GABRIELLA VERGARI
La maglietta è sempre quella.
L’orario pure.
Se mi affaccio, durante la pausa, dalla finestra del mio ufficio, ti trovo già lì, immobile come stai, seduto di spalle, mentre aspetti, se aspetti. O non piuttosto contempli. Oppure rifletti. Mi piacerebbe sapere su che. Sei forse un filosofo? Un sognatore? Un innamorato respinto? Un disoccupato? Un lavoratore licenziato?
Resti così per un’oretta. Poi ti alzi e te ne vai. Dove, mi chiedo e perché ti scatta questa personalissima, impellente ora x?
Da quando sei apparso, non riesco a non pensarci.
E fantastico.
Ogni tanto mi piace. Immaginare le altre vite mi dilata la mia. Dicono che avrei dovuto fare l’attrice. O dedicarmi alla scrittura e raccontare storie, ma non credo di averne né il talento, né la pazienza. Perciò mi accontento di questa forma surrogata di approssimazione al possibile.
L’altro giorno, ad esempio, quel signore che, tutto compito, portava un palloncino legato al polso, mentre con le mani libere teneva un inconfondibile cartoccio da torta.
Facile, mi sono detta: è il compleanno di un nipotino.
Ma, tanto per cominciare, bimbo o bimba? Già più complicato, perché il palloncino era di quelli sagomati a forma di numero e di un colore neutro, unisex. E poi, ho proseguito, perché è lui a portare la torta, e non i genitori? E perché lo fa a piedi? Ha forse la macchina a riparare? Magari non la possiede proprio. O potrebbe essersene sbarazzato, al momento di andare in pensione. Troppe spese per uno stipendio ormai ridotto. Potrebbe sennò abitare a due passi, e voler essere d’aiuto alla figlia nelle sue nuove incombenze di genitore.
E se si stesse invece dedicando al volontariato? E si stesse recando ad alleviare le sofferenze di un bambino malato? L’ospedale pediatrico è in fondo a pochi minuti da qui.
Potrebbe trattarsi del figlio della sua vicina, che gli sorride quando lo incontra in ascensore e lui, che è vedovo da poco, trova un insolito conforto nell’improvviso vuoto che gli si è creato attorno. O potrebbe essere lei da confortare, nella disgrazia che le è piombata addosso, di un figlio sofferente e di un marito assente…
Insomma, cose come queste.
Poi la mia pausa è finita e il signore ha svoltato l’angolo. La torta, il palloncino e tutto il resto sono andati a far compagnia all’universo delle mie fantasie dismesse e il giorno seguente mi sono concentrata su altro. Ḕ un gioco, che non ha nulla a che vedere col cacciare il naso negli affari del prossimo (non mi interessa conoscerli realmente) e che non sempre faccio, eppure mi aiuta, eccome se mi aiuta.
Con te però è diverso (oddio, suona come una frase da amanti).
Sono ormai dieci giorni che ritorni, con costanza. Potrei addirittura regolarci l’orologio.
Chi sei, dannazione? E che ti spinge, su quella panchina, da solo.
Ḕ questo, la solitudine, a rappresentare la tua cifra? Eppure le tue spalle sono ampie e ben dritte. Non ti accartocci su te stesso, come ho visto altri, su questa stessa panchina, vinti, abbattuti, come incapaci di mai più riemergere dai marosi della sciagura. Mi sembri più in attesa. E di che?
Ci sono: hai dato un appuntamento o hai scritto a qualcuno. Alla tua donna. Certo, deve essere andata così. L’hai lasciata venire in Italia, perché almeno lei avesse un futuro migliore e, ora che pure tu sei finalmente arrivato, stai cercando di riprendertela. Ma, stufa di aspettarti o stanca dei tuoi progetti e delle promesse disattese, lei si è sposata e adesso aspetta un figlio. Perciò non sa che fare. Le hai nuovamente sconvolto la vita. Tipico tuo. Ma le hai anche giurato e spergiurato che questa volta sarà per sempre e per il meglio. Né demordi. Le hai assicurato che l’aspetterai ogni santo giorno della tua vita e speri sempre di vederla apparire da un momento all’altro, nella filigrana delle foglie di questo giardinetto ben curato, che nulla sa dei tuoi tormenti e continua nel suo percorso vitale, al soldo delle stagioni.
Dici che non ho capito, che è invece tua moglie, ad aspettare un altro figlio? E tu non sai più come sbarcare il lunario. Dipendono tutti da te. Troppe bocche da sfamare, troppe responsabilità, troppi carichi, troppi per le tue spalle forti ma non incrollabili. Stai dunque pensando di lasciar tutto e andar via?
Ma allora perché te ne stai fermo in questo modo, come se non avessi fretta e non ti curassi del tempo che scorre senza attendere i comodi di nessuno?
Né dai segno d’inquietudine.
