PAOLO LAMBERTI
Cittadinanza
Il modo in cui Roma affronta il problema dello straniero è molto diverso da oggi: che sia prodotto di una storia arcaica realmente avvenuta o costruzione mitica che consacri più tardi sviluppi, la cittadinanza romana fornisce un modello decisamente più stimolante delle moderne diatribe su ius sanguinis e ius soli.
Almeno a partire dal IV sec. a.C. a Roma si afferma una visione giuridica e dinamica della cittadinanza, che avrebbe molto da insegnare all’oggi. Il mito di fondazione romano, come visto sopra, mina alla base, sin dalle origini, ogni possibilità di ius sanguinis. Ma anche lo ius soli come inteso oggi, una sorta di presa d’atto di una migrazione subita passivamente, è lontano dal controllo che Roma esercitava.
Piuttosto è la lingua a costruire strumento di identità ed integrazione: al termine dell’Eneide (XII, 821 ss.) Giunone finalmente accetta che i Romani siano una specie mista, ma esige che rimangano Latini, e soprattutto che rimanga latinus il loro sermo. E il latino rimane il sermo dell’Impero, che si deve conoscere se si vuol far parte attiva di esso; vale anche per i Greci, la cui lingua per altro gode di uno statuto particolare. Del resto in latino lo straniero non è barbarus, che indica piuttosto, derivato dal greco, l’incapacità di parlare la lingua; piuttosto è chi è lontano, un advena, chi viene da fuori, o peregrinus, chi vaga per campi: è un migrante, appunto. E straniero e forestiero riprendono questa esteriorità di chi viene da un altro posto.
La cittadinanza è uno strumento di governo. Va ricordato come Roma eserciti, già nell’espansione in Italia, una politica di bilateralismo. Infatti scioglie leghe e confederazioni (Latini o Sanniti), e le sostituisce con patti singoli, in cui è il contraente più forte; la rete dei vari patti mette Roma al centro ed isola ciascun altro contraente.
Roma offre non la dicotomia tra straniero e cittadino, ma un continuum. Si parte dai foedera iniqua per gli avversari più ostinati, ed iniqua significa sbilanciato, non eguale, anche formalmente. Si passa poi al foedus aequuum, formalmente tra eguali. In età imperiale vi saranno altre categorie, come i foederati, gruppi omogenei di barbari accolti nell’Impero, o i dediticii, prigionieri sparsi a piccoli gruppi per ripopolare le campagne o i laeti, in origine cittadini romani prigionieri dei barbari poi liberati e reintegrati, quasi sempre non nelle sedi originarie; il termine poi verrà applicato anche e soprattutto ad immigrati dal barbaricum.
Poi, almeno dal IV sec.a.C., la cittadinanza di diritto latino mostra bene il distacco da ogni identità etnica; essa caratterizza le colonie dedotte in aree strategiche, e viene offerta tanto agli abitanti locali quanto ai coloni, tra cui ci sono numerosi cittadini romani che rinunciano alla cittadinanza in cambio delle terre assegnate ai coloni. Inoltre lo ius latinum prevede il diritto di matrimonio con i Romani e quello di stabilirsi a Roma: è quindi uno strumento flessibile.
Passo ulteriore è la cittadinanza sine suffragio, ovvero essere cittadini romani senza diritto di voto nelle varie assemblee. Da ultimo esiste la piena cittadinanza, che può essere concessa sia ad individui sia a comunità.
Altro punto su cui riflettere è la natura dei vantaggi offerti dall’essere cittadini. Allora come oggi i vantaggi sono bilanciati dagli obblighi. Il civis Romanus sum di San Paolo indica, oltre allo scarso entusiasmo dell’apostolo verso il martirio, i vantaggi giuridici della cittadinanza, mentre le distribuzioni di cibo a Roma ne mostrano quelli economici. Che il bilancio tra vantaggi ed obblighi fosse favorevole lo si può immaginare grosso modo per il periodo tra la fine della guerra annibalica e il regno di Marco Aurelio.
