Del camionista

trischitta-cover

DOMENICO TRISCHITTA

In questa città di merda non c’è rispetto per la quiete pubblica. Può capitare di sentire i rumori più violenti anche alle cinque del mattino. Anche oggi che parto con questo carico di frutta per Mentone c’è un coglione che prova l’accelerazione della sua moto, un manovale impotente che comincia a martellare chiodi alla finestra. Ed io tra televisori che annunciano i primi fatti ed odore di caffè proveniente dai bar lascio questo centro con le costruzioni annerite dal tempo, che senza il sole sembrano ancora più vecchie. La mia bestia comincia ad esaltarsi solo alla vista del casello, riconosce il tragitto, e romba sulle due corsie autostradali. Mi sono portato dietro il primo album di Baglioni, quello con “Porta Portese” e “Viva l’Inghilterra”, avevo quattordici anni quando lo ascoltai per la prima volta. E così  inizia questo viaggio d’ estate per la Costa Azzurra, per consegnare frutta al mercato ed amore a Natalie, la giovane vedova che ho conosciuto tre anni fa a Mentone. Quella volta facemmo l’amore per tre giorni interi, mangiavamo pesche ed albicocche e forse è per questo che associo l’odore della pesca a quello del suo sesso.

Ogni qual volta salgo sul ferry-boat la prima cosa che faccio è quella di andare sul ponte e prendermi la brezza marina in faccia. Una coppia di giovani tedeschi mi guarda incuriosita o forse sono solo contenti del loro amore e guardano con ammirazione qualunque cosa o persona incroci il loro sguardo. Dicono che le arancine di questo bar siano buonissime, ma una volta mi sentii male e vomitai più volte su quel water senza tempo. Poi ci sono i caronti dello stretto, quelli che lavorano in questi traghetti con le divise avana. A volte li vedi fumare nervosamente o parlano velocemente con quella cadenza messinese o reggina che solo in questo luogo sembra fondersi. Quando arrivo a Villa comincio ad eccitarmi, alla vista in lontananza dei monti dell’Aspromonte. Immagino già quei tornanti di quell’autostrada infinita che sembra attraversare pianeti invece ti porta solo a Salerno e per tutto questo non hai pagato una lira.

Una volta nei pressi di Gioia Tauro, da bambino aprii lo sportello dell’auto in movimento su cui viaggiavamo. Fu l’unica mia intemperanza , l’unico mio momento di “follia”. Da quel momento ho cominciato a rispettare questa strada pericolosa che svergina il sud con gallerie interminabili e silenzi insopportabili.

Potrei percorrerla ad occhi chiusi, conosco tutte le curve e i dossi, i panorami che si stagliano alla destra della corsia compreso lo scorcio di Lagonegro che toglie il fiato a qualunque viaggiatore. Eppure questa strada mi angoscia, anche quando incrocio dei tratti di mare che da quassù sembrano irreali. C’è un cane morto sul ciglio della strada, gonfio e maleodorante che ormai con il suo crudele odore appartiene alla strada come i cartelli implacabili che ti annunciano che tra cinquanta chilometri ci sarà un autogrill. La Calabria è la regione più lunga e più dura d’Italia ma tutto questo non importa.

Dovrei dire come tutti gli altri che sono stanco di questo mestiere ma poi nei pressi di Roma allontano questi pensieri e vado alla solita trattoria a mangiare porchetta ed involtini. Questa volta prenderò l’Aurelia, quando viene l’estate è piacevole percorrerla con tutto quel viavai di macchine e bagnanti che a torso nudo si immettono nei viottoli che danno sul mare. Guido piano, colpito dai colori e dagli odori dell’estate, dalla lenta dissolvenza in nero che mi annuncia che devo dormire. Ho sistemato la cabina per bene, ho spento la voce di Baglioni e penso che domani pomeriggio sarò a Mentone ad annusare il sesso di pesca di Natalie.