Devi essere uno flemmatico. Non ti si scombussola con poco. Probabile che in casa tutti sbraitino, urlino, fremano e si agitino e tu dal tuo canto sei qui, a cercare una forma di decompressione, prendendo un po’ d’aria invece della pistola che custodisci chissà dove, per metter per sempre fine all’ inferno di questo tuo quotidiano. Beh, sai che c’è: te la sei voluta. Tua madre te l’aveva detto che non era la donna giusta e che ti avrebbe fatto soffrire.
Oppure la ami, ma hai saputo che ti tradisce da più di un anno, con uno molto più vecchio di te. Non avresti dovuto impedirle di lavorare, né fare tutte quelle storie per i suoi vestiti.
Di che ti lamenti, faccio quel che posso, per scoprire il tuo mondo. Non che tu me lo renda semplice, no davvero. Sarai pure flemmatico ma mi resti comunque imperscrutabile, né mi metti granché a disposizione. Mi devo accontentare delle briciole. Quando mi affaccio, ti trovo già seduto. Deduco che la mia pausa suoni un po’ dopo il tuo arrivo. Perciò, tanto per cominciare, dal mio punto d’osservazione non riesco mai a scorgerti gli occhi. Men che meno il viso, o le scarpe. E non puoi sapere quanto possano parlare, di un individuo, le sue scarpe.
Se le tue fossero, per ipotesi, infangate o impolverate, potrei immaginarle logorate da lunghe distanze o vari cammini o forse dal lavoro in campagna. Potresti essere un bracciante che cerca un po’ di riposo nell’unico ambiente cittadino che gli venga familiare.
Ma (perché no?) potresti anche essere un giramondo. Sicuro, ti piace la vita on the road.
Eppure ti sei fermato giusto qui, davanti a me. Devo prenderti per un segno del destino, una traccia nel labirinto della mia vita? Farti assumere, chessò, un valore simbolico? Sei tu che sei venuto a me o io che ti sto trovando, lasciandoti incarnare mille sapori diversi, prendendoti un po’ come una Musa, per quanto onestamente improbabile?
Come dici? Chi lo sa come son fatte le Muse? Diamine, hai ragione. A questo non avevo sinceramente pensato. Al di là delle loro infinite rappresentazioni nel corso dei millenni, è vero: nessuno lo sa com’è fatta, o quando può apparire, la Musa, men che meno la propria. Ḕ per questo che stai lasciando tanto spazio al mio libero fantasticare? Lo credi pure tu che, come tante volte si afferma, le storie accadano a chi le sappia trovare, riconoscere o narrare?
Oggi mi va ad esempio d’ immaginare che hai un doppio lavoro (in fondo potrebbe essere: vesti in modo dignitoso). Il secondo l’hai ottenuto da poco e, tra la fine del primo e l’inizio dell’altro, ti consenti una pausa, nella quiete di questo scampolo di natura. Il verde ti rilassa, benché il tuo amore vada ai colori, ti ricordano la tua infanzia. Perciò indossi il rosso: è una specie di portafortuna Oppure la tua divisa. Il tuo modo di proclamare al mondo che ti senti vivo, e in sintonia con l’energia del creato. Certo, nulla osta (come sai non sono in grado di escluderlo) che possa invece essere una sorta di divisa vera e propria e rechi perciò sul davanti il logo della ditta che, tu guarda la combinazione, ti ha assunto proprio dieci giorni fa.
Ti senti decisamente affaticato, come stupirsene, però hai anche ottenuto quel po’ di sicurezza in più che da tempo desideravi. Non è che adesso navigherai nell’oro, però non potrai più nemmeno tanto lamentarti. La ruota sta finalmente girando. Tra poco, se ne accorgerà anche chi ti sta accanto. Rincaserai forse sfinito ma non più frustrato e voglioso di dare il tormento ai tuoi.
E se saprai farti bene i conti, forse da qui a sei mesi avrai pure lo spazio per un week-end fuori città. Andrai a trovare tua sorella, che è una vita che non la vedi.
Dovrai portarle un pensiero. Un profumo? Se non piuttosto un prosciutto, con la fame che, poverina, ha vissuto. Ti ha fatto da madre, prima che la lasciassi per metterti in gioco, come allora le hai detto al momento del commiato.
O piuttosto sei sparito da un giorno all’altro. Non te la sei sentita di vederla controllare, come al suo solito, il pianto.
Volendo potresti pure portarle una gonna, rossa come la tua maglietta…
Ho appena il tempo di stabilire se retta o plissettata, che qualcuno dall’altra stanza mi chama. Ḕ il capo.
Uffa, non vale: la pausa si sta concludendo troppo presto. E so già che, quando avrò terminato il turno, non ci sarà più tempo. Anche questa volta te ne sarai andato. Dove? Ah, saperlo.
Ma va bene così, ricominceremo domani … perché tanto domani ritorni.
Non è vero che ritorni?
il racconto fa parte dell’antologia AA.VV., Da una panchina. Variazioni in rosso, Catania 2017.