Il fatto che la cittadinanza fosse data nei secoli dell’espansione in Italia a città vinte, più che generosità e lungimiranza indica volontà di controllo e di sfruttamento delle risorse economiche e soprattutto militari.
Scopo centrale della politica romana è procurarsi risorse umane ed economiche per la guerra; i Romani non hanno mai avuto una particolare sensibilità riguardo ai costi umani per i loro soldati: perso un esercito se ne arruola un altro. Il costo altissimo della guerra annibalica, cui Toynbee attribuiva addirittura il ritardo attraverso i secoli del Sud Italia, dimostra cosa comportava l’essere cittadini romani o alleati.
Quasi cinque secoli dopo anche la concessione della cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero (editto di Caracalla), al di là degli effettivi contenuti, conferma la funzione della cittadinanza: il dominatus vede un costante allargamento dell’esercito ed un incremento dei carichi fiscali per mantenerlo, e la cittadinanza universale è lo strumento usato: non stupisce che molti cittadini romani preferiscano fuggire dai villaggi o addirittura rifugiarsi oltre confine tra i barbari.
Inclusione alla romana: barbari, profughi, alleati
Uno storico della NATO faticherebbe a capire perché la Turchia, secondo esercito NATO, fronteggi aggressivamente i curdi appoggiati da unità militari degli USA, primo esercito NATO. E uno storico dell’Islam faticherebbe a capire lo scontro tra turchi sunniti e curdi sunniti, a loro volta associati alle milizie sciite opposte all’ISIS sunnita.
La situazione sul limes non doveva essere molto diversa, se non per la presenza di una sola superpotenza, che essendo tale era impegnata su molti altri fronti e non riusciva a stare dietro a tutto: se si mandano le truppe in Iraq la Corea rimane scoperta; se sposti tre legioni contro i Parti, sarai anche saggio come Marco Aurelio ma ti ritrovi a combattere per 15 anni sul Danubio.
Una apparente differenza si nota oggi tra mondo romano e mondo occidentale nella valutazione dei movimenti migratori: per i Romani, in crisi demografica e di tassazione, l’inclusione di popolazioni dall’esterno dell’Impero era valutata positivamente, come testimoniano Cassio Dione ed Ammiano Marcellino, nonché i Panegiristi latini. Invece nell’Europa in crisi demografica e di tassazione l’opinione pubblica è sempre più ostile.
Una seconda differenza è stata sopra ricordata: se la frontiera romana è flessibile, è perché lo è il concetto romano di cittadinanza.
Innanzitutto i Romani sanno gestire l’inclusione di individui e popolazioni locali.
Il limes è più di una linea di fortificazioni; i legionari vi sono stanziati permanentemente, e pur non potendosi sposare ufficialmente sino al termine della ferma si creano spesso famiglie con donne locali, e i loro figli dopo il congedo diverranno cittadini romani. Tutto il contrario della lotta al “madaminismo” nelle colonie africane voluta dal “Cesare di Predappio”. Ai soldati si aggiunge poi il vasto mondo che circonda le basi legionarie, mercanti, artigiani, agricoltori: non è un caso se molte città europee moderne nascono da questi insediamenti capaci di integrare e di sopravvivere anche alla fine dell’Impero.
Il mondo militare poi offre occasioni più dirette di integrazione. Sin dalle origini Roma ha basato la sua forza sulla capacità di mobilitare le forze di alleati e sudditi, come in misura molto minore hanno fatto anche imperi coloniali moderni. Però al termine della ferma gli auxilia romani ricevevano regolarmente la cittadinanza, mentre per i soldati dei reparti indiani degli inglesi e di quelli nordafricani dei francesi era un caso raro.
Un terzo modo di entrare nel mondo romano era più tragico: la schiavitù.