Costeggiare la Toscana, ma soprattutto la Liguria mi dà un’ebbrezza unica. E così  ogni volta che giungo alle Cinqueterre, come un ragazzino comincio a gioire alla vista di quelle spiagge che mi avvicinano sempre di più alla costa francese. S. Margherita Ligure, Albenga, Diano Marina, Alassio, Bordighera, Ventimiglia sembrano nomi che mi evocano eleganza e fascino. Giunto a Ventimiglia faccio una passeggiata per il centro. Un po’ per ambientarmi con la Francia, ed allora la vista di tutti quegli uffici del cambio e tutte quelle pensioni mi rilassa e mi dà la carica per varcare finalmente il confine.

Ed ecco Mentone, la città italiana dove si parla il francese, dove mi aspettano il mercato e la giovane vedova Natalie. Sono giunto alle otto di sera, appena in tempo per scaricare pesche e albicocche, ma ancora non riesco a vederla tra la folla di operai nella frenesia della chiusura. Domani ripartirò per la Sicilia, ma intanto lei non c’è, l’amante surreale che fa all’amore con me una volta l’anno, quando vengo qui per trasportare frutta. Il gioco si ripete da tre anni, nessuno dei due sa quando rivedrà l’altro, per questo motivo il tutto è più eccitante ed anche il viaggio diventa leggero, persino per un camionista come me che ha attraversato tutta la Calabria e tutta la costa tirrenica. Forse sarà già andata via, ma le vecchia delle mele dal secondo ingresso mi lancia occhiate curiose e alla fine trova il coraggio di avvicinarsi con passo insicuro e sussurrarmi all’orecchio: “Natalie est mort”.

            GRANDE RACCORDO (Del camionista refrain)

La capitale è cattiva. Le sue linee metropolitane sono gironi infernali circolari che non ti danno pace. Nel mese di agosto i turisti stranieri ingolfano i pensieri dei residenti, degli anziani senza più speranza, delle donne deluse dai figli, e dei giovani automi con i tatuaggi che esplodono la loro rabbia nei tunnel e nelle spiagge di Ostia.

Si erano diplomati lo stesso anno, tutti e tre dello stesso quartiere, la zona che dalla stazione Termini si snoda attraverso via Giolitti e le vie limitrofe, crocevia di militari e prostitute africane, turisti e uomini falliti. L’unica stonatura il Mac Donalds con i suoi odori yankies e gli impiegati in divisa che sembrano dei burattini. Le vie sono tutte intitolate agli uomini importanti che hanno contribuito all’unità d’Italia, lì in quel luogo dove il disfacimento di questo paese appare più crudele, con la sua variopinta rassegna di disordine multirazziale. Neanche Pasolini si sarebbe più riconosciuto in queste arterie che percorreva da solo alla ricerca di carne fresca. I tre avevano un tatuaggio sulla spalla destra, un’aquila in volo che simboleggiava la loro unione, la loro disperazione, il loro odio. E si erano mossi per seguire il loro istinto di vendetta, in questa città cattiva che li respingeva come vermi, loro che lì erano nati e lì volevano morire.
Il meno robusto dei tre, il biondo, all’età di nove anni era stato molestato da un prete durante una gita al Terminillo. Il trauma era ancora presente e lo tormentava come una macchia che non si toglie. Alla vista di un prelato gli correva dietro e lo sbeffeggiava con la lingua satanicamente, era la sua vendetta che consumava a piccole dosi.
Il castano, il più tranquillo, era uno sfegatato tifoso giallorosso. Tre anni prima, durante una partita a Milano, lo avevano accoltellato al gluteo e i suoi compagni, allora, avevano pestato a sangue un avversario. Quella scena anzichè gratificarlo lo aveva fatto sprofondare in una crisi esistenziale, si sentiva un debole e solo nella forza del gruppo ritrovava il cinismo che invidiava agli altri.
Il terzo, il moro, aveva una ragazza fissa da diversi anni, ma aveva scoperto da poco che lei aveva una tresca con un tipo di trent’anni. Questo lo tormentava ma nello stesso tempo non voleva accettarlo, e allora lo rimuoveva del tutto. E succedeva che di tanto in tanto aggrediva i suoi amici per futili motivi.

