Che cosa è il tempo

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GABRIELLA MONGARDI.

Uno dei vantaggi del vivere qui, adesso, è che in questo momento storico abbiamo conoscenze sulla natura inimmaginabili dai nostri antenati, abbiamo armi per combattere le nostre paure, rimedi contro le nostre malattie impensabili fino a pochi decenni fa – eppure facciamo tanto gli schizzinosi, rifiutiamo le evidenze scientifiche, equipariamo la scienza a un’opinione qualsiasi…

Alla domanda agostiniana che dà il titolo al convegno organizzato dal Liceo “Vasco Beccaria Govone” domani a Mondovì Piazza – domanda che interpella tutti noi, esseri immersi nel tempo – la scienza sa oggi rispondere in maniera “provvisoriamente definitiva” – e il fisico Carlo Rovelli con il suo libro L’ordine del tempo ha reso accessibili a tutti queste risposte.

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C’è chi, polemicamente, ha definito questo libro un “lavoro di pseudofilosofia con pretese letterarie e non di divulgazione scientifica”. Palesemente non ha letto il libro, o è in malafede.

La divulgazione scientifica non si rivolge tanto agli scienziati di altre branche, ma a lettori colti, di formazione ‘umanistica’ in senso lato e – giustamente – cerca di parlare il loro linguaggio: in questo caso, ad esempio, ponendo in esergo a ogni capitolo alcuni versi oraziani sul tema del tempo, o inserendo nel discorso riferimenti a poeti, musicisti, filosofi che sul tempo hanno meditato, cantato, scritto. O ancora appelli al lettore, o esempi, o similitudini originali – il massimo delle “pretese letterarie”, evidentemente…

Ma è da quando è nata la scienza, è dai poemi didascalici “Sulla natura” dei filosofi presocratici, che gli esempi e le similitudini sono lo strumento principe dell’esposizione e dell’argomentazione divulgativa: perché permettono di spiegare l’ignoto con il noto, i concetti ‘astrusi’ degli specialisti attraverso il riferimento a esperienze più comuni e familiari al lettore. Lucrezio insegna, nel suo De rerum natura – e lo stesso fa Dante nel Paradiso… Un libro di buona divulgazione scientifica non deve essere un trattato comprensibile, sì, ma noioso e freddo: non deve nemmeno cadere negli eccessi della banalizzazione e della semplificazione ‘pop’, e Rovelli si mantiene perfettamente equidistante dai due estremi, la sua è alta e nobile e appassionata divulgazione. Per questo il suo è un saggio scientifico, filosofico e poetico insieme: che volere di più?

Il libro, come tutti i lavori scientifici, si apre con un prologo che ne sintetizza il percorso: il punto di partenza – che è sempre lo stupore di fronte a ciò che non capiamo ancora, e che per questo chiamiamo “mistero”; i problemi che il ricercatore si è posto («Siamo noi a esistere nel tempo o il tempo esiste in noi? Cosa significa davvero che il tempo scorre? Perché ricordiamo il passato e non il futuro?»), il cammino che ha compiuto attraverso le scoperte della fisica, da Anassimandro a Newton a Einstein a Planck a… Rovelli, e infine l’approdo sulla riva del «grande oceano notturno e stellato di quello che ancora non sappiamo».

Tutti i libri divulgativi di Rovelli hanno questo andamento storico, scevro da ogni trionfalismo: mentre raccontano i progressi della conoscenza, dimostrando quanto sapere fisico si è accumulato nel corso del tempo, ribadiscono quanto resta ancora da scoprire, quanto ancora non sappiamo – ma questo non inficia il valore del metodo scientifico, questo è il limite – e la forza – della scienza, che è sempre in fieri, mai perfetta.

Anche in questo libro l’idea di fondo è quella che ha dato il titolo a un precedente lavoro di Rovelli: «La realtà non è come ci appare», questa volta applicata al tempo inteso come grandezza fisica. È dai tempi di Copernico e di Galileo che l’uomo ha imparato a dubitare delle apparenze, a dotarsi di strumenti sempre più affidabili per studiare il mondo, attraverso “sensate esperienze e necessarie dimostrazioni”. Se accettiamo che è tutta una questione di prospettiva, cioè di distanza da cui si guardano le cose, se accettiamo che la materia che sembra così solida e compatta in realtà è un brulicare di “sistemi solari atomici” dove il vuoto prevale sul pieno, perché non dovremmo accettare che il tempo nelle equazioni fondamentali della fisica moderna non esiste? Che il tempo è la nostra ignoranza, la conseguenza della nostra visione ancora sfuocata del mondo?

Dopo aver demolito, nelle prime due sezioni del libro, il tempo del senso comune, dimostrando che gli aspetti caratteristici del tempo (unicità, direzione, indipendenza) sono solo approssimazioni, nella terza sezione Rovelli si muove alla ricerca del tempo ‘perduto’ (in senso fisico, non proustiano), ipotizzando che nel nostro universo reale, dove una variabile tempo non esiste a livello fondamentale, sia il tempo termico – e quantistico – la variabile che noi chiamiamo “tempo”: tutta la differenza tra passato e futuro, per la fisica, consiste nel fatto che l’entropia del mondo era bassa nel passato, e questo è dovuto a noi, più che all’universo, sostiene Rovelli. «La bassa entropia iniziale dell’universo potrebbe essere dovuta al modo particolare con cui noi – il sistema fisico di cui siamo parte – interagiamo con l’universo.»

Negli ultimi due capitoli il libro vira, sì, al letterario, convoca S. Agostino, Proust, Buddha e filosofi occidentali  come Kant, Husserl, Heidegger – ma senza mai sganciarsi da un «sano naturalismo, che vede il soggetto come parte della natura» e individua nel nostro cervello “la macchina del tempo”: «il tempo è allora la forma con cui noi esseri il cui cervello è fatto essenzialmente di memoria e previsione interagiamo con il mondo, è la sorgente della nostra identità. E del nostro dolore». Perché in fondo al tempo, al nostro tempo, c’è la morte.

L’ordine del tempo l’affronta nell’epilogo, intitolato “La sorella del sonno”. Ma quello che Rovelli scrive in queste ultime pagine si deve leggere e meditare da soli con se stessi.