La protesta è tutta un rap

rap

LORENZO BARBERIS

You’d rather see me in the pen
Than me and Lorenzo rollin’ in a Benz-o
(NWA)

“La protesta è tutta un rap” è un brillante saggio dello scrittore e libraio monregalese Marco Picco, edito nel 2017 tramite un crowdfunding su Bookabook.it, casa editrice che – dopo la loro selezione editoriale – consente la prenotazione di un titolo di vostro interesse sul loro sito, a prezzo scontato (“to book”, se non erro, in inglese indica anche la prenotazione). Un libro innovativo anche sotto questo aspetto (anche se gli editori riconducono correttamente tale modalità al positivista Comte, nel 1850).

Da insegnante di italiano delle superiori, ho trovato il volume molto interessante. Parlare di musica con gli allievi è consigliato pedagogicamente da tutti i testi, per creare una connessione tra quanto si studia a livello teorico in ambito poetico e un loro possibile interesse personale. La poesia è infatti probabilmente il contenuto didattico più difficile da mediare, specie in un istituto non liceale, specie se tecnico e a prevalenza maschile (stereotipi di genere, certo, ma duri a morire). Il problema è che spesso come testo “di mediazione” per arrivare alle considerazioni sulla guerra di Ungaretti il testo medio propone ad esempio “La guerra di Piero” di De André, con un giovanilismo… insufficiente

Ovvero: è un contenuto valido, che può essere proposto, ma che ha per un pubblico giovanile la stessa distanza di una poesia di Ungaretti: un testo “novecentesco”, lontano. Il discorso sul rap è invece differente: c’è una percentuale (non maggioritaria, ma non irrilevante) che in varie sfumature lo ascolta, ne dibatte, gli dà un valore “identitario”. E indubbiamente qui la mediazione è in parte possibile, perché il rap, molto più di ogni altra tradizione musicale contemporanea, si fonda sul potere della parola: è quindi quello che ha più potenziali connessioni con l’insegnamento poetico (ad esempio, un ragazzo mediamente appassionato di Rap non ha di solito problemi a capire il concetto di “allitterazione” e la sua importanza).

Questo volume permette di storicizzare in modo efficace il fenomeno rap, inserendolo in un più ampio percorso storico, culturale, artistico (perfino con notazioni pertinenti sotto il profilo architettonico, nello sviluppo dei vari quartieri), in linea coi Cultural Studies cui Picco fa riferimento (i quali definiscono, nel 1964, il concetto di “subcultura“).

Tutto comincia da un dettagliato studio sull’incubatore del Rap, il Bronx, quartiere newyorkese all’inizio d’élite, col suo Grand Concourse come viale alberato di lusso, modellato sui Champs Elysées parigini, a inizio ’900.

Tuttavia a partire dagli anni ’50 una edilizia popolare crea la crescita della popolazione nera povera nel quartiere, portando al suo declino sociale e facendone poi gradualmente il simbolo per antonomasia del “quartiere degradato”, usato ancora oggi nel linguaggio giornalistico più sciatto. Infatti il Bronx – quartiere da un milione e mezzo di abitanti – è stato in gran parte oggi risanato, anche se l’estetica del ghetto che qui si viene a formare continua a valere per altre periferie urbane, non solo americane.

Fu soprattutto Reagan, a quanto pare, a fare del Bronx questo simbolo negativo, aiutato in questo dall’immaginario hollywoodiano dei primi anni ’80: il grande repubblicano voleva infatti favorire invece lo sviluppo delle più quiete e controllabili suburbie.

Picco spiega bene e nel dettaglio queste dinamiche, come bene collega la nascita del rap con un clima di forte tensione che accompagnò la fine degli ultimi strascichi dello schiavismo.
La segregazione scolastica terminava nel 1954, e la presidenza Kennedy (1961-1963), primo presidente non-WASP della storia USA, pose le basi per la fine della segregazione in generale (1964) e la fine delle restrizioni di voto ai neri (1968).

Ma le conquiste avvennero a carissimo prezzo: JFK fu assassinato nel 1963,Malcolm X, fondatore delle Pantere Nere e del nazionalismo nero, nel 1965;Martin Luther King e Robert Kennedy nel 1968. Nel 1969, la presidenza Nixonriportava al timone i repubblicani, accentuando la repressione già avviata sotto il democratico Lindon Johnson di fronte all’avvio di proteste violente nel ’68 americano (intersecate con le proteste per l’intervento in Vietnam dal 1965 in poi).

