ROSA IANNUZZI “Se fossi il tempo vorrei essere l’alba…”
Nel tentativo maldestro di nascondere la sveglia sotto le coperte, questa mattina provo a ingannar me stessa sul senso della mia ultima giornata nella nostra casa, anche se cerco di fare in modo che si svolga esattamente come deve svolgersi e capisco che per i “non so” o i “non vorrei” non esiste il benché minimo spazio, e così, subito dopo, infilo i piedi nelle ciabatte e come uno zombie mi dirigo verso il bagno, trascinandomi dietro il corpo del reato.
Ricordo il gesto di mio padre che con mano ferma tutte le sere caricava la sveglia. Un giro per scacciare la voglia di tornare, un altro per sentire il respiro delle bambine donare conforto, un altro ancora per ricacciare in gola la rabbia per l’ennesimo torto subito. Così una sera dopo l’altra, un anno dopo l’altro e ancora, fino all’ultimo giorno. Lancette impietose e salvifiche, che lo portavano via accelerando il tempo del distacco.
Accendo la luce e, come l’urto di un treno che sfreccia impazzito nella galleria, la lampadina da sessanta watt mi colpisce, sottraendomi la benché minima speranza che possa essere una giornata qualsiasi.
Seduta sul water, guardo la sveglia appoggiata di fronte a me sulla lavatrice, dal cui oblò si affacciano le magliette dei ragazzi, sporche di tutto ciò che macchia e lascia un segno indelebile. Spuntano le spalline dei miei reggiseni, i polsini delle sue camicie.
Pausa… chiedo ancora un attimo di tregua, prima di affrontare la giornata, prima di dover dire ai miei figli “È ora di alzarsi, è ora di andare a scuola”.
Il silenzio della casa è complice. Tra poco sarà invaso dai borbottii adolescenziali dei ragazzi, dal fischio del bollitore, dall’acqua degli sciacquoni, e io avrò disperso per sempre il ricordo di un sogno. Passo una mano fra i capelli, cercando di riportare il corpo e la mente al mondo reale, quello che reclama la mia presenza.
Fuori è ancora buio. Tra pochi giorni cambierà l’ora. Se almeno il risveglio potesse proficuamente rimettermi in moto. Ma non mi abituerò mai al cambio dell’ora legale. A quel minaccioso apparire dell’inverno, che nasconde le emozioni dietro i pali dei lampioni.
Guardo dalla finestra. Il gelo mattutino ha incrinato il ciglio della strada, facendo apparire come vendicativo il lato della partenza. Poiché tra poco verrà il momento di partire per andare a scuola, al lavoro, a comprare il pane, dal dottore o all’ufficio postale.
Amo, in questo momento in cui si risveglia il mondo, assistere al dispiegare di gesti ripetitivi e rassicuranti, che rinnovano il piacere dell’esserci, anche solo come spettatrice, prima che tutto venga definito come da copione.
Amo veder emergere dal buio della notte invernale i contorni dei tetti, e poter riconoscere i volti di chi esce dal portoncino della casa di fronte. Il signor Luigi ha già aperto il garage e si muove attorno alla sua utilitaria, come un ragazzino vicino al giocattolo preferito; con attenzione apre lo sportello dell’auto, si siede sul sedile, che unico reca tracce del quotidiano, e accende il motore. Sa che non sarà il rombare di una fuoriserie, ma quel familiare rumore di accensione lo mette subito di buonumore e con la solita lentezza, dote naturale delle persone anziane – patrimonio ormai in via di esaurimento – fuoriesce dal garage e si prepara per le tante cose da fare che normalmente preoccupano gli uomini di questa età. La pensione da riscuotere, la ricetta in farmacia, una partitina a carte tanto per gradire e una visitina all’orto, anche se in questa stagione c’è poco da sistemare.
In tutto questo tempo sono già uscite dal portone diverse figure femminili e maschili e sono già, altrettanto frettolosamente, scomparse allo sguardo. Mentre il signor Luigi è ancora lì, a pulire il vetro dell’auto.