Oltre alle ondate di prigionieri di guerra che accompagnavano le frequenti campagne militari romane, esisteva un costante flusso di schiavi provenienti dall’interno dell’Europa. Come in Africa gli schiavisti europei si fermavano sulle coste, acquistando dai mercanti di schiavi arabi, che a loro volta venivano riforniti dai vari re africani e dalle loro guerre e razzie, così i mercanti romani gravitavano poco oltre il limes, e ricevevano il materiale umano frutto delle conflittualità tribali. Una differenza fondamentale rispetto alla schiavitù moderna era però l’opportunità di diventare liberti, rivolta non alla maggioranza ma comunque a non pochi schiavi: rimane una forte differenza tra le possibilità che si aprivano ad un germano e quelle rivolte ad un nero africano in Europa o negli Stati Uniti.
Il commercio degli schiavi aveva una seconda, profonda conseguenza: merci, denaro, tecnologie ed idee viaggiavano in senso inverso e mutavano la struttura politica e sociale del mondo delle pianure europee, creando bisogni ed ambizioni che portavano sempre più a gravitare verso il mondo romano.
Di più, studi recenti sottolineano un duplice impatto della schiavitù sulle società claniche, che si esercita appunto verso i germani: il primo è costituito dal trasferimento di usanze e tecnologie ottenuto catturando schiavi; è il caso dei soldati e degli artigiani provenienti dal mondo romano e razziati dai Germani, particolarmente interessati a fabbri ed altri esperti di tecnologie. Il secondo nasce dall’uso degli schiavi come accumulatori di ricchezza, sia tramite il proprio lavoro che tramite il proprio valore economico: questo crea una stratificazione sociale tra i proprietari e crea il potere dei capi, sino ad ipotizzare che la proprietà di schiavi abbia innescato il processo di nascita di entità a livello statale.
E infatti il limes dovrà affrontare non solo migranti individuali ma popolazioni ed entità politiche.
Sarebbe un errore pensare al limes come ad una frontiera esclusivamente militare, un muro invalicabile: la risposta di Roma non si limita alla repressione.
Sicuramente l’uso massiccio della forza fa parte dell’usus romano: le spedizioni di Germanico verso l’Elba dopo Teutoburgo, la repressione della rivolta Pannonica da parte di Tiberio, la conquista della Dacia da parte di Traiano dopo le sconfitte di Domiziano, la lunga guerra di Marco Aurelio contro Quadi e Marcomanni rivelano da parte di Roma la necessità di mantenere una superiorità militare che viene esercitata in maniera estesa più o meno una volta ogni 20/25 anni, nei primi secoli, quasi che ogni nuova generazione di barbari avesse bisogno di un memento.
Però terminata la campagna l’Impero si fa flessibile: se per alcuni leader nemici la vendetta romana è implacabile, come con Tacfarinas in Nordafrica o Arminio, braccato sino ad essere ucciso dai suoi, il dalmata Bato, capo della rivolta del 6/9 d.C., si arrenderà e morirà in dorato esilio, come moglie e figlio di Arminio.
Esaminare i provvedimenti di Marco Aurelio contro i Marcomanni offre uno spaccato di questa flessibilità: la confederazione è sciolta, vengono create alcune basi militari nel territorio, alcune popolazioni sono costrette ad allontanarsi dal Danubio, ma la maggior parte dei Marcomanni rimane, mentre alcuni gruppi sono accolti nel territori imperiali e ricevono terre o sono arruolati, sparsi in più province o unità. E l’imperatore garantisce sussidi alle popolazioni sconfitte.
Già per storici antichi, e per molti moderni, la sistematica concezione di sussidi in denaro e merci è considerata segno di decadenza; è invece un sistema efficace e più economico della guerra per creare legami ed interessi comuni. Del resto oggi i sussidi e tributi dei romani si chiamano prestiti per lo sviluppo, assistenza militare, aiuti umanitari, ma sono la stessa cosa.
La caduta dell’Impero
Tracciare i motivi per cui il sistema complesso e flessibile di integrazione dei Romani sia crollato è quasi impossibile.
Tuttavia è necessaria una prima considerazione: questo crollo è solo parziale. Di fatto almeno una parte del limes non crollerà mai.
