SILVIA PIO
Il racconto che segue è ispirato ad un fatto avvenuto durante l’alluvione del 1994 lungo le rive del Tanaro. Nei giorni 5 e 6 novembre il Po, il Tanaro e molti dei loro affluenti esondarono a causa di tre giorni di piogge eccezionali e delle temperature alte per la stagione che impedirono alle precipitazioni in montagna di trasformarsi in neve.
Le vittime furono 70, ne conoscevo un paio abbastanza bene.
A quel tempo abitavo in Langa. Mai si era vista tanta acqua in cima alle colline; le vie del paese erano torrenti ed i torrenti veri in fondo alle valli (più che torrenti, sono di solito rittani con un filo d’acqua) rombavano con suono che nessuno ricordava e che di notte teneva svegli. La corrente elettrica era saltata, e non c’era modo di sapere cosa stesse succedendo dalle altre parti. Nel pomeriggio di domenica 6 spiovve e arrivarono le prime voci da chi aveva tentato di andare ad Alba: la statale era interrotta da frane, e la provinciale delle colline era sparita lasciando soltanto picchi di terra con in cima blocchi d’asfalto. In entrambi i casi le abitazioni erano scivolate con le frane e crollate.
Non avevo notizie dei miei genitori perché ad Alba erano saltate anche le linee telefoniche. Siamo riusciti ad arrivare in città un paio di giorni dopo, quando una strada secondaria venne sgomberata; il ponte sulla statale non era sicuro. Ricordo che arrivando dalla frazione Como la città in basso appariva tetra come se fosse interamente ricoperta di fango. La puzza di fogna era insopportabile. Nel crepuscolo il grigio diventava ancora più scuro perché l’illuminazione pubblica non funzionava.
Ovunque c’erano persone che spalavano, color del fango loro stesse.
Ho trovato mio padre e mia madre, insieme a tutti gli abitanti del condominio e qualche volontario, a riempire carriole con gli oggetti delle cantine sotterranee, ormai inutilizzabili. La mia bicicletta si vedeva appena in un ammasso di ferraglia incrostata.
La portata del disastro si conobbe soltanto man mano che arrivavano le notizie con il passaparola; l’idea d’insieme ci fu solo con il ripristino della corrente e la costruzione di strade e ponti provvisori. Andavamo in giro a vedere, anche se ci era consigliato di non muoverci, cercavamo di riconoscere il paesaggio non sempre riuscendoci.
La nostra è zona di alluvioni e novembre è di solito il mese più a rischio. L’evento del 1994, però, ha segnato un cambiamento che tutti abbiamo percepito. La consapevolezza delle persone è diventata più profonda, così come la disponibilità a dare una mano nelle emergenze. Il servizio di Protezione Civile, riorganizzato a livello nazionale proprio due anni prima di quell’evento, ha visto aumentare gli iscritti e le sedi persino nei nostri paesi più piccoli. Il ricordo è mantenuto vivo ogni anno con iniziative e intitolazioni alle vittime. Ma soprattutto sono state fatte opere importanti che, nelle alluvioni successive, hanno evitato i danni del 1994.
Però ad ogni pioggia di novembre tutti guardiamo i fiumi, ne controlliamo non solo il livello ma il colore e il rumore. Stiamo svegli di notte quando il frastuono aumenta.
Da bambini, durante i temporali, la mamma accendeva una candela benedetta: a quei tempi la corrente elettrica era la prima a saltare al primo colpo di tuono, quindi il rito religioso serviva anche a fare chiaro. Confesso che nel 1994 ne ho cercata una, invano.
Il fragore del fiume
Ricordo tutto di quei giorni: il primo anniversario, un novembre tiepido, la crisi del lavoro. La solitudine pesante e il tempo da riempire infinito.
Ho detto a mio figlio di lasciarmi il nipotino, per tenermi compagnia, per avere un’occasione di rimettere in ordine la casa; una casa troppo grande, su un piano solo, nella zona industriale vicino al fiume, costruita per l’azienda di famiglia ora chiusa.
Il piccolo è arrivato il venerdì mattina, restio a mollare i genitori ma remissivo. Povero tesoro.
Già pioveva con insistenza, il fiume gonfio e sporco, l’odore di umido fuori e dentro. Il venerdì abbiamo preparato la camera che era stata di suo padre; avevo comprato le lenzuola dei cartoni animati sbagliando i gusti del bambino. Comunque, il piccolo guardava poco la televisione.
Dovevamo per forza stare in casa: nella zona industriale non c’erano luoghi per le persone e il centro era intasato dagli strascichi della Fiera del tartufo, senza neppure un posteggio disponibile. E poi, con quella pioggia…
Avevo tirato fuori i giochi che erano già vecchi ai tempi di mio figlio: shanghai, il giro del mondo e il gioco dell’oca, e il piccolo sembrava divertirsi, specialmente con il Monopoli e le carte napoletane per rubamazzetto, dove mi obbligava a coinvolgermi.