Il tre agosto Roma è bollente e deserta. Le sue strade assolate producono un effetto ottico simile a quella di un’allucinazione artificiale. I turisti robotizzati scendono nei tunnel dei metrò per i soliti posti: Piazza di Spagna, Fontana di Trevi, Piazza Navona. I magrebini si prostituiscono e spacciano eroina ai bordi delle strade che costeggiano la stazione ferroviaria surreale, Termini, lì termina la vita.

Il biondo, il moro e il castano si danno appuntamento alla biglietteria numero uno. Si lanciano sguardi di complicità e si dirigono all’uscita della linea A. Si dirigono ad Ostia e durante il tragitto non fanno altro che osservare i passeggeri. Una ragazza in canottiera osserva il moro e lui ricambia con occhiate invadenti che la infastidiscono. Il biondo e il castano sono seduti e assorti con gli occhi spenti e giocano con le dita con i fili dei walkman. Arrivano alla fermata di Ostia e si dirigono sulla spiaggia gremita da persone.

La città brulica di vita. Il viavai di passanti occasionali la fa apparire ottimista, ma la sua cattiveria cova dietro gli angoli delle strade. I bus sembrano mezzi per deportati, tra il sudore e l’afa dell’estate implacabile.

I tre si sistemano accanto uno stabilimento balneare e cominciano a spogliarsi e a compiacersi delle loro aquile tatuate. Si sdraiano sulle stuoie sgualcite e ascoltano la musica dei Rem.  Bevono birra fredda che sbavano sui loro corpi abbronzati, osservando il movimento in acqua di alcune ragazze rumorose. Vanno in acqua e nuotano goffamente tra gli spruzzi provocati dai bambini e dai padri che li osservano con diffidenza puntando gli occhi su quei tatuaggi che sanno di violenza. Ritornano a stendersi sotto il sole e si cospargono creme maleodoranti al gusto di cocco, rumoreggiano e cantano in inglese, poi il castano intona un inno dei tifosi ultrà romanisti e qualcuno, più in là, sorride.

Natalie est mort. Quelle parole mi tormentano da quando ho iniziato questo viaggio di ritorno che mi riporterà in Sicilia. Ho deciso che non andrò più a Mentone e non consegnerò più frutta al mercato. Ho preso l’autostrada del Sole, non mi va di ripercorrere l’Aurelia, la strada dell’andata che mi ricorda l’entusiasmo che mi aveva condotto da lei, il mio amore. I bagnanti sulle strade, l’atmosfera di vacanze, le belle ragazze con i gelati sono adesso solo torture che mi assillano. L’autostrada è cattiva, non ti concede sguardi e distrazioni, ti porta dritta a casa tra autogrill e cavalcavia, tra mezzi distanti che si incrociano tra il solleone di Agosto che mi fa odiare persino quel cartellone che mi annuncia che tra venti chilometri ci sarà Bologna.

I tre cominciano a gesticolare e a battere il tempo sulle gambe, la musica dei Rem è entrata nelle loro vene assieme alla birra che hanno ingurgitato con avidità. Lasciano la spiaggia, incrociano un senegalese e gli danno alcuni scappellotti sul capo, quello dice qualcosa di incomprensibile e si allontana. Sono le due del pomeriggio, si fermano a mangiare in un bar della pasta al forno, poi si dirigono alla fermata del metrò.

Via Principe Amedeo è deserta. Oggi ho deciso di non lavorare e di starmene a casa a guardare la televisione. Ieri è stata una giornata fantastica, quel cliente tedesco che mi ha sborsato un milione per stare con me solo due ore. Sfoglio il “Messaggero”, l’annuncio è sempre là, e intanto il telegiornale delle quattordici annuncia che c’e stato un incidente mortale nei pressi di Venezia.

Il biondo e gli altri due arrivano alla stazione, cercano il napoletano dell’erba e lo trovano seduto a terra vicino il negozio di radioline. Adesso hanno l’erba e vanno a fumarla nelle aiuole vicino piazza della Repubblica. Il moro rivolge, per un attimo, il pensiero sulla sua ragazza, poi con un gesto di stizza sferra un pugno sull’erba secca e aspira nervosamente una boccata di marijuana. Le rondini sembrano impazzite, sfrecciano ininterrottamente da una costruzione all’altra. Il caldo non risparmierà neanche loro.