Infatti nei Balcani i Rhomaioi che ci ostiniamo a chiamare bizantini continuano ad applicare il mix di sussidi, spedizioni militari, accoglienza ed assimilazione culturale per secoli: Goti, Unni, Avari, Cumani, Peceneghi, Serbi, Bulgari, Normanni si susseguono per altri mille anni dopo la fine del “nostro” impero romano, ma senza riuscire mai ad abbatterlo. Bisanzio cade per gli attacchi di potenze statali ed imperi altrettanto sofisticati: Kavafis può “aspettare i barbari”, ma i Sassanidi, il Califfato, il Sultanato e regni europei come la Francia non sono certo paragonabili ai Goti o ai Longobardi.
L’Occidente cade perché viene percepito come una parte non più strategica: per dirla con Luttwak, la grande strategia dell’Impero Romano non è quella di un espansionismo senza limiti come per Alessandro, ma richiede una attenta valutazione del rapporto costi/benefici.
Non è vero che Augusto dopo Teutoburgo abbia abbandonato il progetto di espandersi oltre il Reno: scavi recenti hanno individuato tra Reno ed Elba alcune fortezze legionarie che sembrano costruite per durare, al pari di quelle sul limes. Saranno i successori a decidere che il costo di rimpiazzare le tre legioni perse e forse di arruolarne di nuove non era sostenibile: come oggi non è immaginabile aggiungere un nuovo gruppo portaerei o una nuova divisione alle forze armate USA, così il costo di una nuova legione andava calcolato con attenzione: solo la paga base di 5000 legionari per vent’anni era di 22,5 milioni di sesterzi, poi c’erano i costi di sottufficiali ed ufficiali (molto più alti) e quelli logistici; infine il premio di congedo, terra o denaro che fosse, era ancora più pesante (prima 3000 poi 5000 denari), basti ricordare che Augusto dapprima si era addossato questo onere, ma dopo pochi anni il suo pur ingentissimo patrimonio si era talmente ridotto che aveva dovuto creare una tassa di successione appositamente per coprire tali costi.
L’abbandono degli Agri Decumani nel terzo secolo, quello della Dacia nel 274, quello della Britannia nel V sono scelte, non sconfitte: si trattava di ridurre la lunghezza dei confini e le spese militari. Anche perché soprattutto dal IV secolo economia e minacce strategiche spostano l’attenzione ad Est: servono soldati contro i Sassanidi e per difendere le ricche terre dei Balcani e dell’Asia, che a loro volta permettono di mantenere gli eserciti; è lo stesso shift verso il Pacifico della potenza USA. Se si astrae dai combattimenti sempre più residuali in Medio Oriente e dalle ridotte forze in Europa, non è un caso se nel Pacifico siano collocati i missili antimissile, vi sia sempre un gruppo portaerei, vi siano stati attivati o schierati i primi stormi di F22 e F35, e le basi che vengono chiuse in Europa vengono sostituite da quelle in Australia.
i esamini il ruolino di alcune legioni: la XII Fulminata (una di quelle che presero Gerusalemme) è sempre stanziata tra Asia Minore, Danubio, Armenia e Siria, sino almeno alla fine del IV secolo. La XIV Gemina, dapprima in Pannonia poi al centro della conquista della Britannia, da Traiano è spostata tra Danubio e Dacia, dove rimane sino al IV secolo. La X Fretensis, probabilmente in origine la celebre X Legio di Cesare, rimane quasi sempre in Asia Minore e in Palestina. La XIII Gemina combatte nelle guerre di Druso e Tiberio tra Reno e Pannonia, poi è spostata in Dacia, infine in Mesia, ma una vexillatio nel 395 era in Egitto: va ricordato come spesso le legioni venissero svuotate spostandone reparti altrove, che rimanevano distaccati per decenni o secoli; e quasi sempre verso Oriente.
