Tra peccati e virtù: la franchezza

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GABRIELLA MONGARDI

Sarò franca: sulla franchezza ho molte riserve. Siamo proprio sicuri che sia una virtù?
Lo è senz’altro, una virtù, quando in nome della franchezza si ha il coraggio di spogliarsi della propria corazza, della “maschera”, mettendo a nudo le proprie fragilità, la propria intimità, il proprio “cuore”: andando incontro all’altro con fiducia, aprendosi al dialogo senz’ombra di aggressività, rivalità, invidia, paura…

Ma quando la franchezza diventa un alibi di comodo per giustificare il proprio analfabetismo relazionale, la mancanza di riguardo verso gli altri; quando in nome della franchezza ci si arroga il diritto di spiattellare tranquillamente osservazioni sgradevoli, senza pensare alle ferite che apriranno nell’altro, come tante frecce acuminate, allora siamo proprio sicuri che sia ancora una virtù?

Siamo franchi: il detto “patti chiari amicizia lunga” non autorizza spesso la prevaricazione di chi, più forte o solo più insensibile, con franchezza ruvida e un po’ sadica impone la sua “chiarezza” in un rapporto delicato come l’amicizia, in tal modo uccidendolo seduta stante?

Franchezza non è l’opposto di menzogna, ma di riserbo, tatto e diplomazia. Tra la falsificazione più spudorata e dolosa della realtà, l’adulazione più smaccata e ipocrita da una parte e la schiettezza, la sincerità più spietata dall’altra – che sono le scelte estreme del bambino –, si apre tutto un ventaglio di atteggiamenti adulti che modulano la verità e la comunicazione di essa, in base al contesto, ai rapporti che intercorrono tra gli interlocutori, alla capacità di mettersi nella pelle dell’altro.

Se dico al mio capufficio che trovo il suo abbigliamento trasandato, lo offendo gratuitamente (e magari rischio il licenziamento…): non sono tenuta a elogiarne il look, se non mi piace, ma astenersi dal fare commenti può essere la soluzione – “un bel tacer…”. Lo stesso vale se il capufficio sono io e chi si veste trasandato è un mio sottoposto: si chiama mobbing.

Peggio ancora è diffondere opinioni e giudizi negativi, o addirittura malevoli, alle spalle degli interessati: questo non è “esprimersi francamente”, ma squallido pettegolezzo ai danni di terzi, che serve solo ad alimentare le chiacchiere vane di chi ha paura del silenzio, della riflessione.

Anche nei rapporti d’amore, non è detto che il “dirsi tutto” sia una garanzia di lunga durata e di vero affiatamento: un alone di segretezza può risparmiare inutili sofferenze all’altro… Ogni individuo ha diritto a una sua no man’s land, a conservare uno spazio privato all’interno della coppia – finché questo non intacca il noi, s’intende.

Un caso tutto particolare di “franchezza” è quella richiesta nel rapporto medico-paziente, necessariamente asimmetrico, quando il medico deve comunicare al paziente e ai suoi famigliari una diagnosi infausta. Anche in questo caso, anzi, soprattutto in questo, la verità può essere insostenibile e va dosata, graduata, modulata. La diagnosi negativa non va smentita o nascosta, ma comunicata “a piccole dosi”, con empatia: il medico dovrebbe far conoscere solo quella parte di verità che il paziente è in grado di accettare in quel momento.

Sarò franca: è un’impresa sovrumana… Ma siamo al mondo per questo. La morte, non è forse sovrumana?