Decidersi. Ogni decisione travaglio,fatica.
Al decidersi concorrono il dentro, il fuori, l’oceano, la luce dell’alba, un piccolo libro di un’anonima mistica portoghese, l’incrociare la vita d’altri…
Decidersi è una rinascita.
Che mare gelido questa sera
corrervi a riva non è una festa:
odore di petrolio lacrime acide e declino.
Ci navigarono eroi eroine a sfondare orizzonti
mai periferici alle passioni vere
bagnati d’antiche memorie
con vele e vascelli pronti a inquietare il tempo
e farlo breve intenso vero.
Ogni sera ogni notte
uno scoglio diverso.
Gelido questo mare questa sera.
Allontana con geometrica perizia
il volere questo figlio il non volerlo.
Non mi soccorrono luna né fiotti di stelle
e vado sillabando sì no non so
senza saliva e voce.
Tremano gli occhi sulle onde scure
e onda scura cresce e si sostanzia in cuore.
Scogli ruvidi.
Ruvida vacanza.
– Alzatevi innalzatevi crescete
e attorno germinate ma dal dentro iniziate
e si disancori ogni dolore
e si tracci una strada che ciascuno a se stesso
possa tornare e da se stesso andare. –
Era una colomba a parlare in un poemetto
mistico – Donne di luce – lasciato nella stanza
dell’albergo a pochi chilometri da Faro.
Anche un piccolo zaino
hanno lasciato.
Avevo preparato la valigia a Torino
per andare oltre la muffa
d’un rapporto spento
senza sorrisi senza fiato sospeso
senza canti.
Avevo seguito una voce lontana
quasi un soffio un sussurro di genesi.
Genesi di me dal sudario d’un dolore.
Donna di dolore ora.
Ruvido dolore .
Genesi di me da un sudario d’incertezza.
Eppure avevo lavorato.
Tanto lavoro a quell’ipotesi d’amore
a due magari anche a tre.
Vi lavorai di cesello e pazienza
di sogni e di sorrisi di tremanti carezze
di sfide e di equilibrio di bagliori
e riposanti ombre e frescura.
E non bastò.
Non era bastato.
Infreddolita torno in albergo
dopo tanto camminare a riva.
A riva di nessun sorriso e alcuni congedi.
Infreddolita e col vento dentro.
Ne ho mangiato di vento queste notti.
Ne ho mangiato di sogni velati.
Ne ho mangiato di porti sognati.
Ho inghiottito una fuga.
Ora mi fermo.
Davvero mi fermo.
Apro le pagine a caso
svogliata tanto per non pensare.
Anche quelle di ieri le ho lette a caso.
Svogliata inquieta
a sillabare sì no non so
senza saliva e voce
con tutto quel vento mangiato
quel vento scuro mangiato.
Una pagina coi bordi
macchiati di caffè: la apro.
–Tutto un grondare il mio cuore
tutto un grondare l’anima mia.
Un grondare di doppie vie
doppi sentieri doppi pensieri.
Un grondare l’incompiuto
la scelta sospesa.
Un grondare strati e strati
di chi sono stata di chi fui. –
Chi sono ora
chi sono diventata?
– Dov’eri tu quando navigavo
da fuori del tempo di eternità mi spogliavo
ed un punto tessuto in te mi facevo
e non sapevo bene se ero me te e qualcun altro
che in te prendeva gioia
pane luce speranza soffio
prendeva assetato
e da assetato in te s’immergeva –
Al domandare
altro domandare.
Come le parole del libro
ed il tubare di colomba
m’abbiano articolato
quella musica inaudita
fatta domanda come non so .
Sento l’eco di conchiglia
e mi pare che un orecchio di me interno
si formi: una coclea fucina di messaggi.
Chi sono ora
chi sono diventata?
Sono anche quel punto
quella navigazione silente
quell’impoverirsi d’eterno
e iniziare il provvisorio
il desiderare erratico
pieno di linfa e di vita frusciante
in un punto appena piccola carne
appena piccolo sangue.
Sono anche quello.
Sono anche quell’impoverirsi d’eterno.
M’addormento stavolta
con addosso la luce d’un faro
e dentro vicissitudini di cellule
di faville di sangue
di carne lasciata essere in carne
di parola lasciata in altra parola
di gemito soffiato in gemito
di vita caduta in altra vita.
Ora officio il mattino
che il vento è chiaro.
