Arte di nicchia: la grafica d’arte

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FULVIA GIACOSA

A Cuneo c’è l’“Officina delle arti”, negozio di Belle Arti con una saletta espositiva che è punto d’incontro di appassionati cultori e produttori di grafica d’arte, vasto contenitore che trova applicazione in campi disparati e, coerentemente, attinge a formule iconografiche e stilistiche anche molto diverse.
Sta su uno dei viali perimetrali del centro storico voluti da Napoleone sulle abbattute mura della cittadella, per secoli inespugnata nonostante i tanti assedi.
Qui un gruppo di artisti produce ed espone opere nelle varie tecniche grafiche e di stampa per un pubblico curioso di una sezione dell’espressione artistica solo apparentemente facile da avvicinare. Va detto infatti che un minimo di dimestichezza con gli aspetti tecnici è indispensabile per capire non solo gli esiti stilistici ma la sostanza ultima di un certo operare, vale a dire l’estetica che è motore delle scelte tecnico-formali. Al visitatore dunque si chiede uno sforzo ulteriore, un po’ come al lettore di brani poetici si chiede di oltrepassare il contenuto dei versi per cogliere la forza comunicativa della struttura – metrica e linguistica – di una lirica.
Ad aiutare il curioso ci sono la gentilezza e disponibilità di Cristiano Fuccelli che non è avaro di chiarimenti sulle caratteristiche delle diverse tecniche dei lavori esposti: incisioni a rilievo (xilografie su legno, linoleografie su linoleum) o “in cavo” (segni incisi sulla matrice calcografica metallica, come bulino, acquaforte, acquatinta, puntasecca, maniera nera, cera molle). Spesso le tecniche tradizionali subiscono varianti sperimentali nei materiali e nell’esecuzione che possono comprendere anche una dose di casualità: solo quando si alza il foglio di stampa l’opera si manifesta pienamente al suo stesso autore.
Da lui si impara a porre attenzione ad almeno tre fattori: il supporto o matrice dell’incisione (carte di grana diversa, legni la cui consistenza e trama determinano l’esito della stampa, pietre), lo strumento o sostanza che scava la matrice (bulini, punte, acidi) e il procedimento di stampa.

Ma veniamo alla mostra di questi giorni dal titolo “Fogli d’arte II”, ad un anno di distanza dalla prima collettiva, realizzata in collaborazione con l’“Associazione Nerofumo-stampa d’arte”.
Artisti giovani ma già conosciuti per aver partecipato ad altre rassegne espongono insieme ad altri che hanno un curriculum decennale; la maggior parte viene da specifici studi accademici (soprattutto all’Albertina e a Brera), altri hanno frequentato studi privati di incisori, altri ancora si sono avvicinati a questo mondo da autodidatti ed hanno testardamente acquisito esperienza e competenza. Li accomuna la passione per una forma d’arte un po’ di nicchia, che esclude il coup de théâtre (l’incisione richiede metodo, sistematicità, ricerca paziente e verifiche continue, in sintesi lentezza e attesa): la grafica dialoga con il fruitore sui toni del sussurro e non del grido.
I lavori esposti, unificati dal valore assoluto del segno tradotto in impronta, ora lieve e quasi svaporato ora nitido e scavato ora aggrovigliato su se stesso, variano in relazione alla poetica ed alle tecniche coltivate da ciascuno.

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Alcune opere rivisitano l’ampio repertorio seicentesco sul tema della “vanitas”. Michelangelo Biolatti  lo reifica in una conchiglia ed un cranio animale utilizzando più tecniche in mescolanze sperimentali (“Vuoto di memoria”, 1918) mentre Paolo Giuliano isola dai tradizionali contesti con più oggetti-simbolo il memento mori del solo teschio che giganteggia sul foglio; ce ne dà due versioni consentendoci di leggere il processo genetico dell’immagine, dal primo stato ad acquatinta dalla morbidezza quasi tonale, al secondo stato ad acquaforte, cupo e drammatico nell’intreccio fitto di segni.

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Stefano Allisiardi lavora ad acquatinta con esiti pittorici concessi da tale tecnica e presenta due figurine che affiorano da un paesaggio arboreo per soli accenni, così che l’immagine si dà come reminiscenza anziché veduta diretta; una seconda opera appartiene ad una serie titolata “Medaglioni” e presenta un volto racchiuso in tondo che indaga caratteristiche fisiognomiche ed epidermidi africane.  Lucia Aimar sceglie l’acquaforte e l’acquatinta; nel suo interno architettonico arioso e silente la precisione calligrafica del pavimento in prospettiva s’incontra con le lievi tracce delle pareti che arricchiscono lo spazio fisico della sostanza impalpabile di emozioni e sogni dove alle stagioni è consentito mescolarsi (“Autunno Estate”, 2010). Al paesaggio naturale Cristiano Fuccelli dedica un’acquaforte e un’acquatinta; l’artista parte dai propri scatti fotografici per isolarne un particolare (le onde furiose di “Abisso”, 2016) o per ricomporre vedute di luoghi diversi e inventare un incantato scorcio boschivo (“L’ultimo nido di Arpie”,  che richiama Dante e il suo illustratore ottocentesco Gustave Doré) dove le rapitrici sono invisibili ma par di sentirne il battito d’ali tra le fronde.

