STEFANO CASARINO
Siamo, ancora una volta, a Carnevale: una festa vissuta oggi in modo molto diverso da qualche decennio fa. Sentita in modo particolare dai bambini, ma anche da qualche mamma (e qualche nonna) che non vede l’ora di acconciare i suoi pargoli. Occasione per folleggiare anche per gli adulti, alcuni dei quali coltamente citano l’adagio oraziano: Semel in anno licet insanire, “una volta all’anno è lecito fare i matti” (almeno il latino serve a qualcosa!).
Ragionandoci sopra, però, oggi non è più semel, “una volta l’anno”.
Abbiamo Halloween al Primo Novembre – c’è forse ancora qualcuno tra i giovani che chiama quel giorno “Ognissanti”? –, coi suoi travestimenti macabri, le sue zucche illuminate dall’interno e la formula “dolcetto-scherzetto” (in inglese trick-or-treat).
Non manca qualche travestimento pure a Natale: tanti si vestono di rosso e sfoggiano posticci barboni bianchi per partecipare al “Santa Klaus running”, la corsa dei Babbi Natali.
Abbiamo, infine, svariate possibilità di “carnevale estivo”: insomma, si sono moltiplicate le occasioni per mettersi in maschera.
Ma da dove nasce questo bisogno, che oggi è evidentemente ben più forte di prima?
L’etimologia del termine ci aiuta sino ad un certo punto: “carnevale” deriva, abbastanza agevolmente, da carnem levare, con riferimento al periodo successivo, la Quaresima, quando, appunto, si deve eliminare dalla dieta la carne e praticare astinenza e digiuno.
Con ciò comprendiamo due cose: anzitutto che è una festa cattolica, inserita nel calendario liturgico; e, soprattutto, che il termine ha un valore apotropaico, cioè di reazione e di allontanamento di un evento negativo.
Se dopo verrà il periodo del pentimento e della mortificazione, ora è il tempo dell’allegria e della festa; se dopo si osserveranno rigidamente i precetti, ora è il momento della trasgressione.
Tutto giusto, ma un po’ riduttivo.
Se si allarga lo sguardo alla storia delle culture umane in una prospettiva storica ed antropologica, si scopre altro.
Anzitutto, che questa festa eredita il posto e il senso di altre feste del mondo classico: ad esempio, le Antesterie (“le feste dei fiori”), che nell’antica Grecia si svolgevano in onore di Dioniso nel periodo tra febbraio e marzo, all’appressarsi della primavera, e durante le quali si facevano gare di bevute, coinvolgendo anche bambini e schiavi.
Ma feste analoghe si ritrovano anche nelle culture mesopotamiche e in tante altre culture indoeuropee ed hanno sempre il valore di “rituali di passaggio”, dal mondo del buio (l’inverno, la morte, l’Ade, il regno dei morti) al mondo della luce (la bella stagione, la vita, la fecondità), col potente significato simbolico e sacrale dell’assunzione di una “maschera” che conferisce caratteristiche stra-ordinarie, diverse dal consueto e quasi soprannaturali.
Un momento, quindi, di particolare solennità, che comprendeva talvolta anche il rogo di un pupazzo, usanza mantenuta tuttora in alcuni Carnevali (il Babaciu a Santhià, il Pupo a Fano, il Tasi a Cento, ecc…): anche qui è evidente il valore simbolico, la distruzione del vecchio in preparazione del nuovo.
Tutto questo, credo, oggi si sia del tutto perduto, non riscontro né consapevolezza né voglia di prepararsi a tempi nuovi, a migliori stagioni.
Oggi abbiamo certamente edulcorato e banalizzato il Carnevale: ma soprattutto l’abbiamo inflazionato.
E allora, forse, nel tentativo di riscoprire un po’ del suo significato primigenio possiamo rivolgerci alla poesia: cito un autore a me caro, Giorgio Caproni (1912-1990) con un testo, che come tutta la vera poesia, non necessita di alcun commento:
Il mare brucia le maschere
Il mare brucia le maschere,
le incendia il fuoco del sale.
Uomini pieni di maschere
avvampano sul litorale.
Tu sola potrai resistere
nel rogo del Carnevale.
Tu sola che senza maschere
nascondi l’arte d’esistere.
(La foto del Carnevale di Mondovì 2018 è di Samuele Silva)