SILVIA ROSA
Durante il mio viaggio in Perù ho avuto il piacere di visitare una retrospettiva dedicata al grande fotografo di origine indigena Martín Chambi (in cui erano esposti anche i suggestivi lavori della figlia Julia, che ho apprezzato assai).
Mi ha colpita non poco la storia di quest’uomo, classe 1891, nato in una famiglia contadina di lingua quechua, in una delle regioni più povere del Perù, andato giovanissimo a lavorare con il padre in una miniera d’oro. Ora, minatore ragazzino, povero e appartenente a una minoranza etnica (costretta dopo l’arrivo degli spagnoli ad abdicare alla propria identità e ricacciata al fondo della gerarchia sociale ancora ai giorni nostri), poteva vivere in angusti e tetri spazi (in senso metaforico e non) la sua esistenza, uno dei tanti ultimi tra gli ultimi. Invece il giovane Martín scopre la fotografia, affiancando il fotografo della miniera Santo Domingo, che lo inizia ai rudimenti della professione. Nel 1908, a 17 anni, si trasferisce nella città di Arequipa e per nove anni lavora come apprendista per un fotografo del posto, finché nel 1917 apre un suo studio e da pionere inizia a diffondere un genere assolutamente nuovo all’epoca: le cartoline con i paesaggi delle Ande. Ma il ruolo cruciale che la sua arte ha rivestito in Perù e nel mondo (ha esposto persino al MoMa) non sta tanto nell’aver reso note le bellezze paesaggistiche peruviane con le sue cartoline, e nemmeno nell’aver immortalato il Machu Picchu in una delle prime spedizioni che ne hanno svelato dopo secoli la meraviglia nascosta. Il suo grandissimo merito è stato piuttosto quello di aver ritratto gli indigeni, contadini, minatori, uomini donne vecchi bambini, poveri, poverissimi, sfruttati e vessati, restituendo loro quella dignità che non avevano e non hanno mai perduto, nonostante tutti i tentativi di piegarli a una cultura dominante estranea e predatoria.
Mi ha commosso pensare a quanta forza d’animo debba aver avuto quest’uomo per riuscire a mutare in arte il dolore e lo straniamento di un popolo intero.
Mi ha dato da riflettere, poi, che l’incontro con questa personalità straordinaria sia avvenuto in un hotel, sì, un hotel, che ospitava al suo interno una sala espositiva a lui dedicata. Mi ha fatto pensare al turismo di massa che oggi porta benessere economico al Perù, ma che non è così distante da certe forme di invadente dominazione, non paragonabile al colonialismo forse, ma in ogni caso qualcosa che (s)travolge radicalmente territorio e cultura locale. Il sacro Machu Picchu trasformato in un enorme parco giochi, 5000 ingressi al giorno, ad esempio. Luoghi termali da sempre frequentati liberamente dalle popolazioni autoctone ora diventati proprietà di lussuosi resort, che hanno creato vasche esclusive ingabbiando l’allegro scorrere delle acque, in cui ormai i locali possono bagnarsi solo relegati in un angolo, ai margini della loro stessa terra. E potrei andare avanti in questo elenco di ingiustizie (mi si perdoni il termine forte) che mi ha fatto sentire a disagio per tutto il viaggio. Ovviamente la questione è molto complessa, poche righe non sono sufficienti a dirimerla. Ci tenevo solo a condividere questo incontro, perché in tempi come i nostri è una storia a lieto fine che dà un minimo di speranza nella possibilità di poter rovesciare un destino segnato in nero, rivelando nel suo punto più cupo una traccia luminosa per sé e per gli altri.
