SILVIA PIO
Forse presagendo ciò che sarebbe successo, lo zio Carlo (Giancarlo Pio) ha scritto un libretto con le sue memorie intitolato La mia vita da contadino e pubblicato dall’Associazione Culturale Arvangia nel 2015, poco prima che lui morisse.
Nella dedica che fece di suo pugno a mia madre, scrisse che i suoi ricordi erano anche quelli di mio padre, di 14 anni più vecchio, che non ha mai parlato della sua infanzia e giovinezza.
Il prof. Donato Bosca, nativo di Mango come la famiglia Pio, ha scritto nella prefazione che le memorie di Giancarlo «meritano attenzione per una serie di ragioni»: il linguaggio diretto, essenziale ed efficace, «serenamente ancorato al suo retroterra di lingua piemontese»; i personaggi di una famiglia contadina che «è sempre rimasta compatta, ha affrontato con coraggio ogni sorta di difficoltà, condiviso esperienze e valori»; infine la «testimonianza che ricostruisce la metamorfosi del mondo contadino in terra di Langa».
Prima di aggiungere un’altra ragione, tutta personale, mi piacerebbe tornare sui tre punti già elencati e in primo luogo ribadire che nella famiglia Pio si sapeva scrivere nonostante la poca scolarizzazione; l’esempio l’aveva di sicuro dato il patriarca Berto, del quale ho già riportato uno scritto qui, che si era formato attraverso le letture invernali (la stagione di riposo dal lavoro in campagna) e i rapporti che intratteneva con ogni ceto sociale visto il carattere estroverso e la funzione di mediatore che spesso era chiamato ad assumere. Sua sorella Eugenia[1] era la maestra del paese; chi lo sa quante difficoltà dovette affrontare la famiglia per farla studiare e quante lei stessa per prendere un diploma. Ha dedicato la vita alla professione ed è morta prima di compiere cinquant’anni.
I Pio sapevano e sanno scrivere in una calligrafia elegante, come si insegnava a quei tempi, e in buon italiano, pur parlando prevalentemente il dialetto. Il grosso cambiamento linguistico da quelle parti è avvenuto negli anni Sessanta, quando il dialetto iniziava ad essere considerato uno svantaggio a scuola per il faticoso apprendimento della lingua nazionale che dovevano affrontare i bambini, ma anche perché arrivavano gli immigrati dal sud e si doveva comunicare con una lingua comune; la televisione portava nelle case esclusivamente l’italiano, con qualche occasione di ascoltare il napoletano o il romanesco, ma di sicuro mai il piemontese. I dialetti del nord ebbero una qualche riscossa negli anni Ottanta, quando vennero aperti gli studi televisivi a Milano, ma il piemontese continuava ad essere la lingua del contadino arretrato o delle macchiette della commedia come Macario o, più tardi, Andreasi. Mi scuseranno i linguisti per questa analisi approssimativa sul decadimento dell’uso del dialetto, e si tureranno le orecchie i puristi delle lingue locali, che non userebbero mai la parola dialetto, per il fatto che dichiaro di essere grata ai miei genitori per avermi insegnato l’italiano fin da subito, pur continuando a parlare dialetto tra loro e con i parenti.
Il prof. Bosca conosceva bene la famiglia Pio e sapeva quanto fossero stretti i rapporti e uniti i membri. Praticamente un clan, dove tutti erano amati e sostenuti e chiunque si imparentasse diventava, inesorabilmente, parte della famiglia.
La testimonianza di Giancarlo non è importante solo perché racconta «situazioni che sono state comuni a tante famiglie: i contratti di mezzadria, la grandine in agguato, la ricerca di occupazioni più vantaggiose, l’apprendistato di adolescenti “aggiustati” come servitori per i lavori pesanti che l’agricoltura senza trattori richiedeva», ma per me e per altri più giovani della famiglia costituisce il racconto di come hanno vissuto i nostri genitori e nonni, un racconto che non è quasi mai stato fatto oralmente per la ritrosia che caratterizza i Pio. Come ho già avuto modo di scrivere nelle mie considerazioni, quasi nulla è stato tramandato della storia di ognuno e soprattutto dei loro sentimenti, delle gioie, poche, e delle difficoltà, che devono essere state infinite.
Riporto qui un estratto del libro di Giancarlo, i ricordi più antichi che potrebbero essere condivisi, come diceva lo zio, anche dagli altri fratelli maggiori. Giancarlo si è poi sposato, ha avuto due figli, ed è venuto a mancare a 72 anni. La zia sua moglie lo ha seguito due anni dopo.
