GABRIELLA MONGARDI
Fin dalla prima volta che ho letto questo racconto, sapendo che Fenoglio è stato partigiano e ha combattuto sulle Langhe, sono rimasta sconcertata dal modo così scandalosamente distaccato, antieroico, addirittura feroce con cui egli racconta qui quelle giornate, e ho cercato di immaginarmi le reazioni dei primi lettori nel 1952, quando il racconto fu pubblicato, nell’ingorgo delle ideologie che la vicinanza cronologica ai fatti non decantava. Lo scrittore, con questo racconto, è risultato sicuramente scomodo, indigesto, ostico a quanti alla lotta di liberazione avevano partecipato e creduto, perché ne metteva spietatamente in luce i lati negativi: la disorganizzazione, la mancanza di motivazioni ideali in molti partigiani, le loro paure e debolezze, la diffidenza della popolazione nei loro confronti. Come si permetteva ad esempio – si saranno chiesti i primi lettori – di usare la parola “carnevale” per descrivere la sfilata dei partigiani nelle vie di Alba, o di scrivere che i partigiani «scovarono e si presero una quantità d’automobili con le quali iniziarono una emozionante scuola di guida nel viale di circonvallazione» o che «in materia di governo civile i repubblicani erano più competenti di loro»? Per contro i repubblicani – cioè i fascisti della Repubblica di Salò -, che pure non vengono trattati come eroi, sono quasi sempre al riparo dal sarcasmo fenogliano, e allora? Si deve pensare che Fenoglio sia filo-fascista, o che voglia mantenere una impossibile – e direi immorale – equidistanza tra le parti in lotta?
Il narratore
Certo che no, solo un lettore un po’ superficiale e ingenuo, o frettoloso, può fraintenderlo a tal punto: un lettore che non sappia tenere separati, in un testo narrativo, l’autore, cioè la persona fisica che materialmente ha composto il testo, e il narratore, ossia la voce – necessariamente presente in una narrazione – che racconta i fatti, introduce i personaggi, descrive gli ambienti e via dicendo; il narratore si potrebbe definire “la voce della storia”, è una finzione letteraria, ma è un ruolo immancabile, indispensabile in un racconto, pena la scomparsa della narrazione stessa.
E allora cerchiamo di definire le caratteristiche del narratore dei “23 giorni”: innanzitutto è un narratore onnisciente, a conoscenza di tutto quello che è successo in quei giorni, dovunque sia successo, ad Alba o nei dintorni; è a conoscenza anche dei pensieri e dei sentimenti dei personaggi – la vergogna, la rabbia, la paura, lo stupore, la delusione…; non è quindi un narratore-testimone, ma è piuttosto assimilabile ad un regista che tutto vede, o a un dio che guarda dall’alto la scena.
Nel codice della letteratura, questa posizione del narratore così distaccata è un tratto tipico del poema epico, ma vediamo di precisare meglio la qualità del distacco del narratore fenogliano con l’aiuto delle osservazioni fatte dal professor Giorgio Barberi Squarotti al convegno «La libera repubblica partigiana di Alba, 10 ottobre – 2 novembre 1944», convegno tenutosi ad Alba in occasione del cinquantennale. Dice Barberi: «La prospettiva del racconto è distaccata, lievemente ironica, con la marcata intenzione di diminuire il grado degli eventi, di ricondurli ad una sorta di antieroicità che finisce a ridurli a dimensioni minime, occasionali, infinitamente inadeguate rispetto alla lotta, agli scopi, all’impegno, ai sacrifici. L’angolatura è pittoresca, quasi folklorica. Il punto di vista del narratore è quello di un osservatore esterno rispetto ai fatti, rappresentati di conseguenza, proprio in forza di tale maschera di disimpegno, come una sorta di spettacolo che è recitato con goliardica avventurosità, con un certo disinvolto disinteresse per idee e ragioni della lotta partigiana, come, anche, a tratti, un balletto un poco grottesco. Ma, a ben vedere, il distacco del narratore è, appunto, una maschera: e dietro il racconto ci sono, ben visibili, l’indignazione, l’ira, la disperazione[1]».