Sono ancora una bella puttana. Adesso la televisione mi annoia e decido di andare a bere un caffè qui di fronte, al bar dei siciliani, ma oggi non lavorerò.

I tre adesso si alzano, ritornano verso Termini, i loro occhi sono lucidi ed arrossati. Il biondo emette un rutto e si tocca la testa, accompagnando il gesto con la mano in maniera veloce e insolita. Giungono al MacDonalds di via Giolitti e lì si introducono. Ordinano tre birre tra un gruppo di giapponesi senza espressione, che vestono pantaloncini e scarpe usurate dall’asfalto romano. Bevono tutto d’un fiato tranne il castano che ne lascia metà e spegne dentro una sigaretta appena accesa. Escono e svoltano a destra, due grasse prostitute di colore disturbano il loro passaggio ed allora il moro le apostrofa duramente. Svoltano ancora a destra e si trovano dinanzi via Pricipe Amedeo.

Ho appena preso il caffè e penso di ritornare a casa, a godermi una doccia fredda che duri il più possibile. Attraverso la strada, tre ragazzi, tra cui uno molto bello, mi vengono incontro sorridendo e barcollando, anch’io sorrido e faccio per scansarli ma il moro mi si para davanti, puzza d’alcool, allora cambio direzione ma lui si volta e mi segue sin quando infastidita lo scanso con la borsa. A quel punto tutto diventa più confuso, il ragazzo si gira di scatto, fa per andarsene, poi ritorna e mi dà una pedata violenta sulla schiena, grido ma un pugno in faccia mi illumina come un flash. Avverto appena, mentre il naso mi sanguina copiosamente, che i tre fuggono gridando come forsennati.

Roma è città matrigna per i poeti che l’hanno abitata, cattiva per i pendolari della provincia, malvagia per i professori meridionali, ingannevole e stupefacente per i turisti che la visitano.

Il biondo, il moro e il castano sono assaliti dal panico, il più tranquillo pensa che è forse meglio andare a casa sua ad ascoltare musica. Si sdraiano sui divani e si fanno un’altra canna, la musica degli Oasis si espande per tutto l’ambiente. Quando “Don’t look back in Anger” si diffonde il castano scoppia in un pianto liberatorio, mentre gli altri dormono noncuranti.

Sono le sette del pomeriggio quando mi lascio alle spalle Firenze. Il mio tir, scarico, sembra leggero sull’asfalto rettilineo, le prime effusioni del sole che comincia a sbiadirsi preannunziano l’arrivo imminente della sera. Dovrei essere a Roma attorno alle undici, là mi fermerò per fare rifornimento e poi proseguirò per Caserta dove penso di fermarmi per dormire un pò.

Sono le sei quando i tre rinvengono dalla sbornia. Il moro sfoglia il “Messaggero” e si sofferma sulla pagina degli spettacoli e si accorge di un porno-show di quella sera in una discoteca di Torvaianica: “Seula la gazzella in hard” . Decidono che andranno là, ad osservare la diva da vicino, la diva che conoscono dai films che hanno visto spesse volte a casa del moro.

Le luci della capitale cominciano a propagarsi velocemente, dal Colosseo a Trinità dei Monti. La gente nei metrò torna dal mare, stanca e sfinita, qualcuno dorme seduto con il walkman in testa, qualcuno legge il giornale, altri parlano rumorosamente strisciandosi tra loro i corpi caldi e abbronzati.

Alle nove fanno il loro ingresso in discoteca. Una bolgia, tatuati in canottiera sostano davanti al palco ad aspettare la pornostar. Loro si infilano tra la folla e riescono a piazzarsi tra i primi posti. Le loro aquile sono luccicanti al contatto con le luci fosforescenti e lo è anche Seula che appare imponente nel piccolo palco. Indossa stivali di pelle e giarrettiere nere, agita una frusta di cuoio in direzione dei ragazzi, che sono pressati e controllati a vista dai gorilla. L’esibizione di Seula è avvincente ma non eccessivamente provocatoria, gioca con i ragazzi ma mantiene le distanze, ed in uno di quei frangenti il biondo tira fuori un piccolo lenzuolo dove stava scritto: “Seula sei la mia droga, le tue tette la mia siringa!”. A quel punto gli altri due cominciano a prenderlo in giro, lo sollevano in aria ma sono subito scoraggiati dai guardiaspalle della star.