Nelle ultime righe delle memorie, Giancarlo fa cenno alla sua malattia: «Devo ancora lottare ma le forze sono poche. Anche le malattie fanno parte della vita e le dobbiamo accettare. Questa è la mia storia: poche rose con tante spine».
Mi chiamo Pio Giancarlo e sono nato a Mango il 31 ottobre 1943 in località Prassotere. Il mio primo ricordo d’infanzia è la nascita di mio fratello Renzo il 15 dicembre 1948, ultimo di dieci figli. Ricordo l’ostetrica Rosmunda che arrivava a piedi. A quei tempi era così. Al mattino seguente mio padre ha preparato il cartun (carro) con il bue e della paglia e l’ha portata a Mango.
Il secondo è l’alluvione del 1948. Ricordo mia sorella Maria che aveva dieci anni mi ha detto: “vieni a vedere dalla finestra quanta acqua”. Ho visto acqua sporca con dei rami e addirittura piante che rotolavano giù, fino ad arrivare al ponte che dista 200 metri da casa nostra. Otturato il passaggio dell’acqua il ponte è crollato. È stato poi rifatto da tutta la gente del quartiere avente diritto di passaggio.
Questi che racconto sono quattro eventi della mia infanzia che ricordo benissimo. Parto dal primo giorno di scuola perché dell’asilo ricordo solo che c’erano le suore che facevano catechismo qualche ora alla settimana. Era il primo ottobre 1949, un mese prima di aver compiuto sei anni, con il grembiule nuovo, il fiocco blu, un paio di zoccoletti nuovi che mio padre mi aveva risuolato con latta; ritagliava scatole di conserva e usava chiodi a testa rotonda rigata per non scivolare. Siccome eravamo dieci, due o tre andavano a scuola essendoci in media due anni da uno all’altro.
Partivamo da casa abbastanza presto, dovendo fare quasi tre chilometri per arrivare a Mango, naturalmente a piedi. Quando le strade erano brutte causa pioggia o neve è naturale che si sporcavano gli zoccoli. Cercavo qualcosa per pulirli un po’; arrivavo in piazza e i compagni che abitavano in paese, i più bravi, si limitavano a ridere; i bulli invece si avvicinavano e mi prendevano in giro: “Guardate Pio che zoccoli eleganti ha”. Due o tre battute così e la risata si faceva generale. A me veniva da piangere considerando che avevo fatto tre chilometri, mentre loro a malapena un centinaio di metri su strade pulite.
…
Il primo duro colpo della vita è stato veder morire mia sorella maggiore a soli 25 anni di meningite[2]… Pur essendo bambino mi rendevo conto della situazione vedendo sovente mia mamma piangere e tutta la famiglia sempre di cattivo umore.
Ricordo ancora due fatti accaduti quando avevo poco più di cinque anni. Il primo poteva essere tragico, il secondo si è rivelato divertente. Verso maggio del 1949 mia mamma è uscita sul poggiolo per stendere i panni con Renzo in braccio. Ad un certo punto si è rotto un pezzo di legno, una gamba è andata giù di colpo e mia madre ha perso la presa. Sento un urlo, mi giro e vedo scivolare dalle braccia di mamma mio fratello, lo vedo cadere, battere sopra uno dei tre scalini e rotolare in cantina. Le vecchie case non erano tanto alte, ma sicuramente non meno di due metri e mezzo. Mia madre correndo via gridava: “L’ho ucciso! L’ho ucciso!”. Mia sorella Cecilia era in qualche camera, ha sentito urlare, è uscita fuori e mi ha chiesto cos’era successo. “È caduto Renzo in cantina”, ho risposto. È corsa giù, l’ha preso e l’ha portato in casa. Piangeva, era spaventato ma per fortuna era fasciato ben stretto. L’ha sfasciato e non vedendo niente, né sangue né di rotto, è corsa a chiamare la mamma per tranquillizzarla. Abbiamo chiamato il dottor Molinari[3], è subito arrivato, lo ha visitato bene e ci ha spiegato che i bambini piccoli sono molli. Fasciato com’era mio fratello non si era fatto niente.
