ANNA STELLA SCERBO
«L’uomo che seppe la guerra e le lotte degli uomini, imparò dal fascino della notte il chiarore del giorno». (Carlo Levi)
La ricezione della poesia di Rocco Scotellaro ha risentito per più anni del giudizio di Carlo Levi nella prefazione da lui curata per Mondadori nel 1954 della raccolta di poesie È fatto giorno. Egli scrive: «Non ha radici colte (la poesia di Scotellaro), se non quelle dell’antichissima ed ineffabile cultura contadina».
Tale giudizio influenzò anche la critica tedesca che negli anni sessanta studiò con attenzione il fenomeno Scotellaro non discostandosi dall’originario giudizio di Levi. La poesia del poeta-sindaco sarebbe troppo semplice e non conterrebbe alcun indizio di influenza della grande poesia tradizionale. A viziare la percezione del valore delle poesie di Scotellaro è stato senza dubbio l’aver voluto considerare come prevalente l’attività politica su quella artistica e aver voluto cogliere in lui soprattutto il rappresentante e il portavoce della Questione del Mezzogiorno in Italia. Il problema Scotellaro rimane dunque aperto su due fronti.
Esiste uno Scotellaro “politico” che rappresenta il mondo contadino meridionale dal di dentro. Lo “scatto di fiducia preventivo” in quel mondo, pur ferito dall’incedere del novecento che lo aliena dalle sue radici culturali, gli permette di intravedere, al contrario di Levi, la possibilità che il meridione ha di liberarsi da secolari e pesanti pastoie di asservimento e di partecipare, attraverso un percorso di autodeterminazione, al mondo nuovo venuto fuori dal secondo conflitto mondiale.
Esiste uno Scotellaro “poeta” sul quale è ancora in atto il dibattito se debba essere considerato l’autore di una poesia semplice e ingenua o piuttosto il portavoce di una nuova forma di poesia. Egli, intellettuale finissimo, sarebbe il protagonista di un’operazione singolare. I suoi versi si nutrono di una storia e di una cultura antiche e popolari e questo non è dato contestare. Ma ciò che i suoi versi producono è qualcosa di molto simile ad una poesia del tutto originale.
La sostanza antica dell’universo meridionale si mescola con l’inquieta coscienza novecentesca, la nostalgia dei tempi e dei luoghi amati si fa scarto e dissonanza con l’attuale, e la parola, libera da ogni possibile orpello, si fa pietra assolata e ruvida, ridotta al più scarno dei significati.
La poetica di Scotellaro ha il fascino arcaico della sofferenza e dell’ amore per la vita. Egli è Poeta puro, ancora oggi considerato il più genuino e forse il primo simbolo poetico nella civiltà contadina. Il canto di Scotellaro è il pianto ribelle di chi si è visto sottrarre ciò che gli spettava di diritto.
‹‹ Ho capito fin troppo gli anni e i giorni e le ore /gl’intrecci degli uomini, chi ride e chi urla / giura che Cristo poteva morire a vent’anni / le gru sono passate, le rondini ritorneranno. / Sole d’oro, luna piena, le nevi dell’inverno /le mattine degli uccelli a primavera /le maledizioni e le preghiere››.
‹‹ Spuntano ai pali ancora /le teste dei briganti, e la caverna /l’oasi verde della triste speranza /lindo conserva un guanciale di pietra››.
E ancora Levi afferma: «Il cammino percorso da Scotellaro, in pochi anni, da un muto mondo nascente ad una piena espressione universale, era quella di secoli e secoli di cultura: troppo rapido per il suo piccolo, fragile cuore contadino».
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È stata tentata una scansione temporale dell’opera di Scotellaro, una prima, 1940-1946, della giovinezza; una seconda, 1947-1949, dell’epopea contadina; una terza, 1950-53, della poesia della disperazione.
Un altro tentativo di definizione dell’opera del poeta è stato operato in Germania, nel 1997. A Münster, il professore Manfred Lentzen propose allo studente Carsten Mann, laureando in Lettere, di scrivere la sua tesi su Scotellaro. Mann pensò di usare grandi aree tematiche per meglio analizzare e definirne l’opera, tra le altre, “La terra d’origine”, L’emigrazione”, ”Le poesie politiche”.
Tanto la prima quanto la seconda operazione non suscitarono grande interesse, né apportarono novità alla conoscenza del poeta. Il Centro di documentazione “Rocco Scotellaro e la Basilicata del secondo dopoguerra” di Tricarico, in collaborazione con le Edizioni Modern Poetry in Translation del Queen’s College di Oxford, ha voluto la pubblicazione in lingua inglese sulla rivista «MPT» di alcune poesie di Rocco Scotellaro. La rivista inglese è attenta soprattutto alle tematiche universali di cui il poeta di Tricarico è portatore, prima fra tutte la difesa della dignità dell’uomo. Tutto questo, aldilà dell’ importanza delle singole iniziative, testimonia l’interesse che una parte significativa dell’ Europa continua a nutrire nei confronti del poeta. Sebbene non apporti novità, e lo abbiamo detto, la divisione temporale della poesia di Scotellaro, pure è innegabile che ad un certo punto egli abbia cambiato registro poetico. La poesia Lucania del 1940 è tutta negli stilemi del Crepuscolarismo di inizio Novecento:
‹‹M’accompagna lo zirlio dei grilli /E il suono del campano al collo /D’una inquieta capretta. /Il vento mi fascia /Di sottilissimi nastri d’argento /E là, nell’ombra delle nubi sperduto /Giace in frantumi un paesetto lucano››.