L’autore
Questo per quanto riguarda il narratore: ma certo spetta all’autore la responsabilità di aver scelto tale modalità narrativa; secondo Barberi questa scelta esprime tutta l’indignazione, l’ira, la disperazione di Fenoglio per una situazione infinitamente inadeguata al dover essere, per colpa degli uomini che sono venuti meno al dovere e all’impegno d’onore. A mio modesto avviso, la ragione è piuttosto un’altra: il tono comico avvertibile soprattutto all’inizio del racconto ha per me il sapore di una provocazione, una sfida lanciata dallo scrittore Fenoglio ai suoi contemporanei, perché un grande scrittore è sempre scomodo, infrange in qualche misura l’orizzonte d’attesa del suo pubblico, a volte addirittura non viene capito… e infatti come abbiamo visto nel 1949 il libro venne rifiutato, perché era troppo “scandaloso”. Barberi Squarotti ha parlato giustamente di “maschera”: ma chi si “maschera” lo fa per essere “smascherato” ed essere riconosciuto in tutto il suo valore – cosa che forse soltanto noi adesso siamo in condizione di fare. Ad esempio, è vero che la sfilata dei partigiani vittoriosi in via Maestra è rappresentata in modo parodico, come una via di mezzo tra un corteo carnevalesco ed una corsa ciclistica, ma un lettore avveduto dovrebbe riconoscere in questo episodio non tanto la “presa in giro” dei partigiani, quanto la “riscrittura” – aggiornata al Novecento e alle condizioni concrete di una guerra del Novecento – di un elemento costitutivo dei poemi epici da Omero in poi, la rassegna degli eserciti: in questo modo, sia pure attraverso la parodia, è di nuovo all’epica che Fenoglio rimanda, è un’aura eroica (ma al riparo da ogni bieca retorica) quella che vuole creare intorno ai suoi personaggi – perlomeno, intorno a quei duecento che Alba la difesero fino alla fine perché “così bisognava fare”, per quella scommessa con se stessi e con l’onore che è ben più importante di ogni vittoria.
Insomma, se Fenoglio racconta come li racconta i 23 giorni, prendendo le (in)debite distanze da essi, è perché ha la statura di un classico, se è vero che, come ci insegna Leo Spitzer nel suo saggio La smorzatura classica nello stile di Racine, la classicità si raggiunge ponendo la giusta distanza tra l’evento e il suo racconto. Così, grazie a Fenoglio, «Alba entra fra le mitiche città dell’epica[2]», e la Resistenza cessa di essere avvenimento storico per diventare pretesto per andare oltre la storia, nel mondo “altro” della letteratura.
Questo è il filo conduttore che seguirò nella mia lettura, attingendo ancora all’intervento di Barberi Squarotti già citato. Barberi fa notare come quell’episodio della lotta partigiana sia stato consegnato alla storia proprio con l’etichetta che gli ha dato Fenoglio nel titolo di questo racconto, e definisce “cronaca”, sia pure tra virgolette, lo scritto fenogliano, ma questo non ci deve trarre in inganno: mai come in questo caso vale la legge che l’apparenza inganna, e per non essere frainteso il nostro testo non va considerato alla stregua di un “documento” storico, ma per quello che in effetti è, ossia un “monumento” letterario. Non ci si deve aspettare assoluta fedeltà al vero, Fenoglio non è un cronista né uno storico: il suo è un monumento, ossia, etimologicamente, qualcosa che “ammonisce”, che “riporta alla mente”: vedremo alla fine che cosa Fenoglio ci vuole ricordare…
Analisi del testo