Il secondo episodio è avvenuto nella stalla dove avevamo, oltre alla mucca, due o tre vitelli, due pecore e una scrofa. Per avere i maialini da vendere a fine inverno bisognava fare in modo che partorisse a novembre. Dopo 60 o 70 giorni erano pronti per lo svezzamento; uno era per noi e la rimanenza si vendeva. Quasi tutte le famiglie tenevano un maiale da macellare per farsi le scorte di salami per tutto l’anno. Se il tempo era bello la scrofa veniva liberata tutti i giorni, gironzolava, mangiava erba e frutta caduta per terra; si risparmiava così un po’ di farina. Un giorno verso sera arriva mio padre e vede nel cortile la scrofa barcollare e cadere per terra; tentava di alzarsi ma non ce la faceva a stare ferma sulle zampe. Era gravida di 10 – 14 maialini[4], un capitale. “Povero me – disse mio padre – questa muore, cosa faccio? Vado subito a Neive dal veterinario”. Intanto mentre si avvia, osserva bene la scrofa che sembrava perdesse sangue dalla bocca. Scrutando bene si rese conto che il colore non era quello del sangue ma quello del vino. Allora capì quello che è successo e si mise a ridere. In cantina aveva lasciato un secchio con del vino torbido a depositare; la porta era aperta, la scrofa era entrata e l’aveva bevuto. Era ubriaca. Passata la sbornia fece ritorno nella stalla per dormire.
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[1] Eugenia Pio (1903-1952) era nata con l’anca lussata e difficilmente avrebbe potuto mettere su famiglia. Era quindi stata mandata a studiare da maestra, forse con l’aiuto di una parente suora. Possiamo solo supporre che avesse frequentato ad Alba e si fosse fermata in collegio dalle suore. Aveva poi ottenuto di lavorare a Mango e quando il padre Raimondo morì, nel 1928, si era trasferita dalla cascina al paese con la madre Rosina e l’altra sorella nubile Teresa. Teresa Pio (1905-1986) aveva avuto l’osteomielite ed era zoppa: un’altra ragione per non mettere su famiglia.
Noi nipoti più grandi la ricordiamo con un sorriso perché era un po’ noiosa e ‘complimentosa’; nel mobile di cucina teneva sempre una bottiglia per offrire un cicchetto agli ospiti adulti e un piatto con i croccantini per i bambini. «Prendine ancora uno, prendine ancora uno…».
Eugenia era una brava maestra ed era ricordata con affetto da tutti gli allievi. Non aveva insegnato a nessuno dei nipoti figli di Berto, escluso Giuseppe (e di questo parlerò in seguito). Comperava libri, quaderni e pennini per gli alunni più poveri e cuciva collettini bianchi e fiocchi per chi li aveva troppo consumati (la divisa di quei tempi, come anche dei miei, era costituita da un grembiule nero con colletto bianco e vistoso fiocco blu); in estate dava lezioni a chi aveva bisogno di recuperare. Morì di carcinoma nodulare ai polmoni.
Questi ricordi sono stati raccontati dalle nipoti (e mie zie) Teresa e Giovanna.
[3] Il dottor Mario Molinari era il medico del paese, quindi per chiamarlo bisognava percorrere i tre chilometri in salita per raggiungere Mango; insomma, se il problema era urgente l’arrivo del medico non poteva essere immediato. Il servizio sanitario gratuito non esisteva e il medico si pagava in natura oppure quando c’erano contanti, cioè un paio di volte l’anno: alla vendita dei bozzoli dei bachi da seta o delle uve.
Le figlie del dottore venivano spesso a giocare nella cascina e in età adulta ricordavano con piacere i giochi con i bambini Pio: «le giornate più belle le abbiamo passate a Prassotere».
Nella foto, le figlie del medico hanno il fiocco in testa; i Pio sono, da destra: Beppe (senza scarpe), Raimondo, Cecilia con in braccio Giovanna; in prima fila: Eugenia (figlia di Giuseppe, fratello di Berto, quindi cugina degli altri) e Teresa.
[4] Giovanna dice che le loro scrofe avevano 12 mammelle e se nascevano più di 12 maialini, toccava a lei dare da mangiare a quelli che non potevano essere nutriti dalla mamma. «Ogni maialino sceglie una mammella e succhia sempre da quella». I maialini nutriti da lei la consideravano come una mamma e la seguivano dovunque. «Comunque quando crescevano li vendevamo o li mangiavamo». Nella foto di copertina vediamo Carlo nutrire un maialino (1955); il compito che era di Giovanna, a quel tempo già sposata, era passato a lui.
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