Questioni di demografia romana e moderna – 1

locandina-dante-novembre-2018

PAOLO LAMBERTI

Da Roma a Nairobi

Sul numero di agosto2018 di National Geographic si legge un servizio sui frequenti avvelenamenti di leoni ed altri animali tramite pesticidi, che i Masai usano sia per bracconaggio sia per proteggere le mandrie, che sempre più vengono portate ai margini o dentro i grandi parchi nazionali.

Il motivo è da ricondurre all’incremento demografico della popolazione keniana: quando ero piccolo il Kenia era un paese abitato più o meno come il Belgio, tra pochi decenni avrà la popolazione della Germania. Nell’arco di una possibile vita umana, come la mia, una nazione africana passa quindi dalle dimensioni belghe a quelle tedesche; e nello stesso arco di tempo la Nigeria supererà l’intera Europa, per numero di abitanti.

Tra i tanti squilibri, economici, ecologici, di sanità ed istruzione, che giustamente indignano e preoccupano, quello che sta a monte di tutti, lo squilibrio demografico, è diventato negli ultimi decenni politically uncorrect: vuoi per il senso di colpa occidentale, vuoi per l’ossessione demografica delle religioni monoteiste.

Se il “crescete e moltiplicatevi” biblico poteva aver senso in epoche in cui, ad esempio, i tanto vantati regni di David e Salomone potevano avere poco più di 50.000 abitanti, come rivelano gli archeologi, oggi ci troviamo dinanzi a proiezioni demografiche che negli ultimi anni hanno visto un netto aumento delle stime della popolazione.

Paradossalmente se le catene alimentari in natura hanno una forma piramidale, con pochi predatori al vertice, oggi il mondo vede l’immagine di un fungo, un porcino con una testa sempre più grande e pesante (e quindi destinata a staccarsi e cadere).

Ma lo squilibrio è doppio: se da una parte zone come l’Africa e il Medio Oriente esplodono, anche per l’uso cinico e spregiudicato della demografia come arma (si pensi alla media di più di 5 figli per donna a Gaza, o alla politica demografica degli ayatollah iraniani), dall’altra nazioni come l’Occidente, ma anche il Giappone e la Russia, sono in crisi demografica.

Non credo che sia un caso che si oppongano aree in cui, pur con fatica, possiamo parlare di cittadini uomini e donne, di ricerca di parità di sessi, e di aree invece in cui si può parlare, un po’ brutalmente, di società composte da maschi e fattrici.

Riflettere sulla demografia del mondo romano aiuta a smontare un altro degli idola fori del mediocre dibattito attuale sulle migrazioni, “l’aiutiamoli a casa loro”. Aumento demografico e migrazioni crescono in parallelo all’economia. I miglioramenti commerciali e tecnologici portati dal contatto con il mondo avanzato di Roma furono alla base della crescente pressione ai confini. Esattamente come l’emigrazione italiana conosce i suoi picchi in età giolittiana e negli anni Cinquanta del Novecento, ovvero proprio in corrispondenza di due delle poche stagioni di crescita e modernizzazione dell’Italia. Del resto le agenzie dell’ONU hanno da tempo chiarito che non sono i più poveri a migrare, ma quelli che cominciano ad avere la prospettiva di una vita migliore ed un reddito sufficiente per affrontare il viaggio.

Non perché l’historia sia magistra vitae (la storia non è maestra di niente scriveva Montale), ma per avere un po’ di prospettiva senza rimanere schiacciati sull’oggi, può essere utile riflettere su un simile squilibrio che si può rilevare nell’età imperiale di Roma, a partire da Augusto: quello tra la crescente pressione demografica sul limes renano-danubiano e la graduale estinzione dei nobiles e della classe dirigente romana.

Demografia, arma a doppio taglio

Uno storico recentemente ha detto che la maggiore eredità di Roma al mondo moderno è la Germania: il lettore magari sobbalzerà, però è un dato di fatto che l’etnogenesi delle tribù germaniche è riconducibile a Roma come la nascita della maggioranza degli stati moderni va riportata agli influssi ideologici ed alle politiche commerciali e coloniali dell’Occidente. Di questo ho già brevemente trattato in un mio saggio su Margutte, cui rimando per approfondire. Tuttavia si può riassumere la situazione con un parallelo con l’oggi.

Il computer e l’automobile sono nati in Occidente: ma io ho uno smartphone cinese e un’auto coreana; parimenti le tecniche agricole romane filtrano oltre il limes, aratri di ferro, nuove coltivazioni come la vite, e questo permette di passare da una agricoltura di sussistenza, fatta di “taglia e brucia” per creare campi temporanei nelle foreste, ad un surplus che favorisce sia la demografia che un uso più razionale del suolo. Sono gli stessi effetti della “rivoluzione verde” a partire dagli anni ‘60 in Africa ed Asia.

Questi surplus entrano all’interno dei circuiti commerciali imperiali, favoriti dalla frequenza con cui sono menzionati mercanti romani oltre il limes o dalle massicce richieste di forniture per l’esercito romano: la logistica imperiale ha creato un buon numero delle città europee moderne, e dei panorami agricoli di oggi. Esattamente quello che succede con l’inserimento delle agricolture dei paesi emergenti prima nella produzione delle multinazionali del cibo, con le monoculture, ed oggi nella costante espansione cinese in Africa e America meridionale, dove Pechino acquista sempre più terre per coprire i propri fabbisogni.

