GABRIELLA VERGARI
«Che diavolo! La realtà è un luogo piacevole da visitare, ma nessuno ha voglia di viverci a lungo, e certamente la letteratura non ci si è mai eccessivamente fermata… »
L’affermazione dello scrittore americano J. Barth non potrebbe far meglio al caso di chi si imbattesse in questa straordinaria raccolta di racconti di J. Rodolfo Wilcock (Buenos Aires 1919- Lubriano 1978), Lo stereoscopio dei solitari, composta direttamente in italiano e apparsa per la prima volta nel 1972, per i tipi di Adelphi, Mi, con la ‘benedizione’ di questa appropriatissima citazione di Marius Ambrosinus: «Secondo me, Dio è una persona eccezionale.»
Non ci si stupisca quindi di apprendere dell’amicizia dell’autore con Bioy Cesares e con Borges. La loro sintonia artistica è immediatamente percepibile a chi abbia anche solo un minimo di confidenza con questi grandi interpreti del surrealismo ed esploratori del fantastico.
Non più nella sua declinazione ottocentesca bensì in quella moderna che, come felicemente osserva R.Cesarani, Il fantastico, Bo 2006, pp. 134-135, muove soprattutto dall’intento di mettere in crisi i presupposti epistemologici dei lettori, in modo da lasciar loro intuire una realtà altra, letteralmente meravigliosa, che non sia né distorta né aberrata da una cultura prefabbricata nei secoli.
Dichiara a tal proposito lo scrittore argentino (ancora una voce sud-americana) J. Cortázar: «Quasi tutti i racconti che ho scritto appartengono al genere chiamato fantastico per mancanza di un termine migliore e si contrappongono a quel falso realismo che consiste nel credere che tutte le cose si possano descrivere e spiegare come dava per scontato l’ottimismo scientifico e filosofico del diciottesimo secolo, e cioè nell’ambito di un mondo retto più o meno armoniosamente da un sistema di leggi, di principi, di rapporti di causa-effetto, di psicologie definite, di geografie ben cartografate. Nel mio caso, il sospetto che [esista] un altro ordine più segreto e meno comunicabile, e la feconda scoperta di Alfred Jarry, per il quale il vero studio della realtà non risiedeva nelle leggi bensì nelle eccezioni a tali leggi, sono stati alcuni dei principî orientativi della mia ricerca personale di una letteratura al margine di qualunque realismo troppo ingenuo.»
Bene, se si è dunque disposti a sospendere le convenzioni spazio-temporali e, in particolare, i criteri logici cui si sia stati magari faticosamente forgiati fin da bambini, Wilcock può più che agevolmente condurre all’interno del suo universo narrativo, dove Le Forme Nuove – che è peraltro anche il titolo di un bellissimo testo della silloge – creano fantasmagorie imprevedibili al limite del vertiginoso. «C’era stato un numero eccessivo di esplosioni e l’aria era diventata così pericolosa che non solo tutti gli animali erano periti, insieme ai vegetali, ma anche i funghi, che costituivano il regno più tenace e ottuso dal punto di vista sia biologico che letterario. […] Ma la vita stessa non scomparve del tutto, solo che assunse forme molto ardue da descrivere nei termini che si usavano prima della fine del mondo…»
Come dirlo in modo più eloquente e suggestivo?
Certo, arduo può a volte risultare intuire la volontà comunicativa realmente sottesa ad alcune proposte spiazzanti, come ad esempio quella de La Strada, il racconto iniziale, con cui non ho ancora finito di confrontarmi, perplessa, sospettando che si condensi proprio in questa percezione dello smarrimento il suo messaggio più riposto.
Altre volte, la via si fa invece più piana – mai tuttavia pianeggiante – con non rari approdi divertenti, (peculiarmente nell’accezione primaria di de-vertere, portare altrove), e divertiti, grazie anche ad una fantasia che pare sovente godersi – senza peraltro mai compiacersene – i suoi stessi slanci e volteggi.
