ATTILIO IANNIELLO
Sono stato invitato per amicizia da Lorenzo Avico ad introdurre a mo’ di presentazione la mostra fotografica “Tubo de escapo – Frammenti di Cuba”, che raccoglie fotografie di Giorgio Veronesi e Roberto Semenzato, oltre quelle di Lorenzo Avico.
Presentare una mostra di fotografie non essendo esperto né di tecnica né di storia della fotografia mi ha posto di fronte ad alcuni apparenti, e benefici per la mente, paradossi.
Infatti chi scrive si interessa soprattutto di storia sociale, ed in particolare di storia sociale del mondo rurale. Un mondo quest’ultimo che ha culturalmente una concezione del tempo ciclica, dove la misura è la stagione. La storia ha respiri ampi di epoche, decenni, secoli. Trovarsi di fronte ad una fotografia al contrario vuol dire trovarsi a tu per tu con l’attimo, l’istante.
Ma veniamo alla mostra. Già il titolo si presenta interessante “Tubo de escapo”. Mi si dice che vi è un “errore” voluto. Il tubo di scappamento infatti si dovrebbe tradurre in spagnolo con tubo de escape; troviamo invece escapo prima persona del presente indicativo del verbo escapar, fuggire. Ma chi è che fugge? Le cose o le persone ritratte nelle fotografie oppure gli autori? O forse gli autori già nel titolo insinuano una sorta di elogio della fuga con un richiamo alle parole di Henry Laborit [i]?
Non possiamo che lasciare le domande in sospeso. Non sta a noi rispondere ma forse ad ognuno di coloro che sosteranno davanti alle fotografie stesse.
La mostra ha anche un sottotitolo “Frammenti di Cuba”. La parola frammento etimologicamente deriva da frangere, rompere. E la fotografia infatti rompe, frange un continuum. La parola frammento ha la stessa radice di fragile. Il frammento è infatti un elemento tolto dal tutto. Pensiamo ad una foglia tolta dal suo albero: la vediamo appassire, seccare sbriciolarsi annullandosi. Nella fotografia tutto ciò non avviene: l’aver fermato per sempre un istante della vita di una persona, di un luogo, di un paesaggio non rende il frammento fragile ma potente, pieno di vita propria, una vita perennemente rinnovata ogni qual volta qualcuno gli posi sopra uno sguardo consapevole.
Questo elemento ha un non so che di spirituale e mi fa venire in mente quella parola greca efapax, traducibile con “tutto in una volta, una volta per sempre”, che Paolo di Tarso utilizza nelle sue lettere per sintetizzare la redenzione cosmica messa in atto, per i credenti, nella morte e resurrezione di Cristo.
Nella fotografia, per chi non si accontenti del guardare ma voglia vedere, accade qualcosa del genere. In un gesto vediamo un lavoro, in un ritratto una vita, in uno scorcio un paesaggio e così via.
Ma torniamo al sottotitolo della mostra “Frammenti di Cuba”. Vi troviamo un’indicazione geografica precisa. Le fotografie sono state scattate da Lorenzo Avico, Roberto Semenzato e Giorgio Veronesi nell’isola di Cuba. Un luogo per molti mitico, a cui il suo leader storico Fidel Castro aveva associato la interessante espressione “L’isola che non c’è” [ii].
Cuba e la sua rivoluzione era apparsa a molti come il laboratorio, la messa in pratica di una società a misura d’uomo, di una sorta di socialismo libertario che poteva conciliare libertà personali con lo sviluppo collettivo, una isla feliz. La storia ci insegna che non è proprio andata così.
Troviamo fotografie soprattutto di particolari di case, automobili e ritratti di uomini e donne. Molti di questi ultimi sono seduti intenti al loro lavoro oppure semplicemente assorti nei loro pensieri, come in attesa, semplicemente in attesa.
Di fronte a questi ritratti, di fronte a questa, da me percepita attesa, ho provato un moto profondo di fratellanza. Forse non siamo tutti in attesa?
Il poeta Eugenio Montale nei suoi testi quante volte ci suggerisce l’attesa di un evento, l’irruzione salvifica di un evento (Arsenio), la ricerca di un varco (La casa dei doganieri), la ricerca di un anello mancante, di qualcosa che renda ragione, senso all’esistenza.
Non deve essere una cosa eccezionale. Può essere posteggiare l’automobile all’ombra di un albero in aperta campagna, spegnere il motore, aprire i finestrini, ascoltare il silenzio colmo di versi di insetti, uccelli, latrati di cani in lontananza; può essere transitare su una strada lungo la riva del mare ed essere colti dallo spruzzo di un’onda che invade la corsia; può essere sentire che un pesce ha abboccato mentre peschiamo seduti su una banchina di cemento fatiscente.
Allora è proprio in questo sentirci non separati dall’immagine, benché distinti da essa, in questo sentirci uniti ma non confusi in particolare con gli uomini e le donne ritratti nelle fotografie, che la bellezza delle fotografie stesse diventa politica, diventa “bellezza che salverà il mondo”[iii] per dirla con la ultracitata frase messa in bocca al principe Myškin da Dostoevsckij nel romanzo “L’idiota”.
Termino questa breve presentazione con la citazione di una frase del fotografo londinese David Bailey: «Ci vuole un sacco d’immaginazione per essere un buon fotografo. Serve meno immaginazione per fare il pittore perché le cose le puoi inventare, mentre con la fotografia è tutto molto ordinario e devi osservare parecchio prima di imparare a vedere lo straordinario».
La mostra rimarrà aperta fino al 22 luglio (venerdì e sabato dalle 16 alle 19, domenica dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 19) presso La Meridiana Tempo, in piazza San Pietro 1 a Mondovì.
[i] Henry Laborit: «Perseguire un obiettivo che cambia continuamente e che non è mai raggiunto è forse l’unico rimedio all’abitudine, all’indifferenza, alla sazietà. È tipico della condizione umana ed è elogio della fuga, non per indietreggiare ma per avanzare. È l’elogio dell’immaginazione mai attuata e mai soddisfacente». (da “Elogio della fuga”)
[ii] “L’isola che non c’è. Presente e futuro di Cuba” è il titolo di un libro di Fidel Castro del 1992.
[iii] In un breve saggio di Andrea Oppo dal titolo “Dostoevskij: la bellezza, il male, la libertà.un percorso filosofico in tre tappe” leggo che in russo la frase “La bellezza salverà il mondo” è “Mirspasëtkrasotà” che tradotta letteralmente risulterebbe “Il mondo salverà la bellezza”. Interessante è il fatto che la parola Mir oltre a significare “mondo” significa anche “pace”.