Lezioni

lezioni1

GABRIELLA VERGARI

Pulsare, pulsare, pulsare…
Il mondo tutt’a un tratto condensato nell’accelerare dei miei battiti.
Sistole e diastole, sistole e diastole. Tic toc, tic toc.
Non capisco come possa accadere, ma quasi contemporaneamente mi pervade una gelida, lucida calma, che mi dilata l’attimo fermandolo sospeso.
Non mi aspettavo di vederti, così all’improvviso, dall’altra parte del marciapiedi, mentre elegante e sicuro come al solito, parli con chissà chi al cellulare.
Nemmeno lo sapevo che ci fossi tornato, in paese. Avrai dei traffici di famiglia da sistemare. Non ti vedo proprio, in questo nostro mondo. Troppo angusto, per te. Potrebbe soffocarti.
Io invece mi ci trovo, da quando, come sai bene, i miei progetti di vita sono andati in pezzi e i tuoi decollati.
Due ragazzi così a modo, tanto, ma tanto intimi e vicini da sembrare gemelli.
Questo, ricordi, dicevano di noi, fin dall’infanzia. E questo eravamo. O forse dovrei dire, questo io pensavo fossimo.
Per te, Alberto, avrei dato la vita. Senza esagerare. E che non fosse la mera fantasia di un ragazzino in fase eroica, lo dimostra, come certo rammenterai, quanto ci sia andato vicino la sera in cui mi sono lanciato in mezzo alla strada per salvarti da quell’ automobilista strafatto.
Traballando come un punching ball sulle tue lunghe gambe, decisamente malferme dopo il festeggiamento della maturità al pub da cui eravamo appena usciti, tu all’inizio mi hai guardato stralunato. Poi, tra l’ottundimento dell’alcool, devi aver evidentemente realizzato e, senza aggiungere altro, mi hai mollato una pacca sulle spalle.
Tutto qui.
Niente ringraziamenti. Niente proclami d’ eterna amicizia. Niente abbracci d’ intesa tra soldali.
Hai proseguito come nulla fosse, ricominciando a fischiettare il motivetto che a quel tempo così ti piaceva.
Io intanto mi riprendevo. Dallo spavento e dallo stupore.
Era accaduto. Avevo appena dimostrato a entrambi di essere stato in grado di salvarti, ricevendo conferma di una generosità di cui non mi ritenevo capace. E questo mi stava riempiendo di sorpresa e calore. Dunque, vedevo in te un amico, per la salvezza del quale avrei potuto letteralmente sacrificare me stesso. Mi sentivo il depositario di un sentimento raro e prezioso, quasi avessi trovato il leggendario tesoro. E la rivelazione mi commuoveva, intensamente consapevole di come Oreste e  Pilade ci si fossero all’improvviso incarnati in una realtà piena e vitale.
Mi avevi distanziato un bel po’, ma non ti sei voltato indietro a chiamarmi, né mi hai aspettato. Sembrava dessi per scontato che ti avrei raggiunto, come se proseguire insieme non fosse un’esigenza reciproca, quanto piuttosto un piacere che mi concedevi e di cui ero l’unico tra noi ad aver bisogno e trarre beneficio.
Quella volta naturalmente non ci ho badato un granché: la serata era stata movimentata abbastanza da richiedere soltanto una proverbiale, epocale dormita. Ci eravamo sentiti padroni del futuro e forse anche del mondo. Naturale che la percezione della realtà risultasse a dir poco sfocata.
Ma nei mesi successivi, qualcosa ha cominciato a prender forma.
Dell’accaduto non avevamo più fatto parola. Tuttavia stava lì a pesare, come stesse tracciando un confine. Non mi aspettavo la tua gratitudine e tra l’altro sapevo bene, quanto sbronzo tu fossi stato, per mantenere una precisa memoria dell’episodio. Tuttavia non mi sarei mai aspettato che incominciassi a staccarti da me. Dapprima impercettibilmente, poi, man mano sempre più nettamente. E io imparavo alla tua lezione, tu il maestro e io il tuo devoto discepolo. Hai fatto uno splendido lavoro Alberto, non c’è di che.