Uno degli aspetti più intriganti e sorprendenti del volume risiede infatti, a mio avviso, nell’uso ricco ed esuberante della parola, nell’accumulo libero eppur sapiente delle elencazioni, quasi la lingua germinasse spontaneamente da sé per ricreare condizioni e contesti inediti o comunque a modo loro coerenti con le esigenze dei personaggi, quasi essi si rendessero, pure così, demiurghi del proprio ambiente e delle proprie istanze.
Un modesto contributo alla comprensione del comportamento umano verrebbe la tentazione di dire, insieme a Maser, il giovane protagonista de Gli Antropologi, che ogni sera esce in cavalletta, dopo aver inizialmente acquistato un elicottero di seconda mano, a scopo di ricerca: «Intendeva cioè, mediante una campagna accuratamente programmata di osservazione aerea, accertare dall’alto le varie attività a cui si dedica l’uomo contemporaneo quando nessuno lo vede; e questo perché i libri correnti di antropologia e varia umanità riportano al riguardo informazioni quanto mai contraddittorie.»
E come dubitarne, se perfino chi umano non sia, come la sirena che vive in un fiume lento e melmoso, si trova a volte imprigionato in situazioni deprimenti e lontanissime da qualsivoglia prospettiva di sollievo?
O se Malné, l’aruspice dell’omonimo racconto, è costretto a fare i conti con i prezzi che salgono, per non parlare della capra, ch’è arrivata alle stelle?
O se, per ricominciare da zero Gromibo, ispirandosi alla lettura del romanzo Robinson Crusoe, sceglie di trasformare il suo appartamento in un’isola deserta, dove «la sera, al bagliore mistico di infiniti annunci pubblicitari, Venerdì (il nuovo nome della moglie) accende la lampada di olio di squalo e in questa luce da sogno accenna passi di danza gregoriana, mentre allacciati insieme ascoltano il grandioso silenzio della notte, interrotto soltanto dagli urli agghiaccianti dei televisori, dall’ululato cadenzato delle iene lontane?»
Il fatto è che la realtà è fin troppo complessa, per essere univocamente incapsulata in formule e schemi, e la vita è sempre uno scherzo, come drammaticamente apprendere anche l’astronauta Mȍr, dall’involucro di metallo con cui è stato spedito dalla terra verso un altro pianeta, in un’orbita parabolica, ovvero destinata a non arrivare mai in nessun luogo: Il viaggio è tutto, e la ripetizione.
A darne sollievo e soprattutto ad alleggerire l’estrema solitudine che sembra caratterizzare la maggior parte dei protagonisti di Wilcock, è fondamentale uno sguardo che sia costantemente in grado di mutare le prospettive e lasciarsi andare allo stupore per tutto ciò che lo circondi. Pena altrimenti il rischio di lasciarsi sorprendere dal sonno quando giungerà finalmente l’orso su cui il gruppo di scout ha a lungo fantasticato, restando con lo sguardo fisso nel buio, dove poco prima la bestia è fugacemente apparsa. «Due dei piccoli si sono svegliati, escono dalla tenda avvolti nelle loro coperte e si fanno raccontare l’apparizione.
I racconti non coincidono; intanto l’esploratore anziano aggiunge legna al fuoco, per tenere lontane le belve. Viene istituito un turno di guardia e tutti vorrebbero far la guardia, quella notte; vogliono rivedere l’orso. Ma dopo qualche ora di attesa, anche le sentinelle si sono addormentate, accanto al fuoco spento. Alla luce senza colori dell’alba, riappare l’orso, lecca i piatti sporchi, l’interno di una pentola, e se ne va come era venuto, inosservato.»
Come a dire che tutti nutriamo e aspettiamo di confrontarci con i nostri mostri, ma è solo di pochi saperli trasformare in un’occasione privilegiata di conoscenza e, perché no?, forse addirittura d’incanto per la polimorfia del mondo.
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Gabriella Vergari presenterà sabato 12/5 alle 17:30 al Salone del Libro di Torino, presso l’editore Carthago, il suo ultimo libro, Capriccio siciliano.