Lo spostamento verso Oriente rispecchia anche un deciso mutamento climatico: tra II a.C. e II d.C. l’Europa conosce un periodo di clima più caldo e favorevole all’agricoltura, periodo che coincide con l’espansione romana, sia demografica ed economica che militare e politica. A partire dal 250 circa, per tre secoli, il clima si fa meno favorevole, prima con una siccità nel III d.C., poi con un aumento delle piogge, soprattutto nel V secolo che vedrà la fine dell’Occidente; in parallelo si nota un ridursi delle aree coltivate e della deforestazione; a ciò si aggiungono frequenti epidemie, da quella di Marco Aurelio a quelle testimoniate nel 251 e nel 270; ma si può dire che tra Marco Aurelio e Giustiniano vi sia stata una sequenza di epidemie, continuata sin verso il 700: come successe tra Il 1348 e il Settecento.
L’attenzione al clima sembra più costruttiva di un antico cavallo di battaglia degli storici, ovvero la barbarizzazione dell’esercito come causa della fine dell’Impero, anche se il passaggio dagli auxilia, che, nonostante i nomi etnici, spesso raccoglievano soldati di diverse provenienze, ed erano unità regolari di solito inquadrate da ufficiali romani, ai numeri del Dominato, spesso unità etniche guidate dai loro capi, segnalano un indebolimento delle capacità romane di integrazione.
Tuttavia se alcuni scrittori antichi come Sidonio Apollinare sembrano esprimere ostilità verso gli alti ufficiali di origine germanica, esprimendo pregiudizi non dissimili di aree politiche di destra populista odierne, un Claudiano può dedicare la sua opera poetica a Stilicone senza essere considerato un traditore. E Flavio Bauto, Franco di origine, vedrà la sua nomina a console sotto Teodosio celebrata da un giovane e promettente retore: Aurelio Agostino. In realtà uno Stilicone, di origine vandala, un Arbogaste, di origine franca, un Gainas goto sono ufficiali romani, inseriti nei giochi politici dell’epoca, come negli USA la guerra in Irak del 2003 è stata condotta da un Segretario alla Difesa di origine giamaicana, da un comandante dell’Esercito di origine giapponese e da due generali sul campo, uno di famiglia libanese, l’altro centroamericana.
Il caso di Alarico, che pure rimane per anni agli ordini di Stilicone, testimonia un fenomeno opposto, che si potrebbe definire la “romanizzazione dei barbari”, ovvero la loro capacità di seguire una sofisticata logica politica. L’accordo del 382 tra Goti e Romani aveva lasciato insoddisfatti entrambi: quando nel 395 Alarico comincia quello strano trekking che in 23 anni lo porta dai Balcani in Grecia, in Italia, di nuovo nei Balcani, poi ancora in Italia e infine in Gallia, non si deve pensare a barbari scatenati, o a piccoli gruppi di razziatori.
Alarico ha capito che solo raggiungendo una dimensione demografica e militare che coinvolge decine di migliaia di guerrieri con le loro famiglie può trattare da pari con l’Impero: i suoi spostamenti seguono le opportunità politiche e la dialettica tra il prefetto del pretorio Rufino, che governa a Costantinopoli per Arcadio e Stilicone, che regge l’Occidente per conto di Onorio,; ma servono anche ad amalgamare prima i due nuclei principali in cui erano divisi i Goti, Tervingi e Grutungi, poi a raccogliere gruppi diversi, come schiavi in fuga o i soldati goti al servizio di Stilicone che abbandonano Roma dopo la sua morte: Quello che viene formato non è un popolo in senso etnico o ottocentesco, ma è un organismo politico che alla fine costringe l’Impero a riconoscerlo e a stanziarlo nella valle della Garonna come entità semi indipendente. Anche il famigerato sacco di Roma è preceduto da settimane di attesa, nella convinzione che la minaccia spingesse l’Impero all’accordo: quando non avviene, il sacco è un atto politico, attentamente regolamentato (le chiese non sono toccate), che riafferma sia la forza dei Goti che la loro volontà di un accordo.
La parabola degli Unni riassume in un secolo scarso la storia dei “barbari”. Popolo originario delle steppe, di cui non si conosce con certezza la lingua, appare nella forma di bande di guerrieri che spingono i Germani verso il limes, vi arrivano come razziatori o mercenari, tra il 370 e il 400. Già nel 410 Olimpiodoro testimonia la presenza di una gerarchia di re, che indica l’arrivo di popolazioni, non più bande. Intorno al 450 l’impero unno di Attila è una potenza che stringe trattati con Costantinopoli e che influenza i Franchi sul Reno.