Tutt’altra lettura del paesaggio è quella di Marco Tallone che predilige l’anonimato di certe periferie con fabbricati in disuso, freddi spazi abbandonati rivitalizzati dallo sguardo partecipe dell’artista che li attraversa con guizzi lineari, quasi a indicare possibili percorsi nel nulla (“Ai margini”, 2017, acquaforte).

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Dario Raschieri sceglie vedute in lento avvicinamento, da terra o dall’aria (due “Senza titolo”); nel primo caso una montagna (Vesuvio?) resa con una tecnica mista che ricorda la grafica pubblicitaria tanto coltivata dalla pop, ha nella parte bassa strisce campite nere alternate ad altre bianche che nella loro apparente astrazione fanno pensare ad una baia (Napoli?); nel secondo caso un paesaggio a volo d’uccello ricorda un porto o anche una palude nella tassellatura dalla gradevolezza pittorica.

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Piccoli cammei sono la xilogrfia e l’acquaforte di Bruno Giuliano: una rosa ed un cardellino incorniciati sul bianco del foglio che nella precisione dei particolari appartengono alla tradizione illustrativa di erbari e bestiari addolciti da uno sguardo carezzevole e tenera vicinanza al mondo naturale. Mescola invece natura e geometria Oscar Giachino in una serie di acqueforti ed acquetinte (“Codex Nautilus”, 2018) cogliendo la rispondenza di forme naturali e altre geometrico-architettoniche: un pesce guizzante si avvolge a cerchio, memore delle ottocentesche stampe giapponesi a inchiostro nero su matrici lignee,  ove il segno restituisce una natura “vivente” colta nella fuggevolezza dell’istante; ad esso è accostata la pianta di Santa Maria del Fiore con la tricora trecentesca e il cerchio di base della cupola brunelleschiana dalle auree proporzioni.

Intrise di significati simbolici e reminiscenze filosofiche sono una puntasecca (“Blank trought the veil of Maja”, 2018) ed una linoleografia (“Iceberg”, 2014) di Alberto Cordero, dal segno pulito che illustra come in un prontuario visivo concetti astratti e forme pure.

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Non manca una vena gioiosa in questa mostra: ci pensano le acqueforti di Danilo Mondino, grafico che si occupa anche di illustrazioni per l’infanzia, con una serie di topini-canottieri a puro contorno sul candido supporto e con un simpatico orsetto che cavalca un’ “Astronave” (2018) abitabile, figlia non certa ma assai probabile dei progetti futuribili  del londinese Gruppo Archigram degli anni ’60 e ’70.

Alla musica di Debussy si ispira la stampa “Clair de lune” di Sonia Gavazza con il tondo leggero a inchiostro bianco della luna in alto a sinistra e, in controluce, una serie di surreali personaggi che si agitano su un parterre immaginario seguendo il ritmo libero del brano per pianoforte ispirato ai versi di Paul Verlaine. Come nel brano musicale le note alternano armonie e dissonanze, rarefazioni ed effetti timbrici, così nell’opera a stampa la composizione non è assoggettata ad alcuna regola: ogni personaggio si muove in piena libertà sospeso a mezz’aria in uno spazio immaginario, il segno (un po’ Max Ernst, un po’ Schiele, un po’ Giacometti, artista a cui nel 2015 ha dedicato un ritratto xilografico) ondeggia ora morbido ora aguzzo.

Chiude la mostra un’opera di Michele Bruna solo tangente con il mondo della grafica anche se in effetti ancora si parla di calco, per la precisione quello di una corteccia realizzato con un impasto di carte tenuto insieme da resine che lo rendono traslucido. Il giovane artista ha elaborato un metodo sperimentale di lavoro, originale pur se non immemore di alcune esperienze del secolo scorso (da Dubuffet a certe operazioni “povere”), che consiste nella collaborazione della natura al processo creativo da cui origina un linguaggio primario, organicamente metamorfico. Il recupero valoriale della manualità artigiana, oggi raro, lo avvicina al paziente lavoro degli stampatori.

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INFO. Sede della mostra: Officina delle arti, corso Giovanni XXIII, 24, Cuneo (tel. 0171 1988127, officinadellearticuneo@gmail.com). orari: lun-mar-gio-ven 8,30-13 /15,30 -18,30; merc 15-19; sab 8,30-13,00