Varchi

tarlo-x-varchi

GABRIELLA VERGARI

Non sarò un mastodonte e (con buona pace di Cirano) nemmeno un
ippocampelefantocamaleonte, però sono un tipo tosto.
Se ci do dentro, addirittura un flagello.
Non faccio per dire, modestamente.
Poco o nulla a che vedere con gli altri, tipo chessò la pulce nell’orecchio, il
rospo da ingoiare, la mosca sul naso (e neanche la cimice di Majakovskij!).
Ma non amo l’eclatante e disapprovo gli scontri, rifuggo il Grand Guignol.
Perciò non scanno e non sgozzo, non maciullo né sbudello, no.
Estenuo.
Con calma, certo, con pacatezza.
Lentamente.
Perché sto tutto nel metodo, nella determinazione con cui so farmi breccia,
e altroché se lo so!
Datemi un varco, un piccolissimo varco, o magari un pertugio, un buchino,
appena uno spiraglio, un’impercettibile fessura ed ecco che ci sono.
Inavvertitamente (come mi piace) però già lì, insediato prima ancora di
essere percepito, subito in azione, senza indugi né inibizioni, senza remore
né deroghe.
Così spezzo le resistenze.
Snervo le fibre.
Smantello le strutture.
Non mi avete ancora riconosciuto? Sono il tarlo e non conosco rivali: una
volta dentro ignoro le tregue, scavo, rodo, penetro e corrodo meglio di qualunque
altro immaginabile acido.
Più di un lavoro direi un lavorìo.
Che meglio è fatto e meno cessa. Nelle sue espressioni più forti si propaga
anzi diramandosi, con tecnica sopraffina, in molteplici, imprevedibili
meandri ed insospettabili circuiti.
Se mi va, posso davvero rivelarmi un maestro della tortuosità, un Dedalo
dall’estro complesso.
Insomma, se non temessi d’allargarmi troppo, mi definirei un artista, forse
(lo concedo) non un vero tessitore come il ragno ma di sicuro nemmeno
un presupponente narciso, perché alla visibilità ho da sempre preferito la
sostanza (è proprio il caso di dirlo!), con la conseguenza che quando ci si
avvede di me è spesso troppo tardi per correre ai ripari e trovare un rimedio.
E pazienza se non risulterò un gran simpaticone ma non sono cattivo, non
agisco per mal fare.
È questione di talento, vocazione naturale.
Né vorrei la consideraste la cosa più facile al mondo.
No davvero.
Io ed i miei simili dobbiamo innanzitutto padroneggiare le tecniche d’assedio,
perché il più piccolo tentennamento, la minima esitazione, la più lieve
stanchezza ci si potrebbe rivelare fatale, fino agli estremi d’una irreversibile,
completa debacle.
In secondo luogo, dobbiamo cogliere l’attimo, sapere dove quando e come
impadronirci del campo per alloggiarci sicuri, con irreversibile ma discreta
risolutezza.
Infine dobbiamo saper scegliere sede e materia, perché non tutto indiscriminatamente
ci cede.
Mi sento anzi d’affermare (e con buona sicurezza) che ci incuneiamo solo se
ci viene in qualche modo concesso. Sembra paradossale ma è proprio così.
Perché noi saremo pure gli esperti della demolizione silente, ma quante
volte ho avuto l’impressione che si fosse addirittura predisposti o in attesa
del nostro arrivo. Quel che sia assolutamente e tetragonicamente saldo in
sé ci oppone in genere una resistenza che non si riesce quasi mai a minare.
E poi anche noi abbiamo i nostri gusti e le nostre tendenze.
Il successo della nostra efficacia sta nell’impegno con cui ci facciamo largo,
attraverso sommerse gallerie chi può dire quanto mai estese e perniciose.
E basterebbe questo soltanto a dar ragione dei nostri sforzi.
Ma il massimo è il crollo, quel momento compiuto (pur se non tanto frequente
come vorremmo) che ci corona la vittoria.
Così collaboriamo all’eliminazione di quanto abbiamo sconfitto, prepariamo
se volete il terreno al nuovo. Può risultare sgradevole e non di rado
doloroso, ma tant’è siamo anche noi agenti del cambiamento, svecchiamo
a nostro modo.
Vi pare che, come da recente si dice, me la stia tirando un po’ troppo?
Che mi stia ammantando di un’epica missione?
Che tutta questa tiritera sulle dinamiche del nuovo che inesorabile scaccia
via il vecchio sia solo un’ingegnosa e bella trovata per attribuire un
qualche fascinoso carisma al nostro povero ruolo?
Ne siete proprio solidamente, robustamente, tetragonicamente certi?
E allora cosa mi dite dei vermi che proliferano dalle carcasse nettandole
del superfluo?
O dei batteri distruttori, e delle alterne veci della vita e della morte, del
bilanciamento dell’amore con l’odio, o di tutto quanto la natura ha, da che
è natura, (provvidenzialmente?) predisposto per mantenere quel suo perfetto
equilibrio di grammatica divina?
Sempre che noi e voi e quanto ci circonda non siamo al contrario null’altro
che gli effimeri accidenti d’una mera, occasionale meccanicità, priva della
benché minima ratio.
Che c’è?
State forse tentennando? Vi sentite un po’ meno tetragoni di prima?
Ve l’ho detto, sono un maestro in queste cose: l’ho percepito a stento il
vacillamento nella vostra struttura, ma non mi inganno.
Ecco, avete visto? Potrei cominciare da qui.
Basterebbe che mi avvicinassi ancora un altro pochino, quasi a corteggiarvi.
E potrei perfino non farvi paura, è probabile che sulle prime non mi
sentireste nemmeno.
Ecco, ancora un po’, ormai dovreste solo lasciarmi trovare il varco.
No, nessuna violenza, ve lo ripeto, non amo gli spargimenti di sangue,
soprattutto al principio.
Potreste trovarlo finanche piacevole. In qualche caso succede. Si gradisce
l’iniziale solletico.
E di che si tratterebbe poi alla fine: giusto di un piccolissimo cedimento, un
minuscolo varco.
Ecco, così, da bravi, lasciate che vi accosti.
Ancora un po’, ancora un po’…

Da Species. Bestiario del terzo millennio, Boemi editore, Catania 2012.

(illustrazione di Franco Blandino)