PAOLO LAMBERTI
Grazie ad un progetto di gemellaggio tra il Liceo Classico “G.B.Beccaria” di Mondovì ed il Liceo Scientifico “Benedetto Croce”di Palermo è stato possibile per i ragazzi di III e IV e per i loro docenti assistere alle due tragedie messe in scena nel 54° ciclo di rappresentazioni dell’INDA, Istituto Nazionale del Dramma Antico.
L’ambientazione è unica, uno dei più grandi teatri greci rimasti, risalente al V secolo a.C. e ristrutturato nel III: davanti il mare delle disperate battaglie tra Ateniesi e Siracusani e poi tra la flotta romana e la Siracusa che si affidava alle invenzioni di Archimede; a fianco le latomie, intrise ancora del ricordo delle migliaia di prigionieri ateniesi lasciati morire di stenti e malattie.
Quest’anno sono state scelte due tragedie molto diverse, ma accomunate da alcuni elementi: non essere considerate dei capolavori, il tema della vecchiaia, la fragilità dell’eroe. Inoltre sono state affidate a due registi molto diversi, la rivoluzionaria Emma Dante e il più tradizionale Iannis Kokkos.
L’Eracle di Euripide è stato oggetto di uno dei monumenti della filologia classica, il commento di Wilamowitz, il cui primo volume, Einleitung in der Griechische Tragoedie, rimane ancor oggi un testo imprescindibile. Ciononostante la tragedia non è delle migliori, soprattutto per la debolezza della trama.
Nella prima parte il nuovo tiranno di Tebe, Lico (lykos, il lupo), vuole uccidere Anfitrione, padre (almeno ufficialmente) di Eracle, Megara moglie dell’eroe e i loro tre figli, nella persuasione che Eracle sia morto scendendo all’Ade per catturare Cerbero. Nucleo drammatico è la preparazione alla morte delle vittime designate, mentre le invettive di Anfitrione contro Zeus (vero padre di Eracle), che non interviene a salvare il proprio sangue, rispecchiano le critiche euripidee alla religione tradizionale.
Ma l’eroe torna dall’Ade, uccide Lico e salva la famiglia. Lieto fine? No, perché abbastanza incongruamente compaiono Ebe e Lyssa (la dea della furia) inviate da Giunone, e fanno impazzire Eracle, che uccide moglie e figli credendoli nemici, mentre Anfitrione è salvato da Atena. La strage è narrata dal messaggero, dato che sulla scena greca non si rappresenta il sangue, e costituisce un altro passo efficace, capace di descrivere la follia con il nascente lessico medico ippocratico. A questo punto, comprensibilmente, Eracle medita il suicidio, ma compare Teseo, salvato dagli inferi in cui era prigioniero proprio dall’eroe, e lo convince a venire ad Atene, con la debole argomentazione di non comportarsi da donna.
Datata alla fine degli anni Venti del V secolo, la tragedia non sembra avere particolari legami con l’attualità politica, se si eccettua l’elogio dell’arco, arma disprezzata dai Greci ma fondamentale per la celebre resa di 120 Spartiati sull’isola di Sfacteria; piuttosto si coglie la positività di Teseo, e quindi di Atene, e insieme l’attenzione ai deboli rispetto alla violenza, nonché la sfiducia verso gli dei.
Emma Dante ha tratto da questo testo uno spettacolo molto visivo ed intenso, ma non ha saputo né superare i limiti oggettivi della tragedia né rispettarla, lasciando poco Euripide.
La scena è funerea, un muro coperto di foto quasi fosse un cimitero, alcune vasche/sepolcri efficaci per la prima parte, costumi tra primitivo, postapocalittico e arabo (non capisco perché il mondo arabo, la civiltà più recente, sia spesso usato per il mondo classico: che certo saggiamente diffidava di ogni monoteismo).
La scelta più radicale consiste nel rovesciamento della convenzione antica che prevede attori maschi, sostituiti qui da sole attrici, calve a cancellare la femminilità, tranne i due eroi e i figli di Eracle, con lunghi capelli, continuamente, e un po’ fastidiosamente, intenti a coprirsi e scoprirsi il volto scuotendo il capo. Anfitrione è in carrozzella, e parla con accento palermitano, scelta abbastanza gratuita, mentre molto intensa è la scena con cui Megara prepara i figli, con un lavacro funebre prima della morte.
