di non ritorno. Sembra incredibile ma, tra l’avere o il non avere più addosso i boxer, che detto per inciso e senza falsa modestia porto niente male, mi si spalanca una sorta d’abisso. Tentenno. Vorrei sentire una vocina che mi dicesse cosa fare. In un barlume di autoconsapevolezza, mi si presenta  l’immagine di Carla, ma dura appena un istante. La musica mi trascina, o forse ormai sento da dentro il Bolero di Ravel. Potrei fermarmi in qualunque momento. Nemmeno io so quale dei due Roberto avrà la meglio. Sfioro l’elastico e guardo Elena. Mi piacerebbe vederle abbassare quel suo sguardo saccente da sottuttoio. Se lo abbasserà, vorrà dire che ho già vinto. Altrimenti, la sfiderò fino in fondo. Alzo perciò lentamente gli occhi su di lei quando all’improvviso …
Buio, black-out, niente più luce. Non si  vede nulla.
“Ma che caz …” esclama qualcuno.
Tra lo stupore generale e  l’inevitabile scompiglio che sempre segue eventi come questi, distinguo a fatica Claudio e Salvo armeggiare col cellulare per attivarne la funzione “torcia”. Sento come degli squittii e delle risatine di donna.
“Deve esserci stato un sovraccarico di “corrente” … ” fa Giorgio, con quella che vorrebbe essere una battuta ma gli viene male, dato che la pronuncia con lo stesso tono di un bambino all’improvviso privato di un  giocattolo a lungo desiderato.
“O forse no” dice con strana intenzione Giuseppe “Forse Fulvio può fornirci una spiegazione migliore”.
“ Io? E perché mai?” replica il nostro ospite.
C’è troppo buio per distinguere chiaramente la sua espressione, ma, da una lievissima sfumatura della voce che avverto,  giurerei che non sia innocente come lo stupore che manifesta. Mi si insinua un sospetto, ma non ho tempo per lasciarlo attecchire.
Ḕ tardi, si sono quasi fatte le due. Le ragazze cominciano a raccattare borse, sciarpe e soprabiti, muovendosi a tentoni. Gli uomini si alzano con loro, per raggiungere la porta. Poi tutti si scambiano baci e convenevoli, ringraziando i padroni di casa per la splendida e riuscita serata.
Al centro della stanza, ancora in boxer, li vedo allontanarsi rapidamente giù dalle scale. Non so se sia stata una splendida e riuscita serata. Meglio la definirei  una serata diversa.
Se riesco a giungere a casa per tempo, posso dormire un paio di ore, prima che atterri l’aereo di Carla. Mi rivesto perciò in tutta fretta, pensando che non mi hanno quasi salutato.
Pazienza, non credo che avrò voglia di rivederli, almeno per un po’.
Abbraccio invece Fulvio con particolare trasporto e con un grazie più sentito.
“E di che?” mi contraccambia, battendomi con forza sulla spalla due delle sue belle pacche che mi valgono più di mille parole d’affetto.