Alla fine dello spettacolo si trattengono nel locale, vanno a giocare a biliardo, la fatidica carambola a tre palle, tutte uguali come sono uguali loro con le aquile sulla spalla.

Tra mezz’ora giungerò a Roma, in quell’immenso raccordo anulare che è uno dei miei segnali che mi dicono che sono diretto a casa. “Natalie est mort”, “Natalie est mort”, “Natalie est…” Non riesco più a ricordare il suo volto, la forma dei suoi capelli, è come se fosse svanita per sempre e con lei quella città dal nome familiare: “Menton”.

Sono sulla strada del ritorno, con quella Renault 5 scassata del biondo, ad ascoltare ancora una volta l’album dei Rem “New adventures in hify”. La loro andatura è lenta e il moro rolla un’altra canna, sarà l’ultima della serata.

Si fermano su un cavalcavia, scendono dalla macchina e si affacciano sul reticolato ad osservare le luci del grande raccordo. Aspirano con voluttà gli ultimi tiri, il castano si infila la mano nel giubbotto e si ritrova quella palla, rotonda, la palla da biliardo. In un attimo lancia la sfera oltre il reticolato mentre sopraggiunge un tir targato Cosenza o Catania, è colpito in pieno sul vetro frontale, il lungo camion si ondeggia come un serpente fino a rotolarsi oltre il guard-rail e schiantarsi contro un casolare abbandonato.

Roma è matrigna. La stazione Termini brulica di vite artificiali. Chi alla ricerca di una dose, chi di una marchetta, chi di qualche spicciolo, chi di una fica, chi di un cazzo, chi di un panino, chi di una sigaretta, chi di uno spino, chi di un treno…

Una bella puttana brasiliana si infila con due valigie nel corridoio del tredicesimo binario, dove un cartellone annuncia che partirà un treno per Falconara tra dieci minuti.

(tratto da Le lunghe notti, Avagliano, Roma 2016)

***

Il libro di Domenico Trischitta Le lunghe notti verrà presentato domani 26 gennaio alle ore 18 a Torino, nello “Spazio incontri” della Biblioteca Civica Centrale in via della Cittadella 5. Introduce e conduce la discussione Willy VairaLetture di Valentina Duretto e Luigi Sefusatti.

***

Mi interessava costruire un trattato narrativo sulla precarietà esistenziale che interessa tutti gli esseri umani, dai ricchi ai poveri. I gesti quotidiani ci confortano ma allo stesso tempo ci costringono dentro una gabbia sociale che vorremmo varcare. Ecco, i miei personaggi vanno fuori di testa, imprimono una svolta che cambierà per sempre il corso della loro vita, in un solo giorno, in una sola notte. Senza perdere mai di vista il rapporto paritario che deve esserci tra scrittore, personaggi e lettore. Una raccolta di racconti che aspira a farsi leggere come un romanzo, pur rimanendo un affresco di ritratti, e nelle cui sezioni si trova la chiave di lettura che accomuna tutti, chi rimane e chi muore, appunto come in un ossimoro di rimandi casuali che investono un intero destino, quello dei singoli e quello collettivo. Come nel caso del camionista, della prostituta e della pornostar.[Dall'intervista di Caterina Arcangelo a Domenico Trischitta]

trischitta

Nato a Catania, Trischitta è scrittore e autore per il teatro. Ha pubblicato il romanzo Una raggiante Catania (Excelsior 1881), vincitore del Premio Martoglio, e il romanzo Glam City (Avagliano). Nel 1995 è aiuto regista di Franco Battiato nel Socrate Impazzito di Manlio Sgalambro andato in scena nell’Estate Catanese. Nell’Aprile 2016 è andato in scena il suo testo teatrale Sabbie Mobili, prodotto dal Teatro Stabile di Catania, con Guia Jelo e la regia di Massimiliano Perrotta. Le lunghe notti (con nota critica di Giuseppe Pontiggia) è la sua ultima pubblicazione.