Belle le coreografie, soprattutto le danze in stile derviscio delle guardie di Lico, mentre le due dee appaiono come inquietanti insetti. Poco fiduciosa nelle conoscenze classiche del pubblico, la parodos si trasforma in una presentazione iniziale dei personaggi: visto che è ritmata da tamburi, si poteva riprendere il ritmo degli anapesti di marcia, due colpi brevi ed uno lungo, invece di rendere i dattili con un colpo lungo e due brevi: è una tragedia, non l’Iliade. Ma questo rispecchia la scelta di allontanarsi dal testo per farne la base dello spettacolo registico, molto intenso appunto ma anche molto immerso nello stile di Emma Dante.
L’Edipo a Colono è l’ultima tragedia del novantenne Sofocle, e viene rappresentata postuma nel 401, dopo la sconfitta nella guerra del Peloponneso. La dimensione politica è forte, sia nella riaffermazione dei valori ateniesi, incarnati in Teseo, sia nell’esaltazione del demo di Colono, quello cui apparteneva Sofocle. In questo caso il gioco politico si fa più sottile: non solo è il demo di confine verso Tebe, polo negativo della tragedia, ma è anche legato ai Trenta Tiranni, che vi si rifugiano. E Sofocle, parimenti distante sia dalla democrazia radicale che dalla tirannide, vuole cancellare ogni ricordo di tali compromissioni.
Centrale è comunque il tema della vecchiaia, ed è impossibile separare il vecchio Edipo dal vecchio Sofocle: uno dei capolavori della letteratura greca è il coro sull’amarezza della vecchiaia. Ma la profonda religiosità sofoclea, in contrasto con Euripide, si ritrova nell’abbandono di Edipo alla morte e al proprio destino di eroe ctonio.
La tragedia vede Edipo, cieco ed esiliato da Tebe, entrare nel bosco sacro di Colono accompagnato dalla figlia Antigone; dapprima il coro di vecchi di Colono vuole cacciarlo, poi, dopo la rivendicazione di Edipo di aver agito inconsapevole, e quindi di essere anche lui vittima, accetta di chiamare Teseo, che decide di accoglierlo dopo che l’esule gli ha promesso un dono grande, che sarà il suo morire in una tomba nota solo ai re di Atene, tomba da cui difenderà la città, pronto a bere il sangue degli invasori.
A questo punto prima arriva Creonte, re di Tebe, che vuole convincere Edipo a tornare, non in città ma a morire sui confini tebani; al rifiuto risponde rapendo Antigone e la seconda figlia, Ismene, ma l’intervento di Teseo riporta le due fanciulle. Segue Polinice, figlio di Edipo, cacciato dal governo di Tebe dal fratello Eteocle: vorrebbe che il padre appoggiasse la sua spedizione (i Sette a Tebe), ma viene maledetto e cacciato. Infine segni divini, tuoni e fulmini, avvertono Edipo del momento della sua morte, e congedatosi dalle figlie, si avvia con Teseo: un messaggero narra del suo trapasso, finalmente senza il dolore che ha dominato la sua vita.
Considerata una tragedia statica e troppo ampia (è la più lunga tra quelle pervenuteci), la splendida messa in scena siracusana ne ha messo in luce l’efficacia drammatica e un ritmo incalzante, rivendicandone il carattere di capolavoro.
La scena è dominata da una figura gigantesca vista di spalle, ad interpretare il sacro già legato al bosco di Colono; in essa il passaggio che porterà Edipo alla tomba celata. A destra una torretta con filo spinato indica Tebe, a sinistra Atene, al centro due massi fanno da appoggio al cieco. I costumi, moderni, con Teseo in cappotto di pelle e Creonte in completo ed impermeabile, vogliono attualizzare, ma sono forse la parte meno convincente. Invece le musiche ed i movimenti rendono benissimo il senso della tragedia greca, sembra di cogliere il ritmo dei versi greci, e la traduzione è insieme snella e fedele, e rispettosa del testo sofocleo.
A dominare lo spettacolo è la prova degli attori: Massimo De Francovich giganteggia, identificando i suoi anni con quelli di Edipo e di Sofocle, e gli altri, protagonisti e comprimari, gli offrono valida collaborazione. Nel complesso, lo spettacolo convince più di quello della Dante, anche se la critica, ormai schiacciata dal bias a favore del teatro di regia e sperimentale, sembra preferire l’Eracle.
In ogni caso Roberto Andò, organizzatore degli spettacoli dell’INDA, ha creato un perfetto mix tra tradizione e sperimentalismo, recuperando due testi non scontati e offrendo agli spettatori così fortunati da fermarsi per due sere consecutive a Siracusa due modi opposti di far rivivere un teatro che dopo 2500 anni rimane ineguagliato.