Il quadriennio 1968-1972 vide il più alto tasso di violenza interna degli USA fino ad ora (le recenti tensioni sotto la presidenza Trump stanno creando il timore di una escalation non lontanissima da quei livelli, comunque finora non eguagliati); conclusa la repressione del movimento delle Black Panther ad opera dell’FBI, la crisi di sistema del 1973 portò a una radicale trasformazione del mercato del lavoro, con perdite di posti di lavoro nel sistema industriale e una ulteriore crisi della popolazione nera.

In questo contesto nasce il movimento hip hop (che include, oltre alla musica rap e ai DJ ad essa collegati, anche la danza hip hop e il graffitismo), che vede quali suoi primi cantori The Last Poets, nome significativo nel rivendicare – magari provocatoriamente – l’appellativo di Poeti.

Significativo perché, negli stessi anni (nel 1975, per la precisione) Eugenio Montale, nell’accettazione del Nobel, proclamava di fatto la “morte della poesia” (ponendo sé stesso, ovviamente, quale implicito “ultimo dei poeti”). In sintesi – e al di là delle astuzie retoriche che rendono il discorso ben più complesso – Montale sosteneva che in futuro sarebbe rimasta una “vera poesia” minoritaria, riserva a una nicchia, o forme “pseudo-poetiche” nella musica commerciale.

“Evidentemente le arti, tutte le arti visuali, stanno democraticizzandosi nel senso peggiore della parola. L’arte è produzione di oggetti di consumo, da usarsi e da buttarsi via in attesa di un nuovo mondo nel quale l’uomo sia riuscito a liberarsi di tutto, anche della propria coscienza. L’esempio che ho portato potrebbe estendersi alla musica esclusivamente rumoristica e indifferenziata che si ascolta nei luoghi dove milioni di giovani si radunano per esorcizzare l’orrore della loro solitudine.” commenta Montale, affettando un ribrezzo snobistico un po’ strumentale, parlando chiaramente dei grandi concerti rock stile Woodstock (1969) e similari. Ma, per certi versi, sul rock potrebbe anche avere un fondo di ragione: non è la parola nuda ad essere portatrice di valore, essa ha – nella maggioranza dei casi – forza nella sua connessione musicale. Le sue contestazioni – per quanto credo lui avrebbe trovato modo di estenderle anche ai nuovi “last poets” che gli contendevano tale titolo – perdono di valore nei confronti del rap, in cui il testo ha una indiscutibile centralità.

Picco ricostruisce bene, poi, come la scena rap newyorkese dei ’70, dopo la pace tra gang del 1971 (di cui parla anche l’arcinoto film “The Warriors”) porta al festival del 1973, allo stile black cool e a una forma di protesta sociale impegnata e sostanzialmente non-violenta, fino a portare nel 1979 all’incisione del primo disco rap, Rapper’s Delight. Il testo rap perde così la sua oralità e diviene ancora più importante la sua componente testuale.

In seguito, negli anni ’80, emerge però anche la scena della West Coast, con centro Los Angeles e il “suo” Bronx, il quartiere Watts, con una storia parallela che sfocia però in un rap decisamente più aggressivo, il gangsta rap, in cui la protesta sociale si lega inestricabilmente all’esaltazione di uno stile di vita criminale. Un vasto successo del genere viene raggiunto con “6′N the morning” (1986) di Ice-T, che condanna le perquisizioni della polizia alle sei del mattino nei confronti dei giovani neri.

L’episodio delle violenze della polizia nel caso di Rodney King nel 1991 e le grandi sommosse del 1992 seguite a Los Angeles acuiscono ancora la radicalizzazione dei testi con testi eloquenti – e condannabili – come “Cop Killer” in “Body Count” di Ice-T (che scatena enormi dibattiti: “sfogo artistico” o istigazione alla violenza). Il gangsta rap guida la diffusione del rap in tutto il paese (e anche oltreoceano) – pur rimanendo una pluralità di voci e di tensioni, ovviamente, ben documentate da Picco – fino a una lotta tra rapper rivali che travalica il dissing artistico: Tupac viene assassinato nel 1996, Notorious B.I.G. nel 1997.

Picco si dedica poi a dettagliare le scene rap extra-americane più significative, inclusa chiaramente quella italiana, con approfondimenti di grande interesse che ricalcano l’accurata impostazione sociologica data allo studio del caso-principe americano.

Insomma, un approfondimento ricco e non così usuale, accessibile anche a un pubblico generalista che voglia farsi un quadro generale del fenomeno, o a chi – appassionato di rap – sia curioso di ricostruire con chiarezza il quadro delle proprie radici culturali. Un’opera insomma di mediazione, tra una cultura alta che si apre alle subculture, e una sub(contro?)cultura che si voglia consapevole, magari proprio per strutturare meglio la propria contestazione contro il mainstream, anche quello più subdolamente disponibile – come me – alle aperture al pop. Perché è sempre giusto ricordare che