Flebile ariosa la luce mi saluta
e scendo gradini verso la brezza
abbraccio i colori che fuoriescono piano
da case palazzotti giardini piazze.
Scendo gradini e incrocio
una donna alta sottile
capelli corti grigi passo sicuro.
Lei sale: ha già visitato il mare stamattina.
Scale da salire scendere e poi sarò così?
Con elegante equilibrio dentro fuori attorno…
Ho sottobraccio il libretto
con pagine macchiate di caffè
– Donne di luce – Basta niente:
quella donna emanava luce
ed era normale.
Aveva da portare se stessa
senza pose e ruoli
con misura la sua misura.
Percorso infinito trovare la propria.
Percorso non fuga.
– Fai fare inchini al cuore
che posi il suo ardore all’ospite
inutile passeggero e sostanziale
e senti come corona sui tuoi capelli
la luce che da te sale s’espande
e non sapevi d’averne tanta
che fosse un po’ tua
e un po’ dell’inatteso che hai incontrato.–
L’inatteso: il libro l’esile donna
e quella domanda come musica profonda…
Eccomi tra le braccia
di quell’impoverirsi dell’eterno.
Tra le braccia del chiaro
d’una mattina propizia
d’una brezza che azzarda
un’acuta carezza dalle galassie
a me e imparo a celebrare
un nuovo inizio con tremore.
Sono in vacanza.
Lo so appena ora.
Ho fame: una bella sensazione.
Il mio corpo di nuovo un palinsesto
di desideri: insalata di polpo con tonno
di Tavira e le folhados, un bicchiere di bianco
fette di banana al flambé con gelato e miele.
Negli interstizi del cuore un traffico
di piccole speranze mi prende
e ti chiedo silente – E tu fragile vita, hai fame? –
Di cosa hai fame?
Si, tu che ancora sei me, di cosa hai fame?
– A rispondermi la colomba
del libretto ripreso in mano nella siesta
– Addormentata nell’anima giace
la fame e le è compagna la sete
di parole vere porte aperte sorrisi
amorosi sguardi lacrime asciugate
canti sospiri gesti d’amore furtivi
accorato calore dell’umano che t’è vicino . –
Che ti è vicino.
Che ti è vicino.
Siamo in vacanza.
E lo so appena ora che ho fame di vita.
Si potenzia lo sguardo al mondo
al selciato al nuoto delle nuvole in cielo chiaro
a vicoli speziati alla luce là in fondo
alla calce di vecchie piccole case
ai volti ai volti ad ogni volto
e di nuovo a quel passo sicuro.
L’abbiamo già incrociato
ti ricordi.
Dalla patria dei libri
s’era separata sui trent’anni
abbassate le serrande d’una libreria
abbassate le serrande d’un amore
che sembrava grande. Sembrava.
Da una metropoli grigia ma ancora umana
fino ai balconi affacciati su onde alte
e con lo scricchiolio di altra vita dentro.
Aveva pianto ma era partita
e nell’Algarve trovato lavoro.
Un po’ infermiera dama di compagnia
lettrice traduttrice segretaria
qualche spolverata a mobili senza tempo.
Quella bizzarra prozia di Tavira
s’era fatta piccolo porto
e lei inquieta s’era piegata
alla grande pazienza di ritmi lenti
di quotidiano uguale a quotidiano.
In quel piccolo porto
bizzarro aveva partorito.
Ora la figlia ha aperto le serrande
dell’amare
e d’un locale a Faro:
ci navighi bevi spremute
mangi la frutta e leggi leggi leggi.
Tanti libri piccoli libri
di piccole case editrici
di autori locali di poeti.
– E ora aiuto mia figlia
quattro ore al giorno. –
Incrociati gli sguardi
sopra una spremuta
al locale di sua figlia.
Incrociati gli sguardi
sotto quelle foto tutt’attorno
della prozia delle ancore dei fari
delle schiume degli azulejos.
Incrociati sguardi e parole.
Siamo in vacanza.
Siamo in vacanza davvero.
– E ora tengo i contatti
scovo chi scrive parole
con poca penna
azzardo inviti al locale di mia figlia.
Qualcuno viene
e legge legge legge
incrocia sguardi
e vive. –
E vive.
Vive la vita di me in me.
Era ora.
Vive la vita che è in me
che un po’ è me un po’ l’amore che m’ha amato
e sarà altro.
Viviamo ora.
Viviamo.
Finalmente.
(Foto di Bruna Bonino)