Non è difficile riconoscere “il mondo delle povere, piccole cose”, né si fatica a non trovare alcuna eco delle problematiche successive e già dolorosamente presenti nella sua terra. Dunque, la poesia giovanile di Scotellaro (quale ossimoro per un poeta morto a trent’anni) entra di diritto nell’atteggiamento della poesia ermetica degli anni Trenta e nella tacita opposizione alla magniloquenza del regime fascista. Ma Scotellaro aveva deciso di abbracciare la “religione dei poveri” e di travasare la politica nella poesia. Tale impegno, dopo la caduta del Fascismo, presupponeva che anche la letteratura fosse letteratura di “battaglia”, strumento liberatorio e non più consolatorio, territorio aperto di rivendicazioni e di diritti.
‹‹È fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi /con i panni e le scarpe e le facce che avevamo./ Le lepri si sono ritirate e i galli cantano, /ritorna la faccia di mia madre al focolare.››
‹‹ […] I reduci borbottano nelle Camere del Lavoro./ Nessuno più prega/ ma braccia infinite assiepano i campi di grano.››
«Sto in viuzze del paese a valle / E sto bevendo con gli zappatori, /non m’hanno messo il tabacco nel bicchiere, /abbiamo insieme cantato /le nenie afflitte del tempo passato / col tamburello e la zampogna.»
L’elemento della sincerità nel racconto poetico sembra essere dominante così come i richiami ai simboli- segni è obbligatorio. Tre stralci da tre liriche diverse composte tra il1945 e il 1948, anni di terribili attese e di grandi speranze per il Sud che aspettava la Riforma Fondiaria e viveva in miseria il dopoguerra. Il poeta, sindaco di Tricarico dal 1946, dovette sentire come imprescindibile fare scendere nella strada la sua poesia, affidarle sangue e passione di lotta. La sconfitta del 1948 del “Fronte Popolare” spense in lui ogni residuo di ottimismo e di speranza.
‹‹Oggi, ancora e duemila anni/ porteremo gli stessi panni./Noi siamo rimasti la turba/ la turba dei pezzenti/quelli che strappano ai padroni/ le maschere coi denti.››
Lo stesso può dirsi quando la poesia spazia all’esterno ed oscilla tra un dato idilliaco e un dato reale e concreto fino alla inevitabile condanna, nel contrasto solo apparente, tra l’individualità e l’abbandono alla pluralità, tra il canto come monologo, o quasi, e quello corale o tendente alla coralità.
«Già non accenna l’alba / e noi siamo risospinti /per dura forza del tempo da colmare /
e mettere dei gesti nell’aria ad occhi chiusi.»
Dal monologo alla pluralità delle voci, alla protesta, alla ribellione sentita come tale:
Siamo nel mese innanzi alla raccolta:
brutto umore all’uomo sulla piazza
appena al variare dei venti
e le donne si muovono dalle case
capitane di vendetta.
Gridano al Comune di volere
il tozzo di pane e una giornata
… E ci mettiamo a maledire insieme, il sindaco e le rondini e le donne,
e il nostro male si fa più forte…
Affiora chiaramente il senso di appartenenza al mondo contadino con i suoi riti e le formule, le credenze e le certezze, la cultura e la metodologia e soprattutto con la volontà di riscatto, di cambiamento e appare, legittimo e certamente giustificabile, una sorta di populismo vecchia maniera o ottocentesca:
«E non sempre il risultato è felice», scrive Giuseppe Amoroso. «Scotellaro, doveva avvertire dentro di sé la difficoltà derivante dall’essere un” intellettuale organico” e di ambire, nello stesso tempo, al ruolo di poeta lirico. Sapeva che di rado la poesia politica si fa poesia lirica, che di rado raggiunge la categoria dell’universalità, legata com’è ad un momento preciso, deperibile nei contenuti e nelle attese. Eppure dal 1950 e per tre anni, fino alla morte, compone i versi più convincenti, più autenticamente lirici, nei quali a fare da alimento sono il senso profondo di una realtà antica, una riflessione ripiegata e drammatica sulla propria e sull’ altrui condizione umana, fatta di dissonanze, di privazione e di perdita».
‹‹Ho perduto la schiavitù contadina,/non mi farò più un bicchiere contento,/ho perduto la mia libertà./Città del lungo esilio/di silenzio in un punto bianco dei boati, […], /
devo disfare i miei bagagli chiusi,/regolare il mio pianto, il mio sorriso./Addio, come addio?/ terra gialla e rapata /che sei la donna che ha partorito,/e i fratelli miei e le case dove stanno/
e i sentieri dove vanno come rondini/ e le donne e mamma mia,/addio, come posso dirvi addio?[…]››
Questo è il Rocco Scotellaro quale appare a noi, un poeta importante e non solo per il Sud e non solo per la testimonianza che ne ha dato. Di lui amiamo il sentimento della vita, il rifugio nella memoria lirica, la caduta “delle maiuscole”, come amava dire di fronte all’infrangersi dei sogni, la sorprendente, netta consapevolezza dei limiti della storia.