Mi ha colpita non poco la storia di quest’uomo, classe 1891, nato in una famiglia contadina di lingua quechua, in una delle regioni più povere del Perù, andato giovanissimo a lavorare con il padre in una miniera d’oro. Ora, minatore ragazzino, povero e appartenente a una minoranza etnica (costretta dopo l’arrivo degli spagnoli ad abdicare alla propria identità e ricacciata al fondo della gerarchia sociale ancora ai giorni nostri), poteva vivere in angusti e tetri spazi (in senso metaforico e non) la sua esistenza, uno dei tanti ultimi tra gli ultimi. Invece il giovane Martín scopre la fotografia, affiancando il fotografo della miniera Santo Domingo, che lo inizia ai rudimenti della professione. Nel 1908, a 17 anni, si trasferisce nella città di Arequipa e per nove anni lavora come apprendista per un fotografo del posto, finché nel 1917 apre un suo studio e da pionere inizia a diffondere un genere assolutamente nuovo all’epoca: le cartoline con i paesaggi delle Ande. Ma il ruolo cruciale che la sua arte ha rivestito in Perù e nel mondo (ha esposto persino al MoMa) non sta tanto nell’aver reso note le bellezze paesaggistiche peruviane con le sue cartoline, e nemmeno nell’aver immortalato il Machu Picchu in una delle prime spedizioni che ne hanno svelato dopo secoli la meraviglia nascosta. Il suo grandissimo merito è stato piuttosto quello di aver ritratto gli indigeni, contadini, minatori, uomini donne vecchi bambini, poveri, poverissimi, sfruttati e vessati, restituendo loro quella dignità che non avevano e non hanno mai perduto, nonostante tutti i tentativi di piegarli a una cultura dominante estranea e predatoria.
Mi ha commosso pensare a quanta forza d’animo debba aver avuto quest’uomo per riuscire a mutare in arte il dolore e lo straniamento di un popolo intero.
Mi ha dato da riflettere, poi, che l’incontro con questa personalità straordinaria sia avvenuto in un hotel, sì, un hotel, che ospitava al suo interno una sala espositiva a lui dedicata. Mi ha fatto pensare al turismo di massa che oggi porta benessere economico al Perù, ma che non è così distante da certe forme di invadente dominazione, non paragonabile al colonialismo forse, ma in ogni caso qualcosa che (s)travolge radicalmente territorio e cultura locale. Il sacro Machu Picchu trasformato in un enorme parco giochi, 5000 ingressi al giorno, ad esempio. Luoghi termali da sempre frequentati liberamente dalle popolazioni autoctone ora diventati proprietà di lussuosi resort, che hanno creato vasche esclusive ingabbiando l’allegro scorrere delle acque, in cui ormai i locali possono bagnarsi solo relegati in un angolo, ai margini della loro stessa terra. E potrei andare avanti in questo elenco di ingiustizie (mi si perdoni il termine forte) che mi ha fatto sentire a disagio per tutto il viaggio. Ovviamente la questione è molto complessa, poche righe non sono sufficienti a dirimerla. Ci tenevo solo a condividere questo incontro, perché in tempi come i nostri è una storia a lieto fine che dà un minimo di speranza nella possibilità di poter rovesciare un destino segnato in nero, rivelando nel suo punto più cupo una traccia luminosa per sé e per gli altri.
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Silvia (Giovanna) Rosa nasce nel 1976 a Torino, dove vive e insegna italiano agli stranieri. Laureata in Scienze dell’Educazione, ha frequentato il Corso di Storytelling della Scuola Holden di Torino (2008/2009). Fa parte della redazione dell’Annuario di Poesia Argo, e del blog “Poesia del Nostro tempo”, dove si occupa tra l’altro delle rubriche “Confine donna: poesie e storie d’emigrazione” e “Scaffale poesia: editori a confronto”. Cura per NiedernGasse la rubrica “L’asterisco e la Margherita”, firmandosi con il nome di Margherita M. È tra le ideatrici del progetto “Medicamenta: lingua di donna e altre scritture”, che propone una serie di letture, eventi e laboratori rivolti a donne italiane e straniere, lavorando in un’ottica psicopedagogica e di genere con le loro narrazioni e le loro storie di vita. Ha intervistato e tradotto alcuni poeti argentini, dando vita al progetto Italia Argentina ida y vuelta. Incontri poetici, pubblicato nel 2017 in e-book, a cura di Versante Ripido e La Recherche. Suoi testi poetici e in prosa sono presenti in diversi volumi antologici e sono apparsi in riviste, siti e blog letterari. Tra le sue pubblicazioni: le raccolte poetiche Tempo di riserva (Giuliano Ladolfi Editore 2018), Genealogia imperfetta (La Vita Felice 2014), SoloMinuscolaScrittura (con prefazione di Giorgio Bàrberi Squarotti, La vita Felice 2012), Di sole voci (LietoColle Editore 2010); il saggio di storia contemporanea Italiane d’Argentina. Storia e memorie di un secolo d’emigrazione al femminile (1860-1960) (Ananke Edizioni 2013).
Biobibliografia completa qui:
http://www.larecherche.it/biografia.asp?Tabella=Biografie&Utente=silviarosa
(In copertina, una foto scattata da Martín a una famiglia di contadini in abiti tradizionali)