Michele sta diventando così introverso, chiuso. Ma che gli starà mai succedendo?
Te lo chiedevano, a volte. E ti limitavi a sorridere, allargando le mani con quel tuo fare innocente che ti ha sempre conquistato gli altri. E mentre andavo in cerca del tuo affetto, fin quasi  a elemosinarlo, e di una sincera condivisione che non fosse solo della camera dove ci eravamo nel frattempo trasferiti, mi rifilavi sguardi e sorrisi condiscendenti, che invariabilmente mi ferivano. Eri il mio mondo e io semplicemente per te non lo ero, o avevo smesso di esserlo. Una verità cristallina e chiara, come l’acqua di fonte. Che mi faceva male e  non avrei mai voluto bere. E mi scavava di dentro, erodendomi l’energia vitale.
Per parte tua, tu tiravi dritto come un treno, e sempre più mi relegavi ai margini della tua corte che, da quando ci eravamo spostati, per l’Università, a Milano, di giorno in giorno si ampliava, accrescendo la tua popolarità.
Quanto a me, mi sentivo sempre più spesso un giullare patetico, ma non riuscivo a smetterla. Non capivo come fosse potuto accadere che, piuttosto che unirci di più, lo slancio mio di quella sera ci avesse infine tanto allontanato. Allora ero ancora ingenuo e non comprendevo quanto costi la gratitudine a chi non sappia né nutrirla né ancor peggio coltivarla. Oggi capisco bene che il tuo orgoglio ne fosse uscito ferito. Ti avevo involontariamente dimostrato di essere cento volte più generoso e pronto di te. Che in fondo ero io ad essere il più forte e il più leale.  Forse ti sarai pure sentito legato da una sacralità vincolante. Una vita per una vita. Non è così che si dice, nei film, al momento dei giuramenti solenni?
Certo, formalmente continuavamo a stare insieme, ma di tanto in tanto pareva non mi vedessi nemmeno. A volte mi allontanavi proprio apertamente, oppure mi mettevi in difficoltà davanti gli altri, punzecchiandomi disinvolto. Avevi anzi sviluppato una grazia tutta tua, l’avrei detta lieve e sopraffina, nel colpire i miei punti deboli, illividendo il mio giovane cuore. E se mi sorprendevi a rabbuiarmi, avevi poi il coraggio di riderci su scanzonato, lasciandomi da solo a interrogarmi se mi addolorasse maggiormente la spregiudicatezza con cui mi trattavi o l’indifferenza con cui mi vedevi soffrire. Così, da un giorno all’altro sono diventato il tuo zimbello e il tuo scacciapensieri. Più mi svilivi e più evidentemente percepivi lievitare l’autostima.
Pare che, a volte, sia necessario confrontarsi con dei nemici per imparare a vivere davvero. Non dubito perciò che tu mi abbia, come prima ti dicevo, Alberto, impartito delle lezioni memorabili. Non ci credevo che potesse andare davvero in questo modo. E quante occasioni ti ho offerto per provarmi che mi sbagliavo e che fossero tutte fantasie della mia mente in subbuglio.
Finché non sei arrivato al tuo capolavoro, lasciando che ricadessero su di me la colpa e la vergogna di responsabilità che non avevo. E io te l’ho permesso.
Sappiamo entrambi benissimo di chi fosse la polverina che mi hanno ritrovato addosso.
Mi avevi supplicato di portarla a Claudia. La tua Claudia che era però vagamente divenuta anche  un po’ la mia, conquistandomi con la sua inquieta fragilità.
Stava male, molto male, e aveva bisogno della sua dose. Non potevi andare tu, mi hai detto, perché da un momento all’altro sarebbero arrivati i tuoi. Non li vedevi da mesi e non avresti potuto giustificare un’assenza ai loro occhi incomprensibile. Erano venuti a posta dal paese e non te la sentivi di deluderli. Inconcepibile per loro immaginarti al fianco di chiunque non fosse la donna che ti avevano scelto, figurarsi di una sballata che si faceva.