È comunque un dato di fatto indiscutibile che il racconto esibisca, fin dall’incipit, un taglio giornalistico: la prima frase sembra il sottotitolo di un articolo di cronaca, o se si vuole il “lead” che ne sintetizza il contenuto – ma assomiglia anche ad una lapide tombale, con le due date che sole contano, ad indicare l’inizio e la fine di un’avventura breve e intensa come la vita, e nella sua apparenza dimessa e prosaica ha un ritmo marziale, dattilico-anapestico: sono infatti riconoscibili un novenario e un dodecasillabo, Álba la présero in duemìla // il dieci ottòbre e la pérsero in duecénto //. La paronomasia presero-persero è quasi un gioco di parole, un semplice spostamento di due lettere, ma di quanto significato si carica in questo contesto, che è anche, implicitamente, un bilancio e una denuncia! Duemila e duecento sono numeri simbolici, solo apparentemente impassibili: il rimprovero, l’amarezza vibrano nella differenza tra i tanti del momento trionfale e i pochi della sconfitta, e si traducono in una altrettanto implicita domanda: «Dov’erano gli altri milleottocento?», domanda a cui il racconto fornirà più di una risposta, diretta e indiretta…
La smorzatura, l’understatement che caratterizza l’incipit si mantiene in tutto il racconto che, mantenendo volutamente l’andamento di una cronaca, rispetta rigorosamente l’ordine cronologico degli eventi. Proprio le indicazioni cronologiche ci permettono di scandire il testo in sei sequenze: più lunghe la prima e l’ultima, che narrano rispettivamente il primo e l’ultimo giorno dei partigiani ad Alba; brevi e nervose le quattro centrali, che riferiscono di un tentativo fascista di riprendersi la città, di un colloquio tra capi fascisti e partigiani, dei preparativi per la battaglia finale. Mancano protagonisti individuali, il racconto non ha eroi né nomi, tranne quello della città; lo sguardo di Fenoglio distingue solo gruppi e sottogruppi: i repubblicani e i loro capi, i partigiani e i loro capi, i preti con il ruolo di intermediari, i borghesi… forse anche questo è un modo di prendere le distanze…
In compenso abbondano i suoni, che compongono una grandiosa sinfonia, attentamente orchestrata. Il racconto si apre e si chiude con i rintocchi delle campane, suonate la prima volta dai partigiani per annunciare la liberazione e alla fine dai fascisti per la riconquista, ma sempre senza letizia, se la prima volta il narratore commenta: «Sembrò che sulla città piovesse scheggioni di piombo». C’è il battimani della folla ai capi partigiani al balcone: è un applauso non spontaneo, sollecitato dalle guardie del corpo, ma quando incomincia non finisce più ed è caloroso, entusiasta. Si sente la sirena municipale che dà l’allarme e il cessato allarme; «il tuono di motori» dei camion e dei carri armati fascisti, che tentano invano di ritornare in Alba il 24 ottobre e alla fine di nuovo il «rumore arrogante» dei carri repubblicani, che non erano stati nemmeno utilizzati per riconquistare la città e adesso avanzano trionfanti in via Piave. Ci sono voci e parole umane, dai comunicati di Radio Torino al canto e agli improperi dei partigiani, dai commenti dei borghesi al colloquio inconcludente tra repubblicani e ribelli alle informazioni più o meno attendibili portate dai commercianti ambulanti; e c’è la voce dell’acqua – il Tanaro ingrossato dalle piogge e il cadere stesso della pioggia, che diventa un nemico in più contro cui combattere. C’è il boato della mina che dà la sveglia ai partigiani, la mattina del 2 novembre, e ovviamente c’è il rumore degli spari – colpi di mortaio, fuoco di mitraglia – che all’inizio è riduttivamente definito, alla piemontese, “bordello”, ma che nella sequenza della battaglia di San Casciano diventa nobile “vento di pallottole” che fischia nei due sensi. Proprio nella sequenza finale si concentrano tutti i rumori disseminati nel testo, come in un’orchestra in cui suonano tutti gli strumenti nell’ “unisono” conclusivo, in un crescendo di energia, ma su tutti prevale il rumore delle armi, che fungono per così dire da solisti – c’è anche un’onomatopea a sottolinearlo: è «il fragore della battaglia di Alba» – che però a Dogliani non si sente… E com’è amara e graffiante l’antitesi tra quel “fragore” e i rumori della fiera autunnale a Dogliani: non c’è bisogno di spendere altre parole, il giudizio morale di condanna di quei partigiani che sparano sì, ma al tirassegno, è chiarissimo!