La sua presenza non mi consolava come avrei voluto, mi sembrava di tornare indietro a quando mio figlio era piccolo e invitavo sempre i suoi amichetti per riuscire ad andare a lavorare in azienda. Non avevo paura a lasciarli da soli e ogni tanto tornavo per controllare che tutto andasse bene.
Giocando, la sera ho perso il telegiornale regionale. Abbiamo chiamato mio figlio e il piccolo gli ha parlato a lungo al telefono. Poi me l’ha passato: Hai visto che pioggia?
Quando siamo andati a dormire ho detto al piccolo che avrebbe potuto venire nel mio letto se il rumore del fiume gli faceva paura, ma lui ha risposto semplicemente: grazie. Nella notte l’ho sentito rigirarsi e sospirare; io non dormivo.
Il sabato mattina pioveva ancora. C’era il solito traffico del mercato sul viadotto sopra casa, ma il fiume faceva un rombo più forte del traffico. Abbiamo preparato gli gnocchi per intrattenerci, ma a pranzo abbiamo mangiato poco, e riponendo gli avanzi nel frigo mi sono accorta che era andata via la corrente. Avevo fatto una bella scorta per il fine settimana e ora ero preoccupata che qualcosa andasse a male. Nel primo pomeriggio anche il telefono era saltato e non abbiamo potuto chiamare mio figlio; il piccolo era dispiaciuto, ma cercava di non dimostrarlo.
Guardava dalla finestra quel colore sporco del cielo senza fissare nulla in particolare, e il grigio si rifletteva nei suoi occhi chiari dando loro un bagliore cupo. Il rumore dell’acqua era dappertutto e nulla avrebbe potuto coprirlo, né TV né radio e tantomeno il rumore del traffico, che era completamente cessato. La strada davanti a casa si stava riempiendo di fango, il tombino rigurgitava il suo contenuto scuro in bolle che si alzavano e spandevano scoppiando.
Si stava facendo buio. L’illuminazione pubblica non si accendeva e nella penombra mi sembrò di vedere come un torrente nella strada laterale, quella che portava al fiume. Il fiume non lo vedevo da casa, ma lo sentivo, sempre più feroce.
Nonna! Il piccolo mi indicava sotto la porta di ingresso un flusso lucido di acqua che stava entrando. Prendiamo gli stracci. Anche gli asciugamani. Le lenzuola. Le coperte. Si sono inzuppate in un niente e non sono servite a fermare l’acqua. Ci siamo accoccolati sul divano senza parlare, con il gorgoglio che ci riempiva le orecchie. Ma il divano è stato raggiunto in fretta, poi il tavolo. Non c’erano luoghi più in alto sui quali salire. Maledetta casa ad un piano, gli altri avevano le camere di sopra, noi no. Mio marito pensava che una casa al piano ci sarebbe venuta a taglio da vecchi, e lui vecchio non lo era diventato. Un infarto l’anno scorso, mentre stava lavorando. Neppure il tempo di salutare.
Nonna! Il piccolo si vedeva appena nel buio. L’acqua aveva sfondato la porta d’ingresso e attraverso la fessura i lampi illuminavano a tratti gli edifici vicini. Se qualcuno facesse rumore non si poteva sentire. Mi sembrò di vedere una sagoma allungata passare dove doveva esserci la strada; ho urlato ma nessuno poteva sentirmi.
Sai nuotare, nonna? Sì, ma avremmo almeno dovuto pensare a qualcosa che ci aiutasse a galleggiare. Lo spazio tra l’acqua e la cima della porta si riduce: dobbiamo uscire.
Appena davanti all’infisso una corrente gelida ci stacca dalla cornice di legno e ci fa sbattere contro il cancello di metallo.
Parlare non serve; prendo le piccole mani e le chiudo alle sbarre, ma le mani sono intirizzite. Lo abbraccio e mi aggrappo io, il cancello è alto tre metri, l’acqua non può salire tanto, se ci teniamo stretti magari riusciamo a resistere. Il cancello l’ha voluto mio marito per l’azienda, ma lo lasciavamo sempre spalancato; solo dopo la chiusura della ditta l’abbiamo serrato e ora forse ci serve così.
La corrente aumenta in un’onda che sorpassa le punte del cancello e quando scende il piccolo non c’è più. Urlo, ma non sento neppure la mia voce. È il fragore dell’acqua che mi arriva nelle orecchie, nella testa. E quello è l’ultimo ricordo.
(Le foto di Lorenzo Avico sono state scattate durante l’alluvione del 1994)