Ma tu ne eri preso. Piagnucolavi che l’amavi. Che senza di lei non ce l’avresti mai fatta, che era quanto di più bello la vita ti avesse donato…
E insomma, per l’ennesima volta mi hai avuto in mano. Mi hai indicato il nome dello spacciatore e un luogo. Mi hai cacciato un mucchio di banconote in mano e mi hai spinto in tutta fretta fuori, chiudendo con un colpo secco la porta, per riassettare in un attimo la stanza e renderti  presentabile per la commedia con i tuoi.
Non so cosa sia andato storto, quella volta, e ancora di tanto in tanto me lo chiedo.
Sarà che ci vuole fortuna anche per cuocere, come dicono, un uovo bazzotto. Mi avevi assicurato che l’avevi già fatto molte e molte volte e che sarebbe stato facile come bere il proverbiale bicchiere d’acqua. Tutto liscio come l’olio. Semplice e senza rischi, a meno di non essere proprio un imbranato sfigato. E a quest’uscita mi avevi fissato eloquente, come a intendere che, certo, io ne potevo essere una buona imitazione, ma c’erano dei limiti a tutto…
In compenso so però a perfezione che cosa abbia per me significato l’andarti dietro.
Ricordo benissimo il sapore acido e amarognolo del fiele che mi è risalito alla bocca.
Non tanto quando mi hanno fermato per portarmi in questura, quanto dinnanzi alla scioltezza con cui hai preso le distanze. Mi dispiace. Non doveva andare così.», e mi hai lasciato solo ad affrontare il resto.
Non me la sono cavata malissimo. Mi hanno sospeso per  un po’ la patente, ma non mi hanno comminato sanzioni economiche.
Comunque il tuo nome non l’ho mai fatto e, se per questo, nemmeno tu.
Né ti ha mai sfiorato l’idea di chiarire. Neppure con Francesca che, per la delusione, dopo un po’ mi ha lasciato. Né tanto meno con i miei, che forse ancora oggi non capiscono, ma hanno comunque avuto la voglia di riaccogliermi senza troppe domande, quando ho abbandonato tutto per ritornare a casa.
Insomma, è finita come sai ma non mi lamento.
Quanto a te, Alberto, tutto bene?
Continui a dormire il sonno sereno del giusto?
E se ti guardi allo specchio, che vedi? Mi piacerebbe saperlo davvero.
Mi attraversa anzi, fugace, il pensiero di passare dall’altra parte della strada per chiedertelo. E quasi muovo un passo nella tua direzione, prima di bloccarmi risoluto: preferisco osservarti ancora per un poco. Che bell’uomo sei diventato. E Francesca deve essere proprio orgogliosa di te. So che alla fine vi siete sposati. Riesci a renderla felice? O la tradisci — non eri certo un campione di fedeltà, quando ci frequentavamo, né, se per questo, di valori perenni –, con le Claudia,  Laura,  Stefania o o le Paola di turno?
Ebbene, sai che c’è? Se mi devi impartire una nuova lezione, questa volta sarò io a deciderla e sarà quella del distacco. Non dico proprio del perdono, non mi sento ancora pronto. Ma non intendo più permetterti di farmi male. Basta, è finita, metto una croce sul passato.
Potrei ancora chiamarti e costringerti a vedermi, a ricordarti della mia presenza, un bruscolo che mi piace pensare di tanto in tanto capace di infastidirti la coscienza…
Invece risolvo che va bene così: e, mentre con la consueta falcata sei ormai giunto a svoltare l’angolo, ti lascio finalmente andare e scomparire veloce alla mia vista.

(tratto da G. VERGARI – F. BLANDINO, Volteggi. Orizzonti di immagini e parole, 2018
Immagine di Franco Blandino)