Spettatrice in prima fila estraggo dal bussolotto dei riti quotidiani i gesti di quell’uomo, che mi serviranno quando, attanagliata dal divenire del giorno, avrò dato fondo al battito del cuore. Sospesa dalle grida che mi chiameranno, dalle braccia che mi cercheranno, presente soltanto a me stessa, scivolo tra un bordo e l’altro delle nuvole che pian piano hanno invaso il cielo, relegando la notte nelle profondità della terra.
L’uomo si stacca dall’auto e la guarda soddisfatto. Soltanto ora si è compiuto il gesto. Non un attimo prima, quando ancora tutto restava incompiuto, distratto dalle tante devastazioni quotidiane che dissacrano gesti, che distolgono sguardi, che abbandonano corpi, per poi dimenticarli.
Non un attimo prima, mentre attorno a lui sfrecciavano vite inconsapevoli, che non hanno il tempo per condividere l’attimo.Soltanto adesso è pronto per partire. Richiude la porta del garage, e si allontana, quando anche l’ultima sveglia mi ricorda che non è più tempo di indugi. Così il mio sguardo urta con i vuoti che vedo affiorare da ogni dove. Quelli della libreria, dove non si mescoleranno mai più le mie e le sue storie, quelli della credenza da dove ho portato via le cose che appartengono a un tempo in cui ero soltanto io.
L’acqua del bollitore si disperde in nuvole sbuffanti che premono contro il beccuccio imbavagliato. Seguo quel fischio e ripenso alla faccia dei miei figli che, affacciati alla porta della camera, mi lanciano un ultimo sguardo “SOS”: aiuto mamma, facciamo che oggi restiamo a casa ed evitiamo la scuola, la lotta per l’ultimo posto sul pulmino, la faccia della prof e la voce stridula della maestra, e tutti quei compiti di cui non capiamo il senso e le tue sgridate per farceli fare…
Così, tra un sorso di tè e un biscotto dietetico, abbandono la boa dei loro sorrisi perché è giunta l’ora di partire. Nella preparazione frettolosa degli ultimi minuti mi accorgo che non c’è nessuno sulla porta a cui possa rivolgere il mio sguardo “SOS”. E domani non respirerò più l’aria della nostra casa, perché non sarà più la nostra, mai più.
***
Questo è uno dei racconti di Tutti i giorni della nostra vita di Rosa Iannuzzi, Bookabook editore, 2018.
I giorni speciali li appuntiamo per sempre, e qualsiasi cosa accada dopo, torniamo continuamente lì.
Il giorno in cui ci siamo innamorati e quello in cui ci siamo perduti. Il giorno in cui la vita ci ha messo alla prova, in una sala parto, in una piazza gremita, in un’aula d’esame, e il giorno in cui siamo stati costretti a partire e lasciare tutto. E poi il giorno in cui nessuno ha più firmato l’ennesimo rinnovo del contratto, e il giorno in cui non hai fatto altro che servire caffè. Fino al giorno in cui il mondo che hai osservato dal vetro di una portineria prende vita e quella vita inizia a raccontare di te. E tra l’inizio e la fine, tra il possibile e l’impossibile, restano a testimonianza tutti i giorni della nostra vita. Resta il lavoro quotidiano, silenzioso, incessante, fatto di piccoli gesti che si ripetono, scavando gli argini di un’apparente normalità. E la famiglia, il lavoro, i rapporti umani all’improvviso perdono la patina di perfezione per riportare, a tratti con sommessa intenzione, altri con veemente passione, il gesto all’amore e l’amore al sogno.
Rosa Iannuzzi , classe 1961, è cresciuta a Torino dove è tornata a vivere dopo più di vent’anni tra Umbria e Toscana. Una continua storia di cambiamenti, le cui uniche costanti sono la scrittura e il teatro. Costanti che la portano, da una parte, a frequentare (e poi condurre) laboratori di scrittura autobiografica e, dall’altra, a costituire un gruppo di letture ad alta voce. Nel 2008 ha esordito con il romanzo Naufraghi; Tutti i giorni della nostra vita è la sua prima raccolta di racconti.