Se gli archeologi parlano di un melting pot in cui le identità delle popolazioni erano semplici etichette intercambiabili, un mondo in cui la lingua franca è il germanico mentre a tale cultura appartengono anche quasi tutte le sepolture, il frantumarsi dell’impero tra 450 e 480 indica invece che le identità etniche di Rugi, Longobardi, Sciri, Gepidi erano rimaste sotto il dominio unno, e riaffiorano intatte alla sua fine.
Il confronto con i barbari non è però il centro della politica romana, al contrario è la politica interna forse il motivo più significativo per la caduta di Roma. Dopo Pertinace, ucciso nel 193, ci sono guerre civili e ribellioni provinciali mediamente ogni 10/15 anni. Di conseguenza gli imperatori badano soprattutto alla propria sopravvivenza, concentrando le truppe migliori intorno a sé, premiando la lealtà e non il merito, frammentando il governo dell’impero in parti sempre più piccole: una “devolution” ante litteram che permette di abbandonare le aree meno interessanti, o di cederle a chi promette appoggi, siano essi barbari o potenti locali. L’Impero è troppo grande per essere distrutto, l’imperatore è invece vulnerabile e troppo impegnato a fare il generale per governare con efficacia.
Così l’Occidente si frantuma nel corso del V secolo, senza che Costantinopoli ne sia troppo turbata. Non c’è scontro tra Romani e barbari, ma solo un gioco politico basato sull’immediato: una miopia che torna nell’Europa di oggi.
I Romani comunque dal IV secolo dovettero affrontare una realtà oggi per noi estranea: masse di migranti organizzate politicamente e militarmente, che pensavano di potersi ritagliare spazi all’interno dell’Impero, non, come nell’uso romano, inseriti a piccoli gruppi e sfruttati come contadini e soldati, ma come nuovi padroni; questo ottengono i Goti in Tracia dopo Adrianopoli, creando un precedente che verrà ripetuto nei decenni successivi. Che questa realtà, che i sociologi odierni non contemplano nelle loro classificazioni dei migranti, sia destinata a rimanere sconosciuta al mondo attuale, non è certo. Da un lato entità non statali come narcos e terroristi tendono a ritagliarsi aree di influenza e di controllo; dall’altro i migranti, per scelta o discriminazione, si ritrovano aggregati in comunità sempre più ampie, capaci di far emergere identità politiche: che la comunità turca in Germania, particolarmente integrata, abbia votato a favore di Erdogan e del suo referendum autoritario con percentuali superiori a quelle di Istanbul, è un fatto significativo, alla luce del successivo invito dello stesso Erdogan ai turchi con cittadinanza tedesca a non votare per la Merkel.
Non sono ancora i Goti e gli Unni, ma non è detto che l’esperienza romana rimanga un fatto del passato. Né va dimenticato che, pur nella mancanza di dati, la percentuale della popolazione formata dai migranti germanici variava probabilmente tra il 2/3% di Goti e Vandali (che non hanno portato a mutamenti di lingua) e il 10% degli Angli e Sassoni, che hanno riconfigurato il mondo della Britannia sino a cambiare lingua. Oggi le percentuali di migranti in Occidente si avvicinano al livello anglosassone, quando non lo superano.
Qualsiasi motivazione si preferisca per motivare la caduta di Roma, il risultato è però tragico: tra chi vive nel IV secolo e chi vive nel VII c’è una differenza abissale: isolamento, malnutrizione, crisi demografica, perdita di tecnologie e di cultura sono il risultato di secoli di violenze e disordini, non certo di un garbato multiculturalismo. E se ancora Gibbon alla fine del Settecento, dopo 1500 anni, poteva dichiarare che il II secolo d.C. era stata la stagione più felice dell’umanità, questo ci ricorda che non esistono le magnifiche sorti e progressive, e che il pessimismo di Machiavelli vale per il passato, il presente e il futuro.
Bibliografia
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2 – FINE
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