Così, dopo un inizio in sordina, antieroico, grottescamente riduttivo, il racconto fenogliano si innalza fino a diventare epos: non importa se gli eroi di questo epos moderno, senza retorica – gratuito e in perdita com’è qui – sono «minorenni che, per non aver mai voluto tirare alle galline, non avevano mai sparato il fucile» (notare l’anomalia della sintassi!), non importa se qualcuno si spalma furtivamente il fango in faccia per darsi più lustro; importa che «dalle sette alle undici passate quei dilettanti della trincea inchiodarono i primi fucilieri della repubblica, uomini che sbalzavano avanti e poi s’accucciavano e viceversa a trilli di fischietto, assaltatori ammaestrati»; che «difesero Cascina Miroglio e, dietro essa, la città di Alba per altre due ore, sotto quel fuoco e quella pioggia»; importa che pensassero che «Alba era perduta, ma faceva una gran differenza perderla alle tre o alle quatto o anche più tardi invece che alle due»…
Importa infine che (per citare ancora Barberi Squarotti): «Pavese ha fatto scendere dall’Olimpo e salire dagli inferi gli dei per farli muovere sulle Langhe, in mezzo a vigne, contadine, rive, ritani; Fenoglio vi convoca Omero, Virgilio, Tasso, Foscolo, intorno ai “ventitré giorni” di Alba, tanto pochi, certo, di fronte ai dieci anni di Troia e alle stagioni di Gerusalemme ed anche alla guerra fra Troiani ed Italici, ma pur essi fatti degni della sublimità epica», grazie al “grande stile” di Fenoglio.
È stato Gian Luigi Beccaria[3] a definire così il carattere specifico, assolutamente originale e inimitabile delle pagine fenogliane: uno stile straordinario, fatto di “energia, dignità e brevità”, opposto sia al bello stile tradizionale, sia alla quotidianità neorealista, sia all’espressionismo deformante alla maniera di Gadda. Beccaria parla di “stile ad alta tensione”, di “astrazione, capacità di ridurre il mondo all’essenziale”, di “una ricerca di originalità di lingua senza rivoluzione formale, in cui dialettismi, latinismi, anglismi, neologismi sono ricerca… di un inarrivabile stile straordinario”.
L’insegnamento di Fenoglio
In conclusione: che cosa significa rileggere “I 23 giorni della città di Alba” oggi, sessant’anni dopo i fatti che l’hanno ispirato? Non vuol dire tanto fare memoria di un episodio della Resistenza: la Resistenza in quanto tale non va dimenticata in assoluto, anche se non ci fosse nessuno scrittore e nessun racconto a ricordarcela; e abbiamo visto che il testo di Fenoglio non pretende affatto di essere un “documento” storico, si muove su tutt’altro piano…
Rileggere “I 23 giorni della città di Alba” oggi, essendo in grado di giudicare con più oggettività, più freddezza dei primi lettori, e significa riuscire ad apprezzare innanzitutto proprio ciò che a prima vista era più urtante, ossia il distacco dello scrittore da se stesso e dal proprio vissuto. Distacco che è ottenuto “per forza di parola”, grazie all’inventiva linguistica e al ‘labor limae’ sullo stile che Fenoglio non si risparmiava. «La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti» – ammetteva, perché «facta dictis exaequanda sunt», come voleva lo storico latino Sallustio: bisogna trovare parole all’altezza delle cose da dire, ed è un impegno non da poco, impossibile senza una presa di distanza… Ma il distacco dell’artista non vuol dire imparzialità o indifferenza, bensì capacità di guardare la realtà da molteplici punti di vista, anche da quello del “nemico”: e questa ricchezza di prospettive, questo multilateralismo è la miglior terapia contro l’intolleranza, contro il fanatismo, contro il razzismo che di nuovo serpeggia nella nostra Italia; questo è il dono più alto che la letteratura – quando è davvero grande, come quella di Fenoglio – ci fa.
(Il testo di Fenoglio è letto da Liliana Fantini)
PUBBLICATO ORIGINARIAMENTE IL 2-11-2013
[1] G. BARBERI SQUAROTTI, La fortuna letteraria dei «Ventitré giorni», in Alba libera: 10 ottobre – 2 novembre 1944, atti del convegno di studi «La libera repubblica partigiana di Alba, 10 ottobre – 2 novembre 1944», tenutosi ad Alba il 29 ottobre 1994
[2] G. BARBERI SQUAROTTI, op. cit.
[3] GIAN LUIGI BECCARIA, La guerra e gli asfodeli. Romanzo e vocazione epica di Beppe Fenoglio, Milano 1984