Entrare nei circuiti imperiali comporta anche l’arrivo della finanza: Tacito nella Germania ricorda che i Germani, barbari forse ma bravi affaristi, chiedevano i denarii di Tiberio e Claudio e non volevano quelli di Nerone, che li svaluta (riducendo la quantità di argento) per ovviare al deficit delle partite correnti dell’Impero, che per secoli esporta oro ed argento per importare merci rare. Questo comporta un fenomeno che oggi viviamo quotidianamente: la finanza crea forti squilibri di ricchezza, segmentando la società e facendo emergere una classe di ricchi che si impadroniscono delle leve del potere.

Questo a sua volta porta all’emergere di aggregazioni di clan poi di tribù, creando “popoli” non tanto etnicamente quanto politicamente: processo favorito da Roma, che preferisce trattare con poche grandi entità che con una miriade di cantoni. L’impero stringe trattati, fornisce “tributi”, insedia basi militari, addestra ed arma eserciti. Anche qui possiamo riconoscere la moderna politica, con i suoi “aiuti allo sviluppo”, la vendita di armi, la preferenza a trattare con stati e capi di stato riconosciuti, la difficoltà a districarsi in situazioni di disgregazione come quelle dei failed states: con chi trattare in Germania, Pannonia, Dacia, oppure in Libia, Somalia, Siria, Congo? Meglio un unico interlocutore, sia esso Maroboduo o Al Sisi. Già a Roma si coglie un certo disagio verso questa politica, disagio oggi dominante nell’opinione pubblica occidentale. La Cina invece non si fa problemi, si tratta con chi comanda, punto.

Che poi i clientes si rivelino infidi o nemici, succedeva anche a Roma. Arminio è probabilmente educato a Roma, diventa un alto ufficiale, è cittadino romano e addirittura appartiene all’ordine equestre, è amico e commensale di Varo. A questo punto Roma non può dargli altro: invece, armato di prestigio, denaro e conoscenze militari, torna tra i Cherusci, che non hanno un leader, e capisce che a fare l’alleato di Roma rimane un semplice maggiorente, ma se si appella alla “libertà”, o come diremmo oggi, alla lotta all’imperialismo, diventa il capo. Così Teutoburgo impone a Roma uno choc ben peggiore e più concreto dell’11 settembre, ed inizia un ciclo di guerre di più decenni.

Da ultimo l’espansione demografica fornisce la manodopera militare di giovani poveri e robusti, quell’abbondanza di soldati spendibili che ha creato la forza di Roma ai tempi della Repubblica: a Canne i Romani perdono tra 50.000 e 80.000 uomini in quattro ore, due mesi dopo ne hanno in campo lo stesso numero. L’Impero spesso sfrutta per i suoi auxilia questi giovani provenienti da oltrefrontiera, di solito però integrandoli come cittadini al termine del servizio; in varie forme poi utilizza questo surplus demografico ora come schiavi, ora come coloni, ora insediandoli in terre abbandonate nell’impero: sono le varie forme di coloni, dediticii, laeti. Migranti che rafforzano l’Impero e di solito si integrano abbastanza facilmente.

Però con il tempo l’abbondanza demografica oltre il limes e le spinte dalle steppe, che grazie ad un clima favorevole offrono spazi e numeri a popolazioni nomadi come Unni ed Avari, forniscono il materiale per la formazione di grandi coalizioni, guidate da uomini che come Arminio, o poi Alarico o Teodorico, sono educati ed addestrati alla romana, e sanno quindi che per trattare alla pari bisogna avere i numeri e le armi. Noi le abbiamo chiamate le invasioni barbariche.

Seguire i geni

La parola “invasione” è controversa, e spesso impopolare. Le visioni ottocentesche di popoli etnicamente e linguisticamente unitari, in cerca di una nazione, si sono tragicamente mutate nell’Ein Voelk, ein Reich, ein Fuehrer nazista.

Come reazione, negli anni di Woodstock, tra gli storici e soprattutto gli archeologi è nato il “diffusionismo” (colonna sonora Imagine di John Lennon). Popolazioni per lo più stanziali si trasmettevano pacificamente culture, sposandosi credo per amore. Di fatto l’archeologia può dire molto sulle culture materiali, ma è molto difficile identificarle con i nomi trasmessi dalle fonti, né è possibile ricostruire le vicende storiche e politiche. A ciò si è aggiunta una lettura retorica e decostruzionista degli storici classici, che avrebbero scritto testi basati su topoi retorici e stereotipi, come ad esempio quello di invasioni di popoli barbari.

A partire dagli studi di Cavalli Sforza la biologia molecolare si è inserita a sparigliare la questione; partendo dai gruppi sanguigni si è iniziato a cogliere la complessità e l’ampiezza delle migrazioni umane. Però è l’avvento della genetica ad aver rivoluzionato il campo, anche se storici ed archeologi faticano non poco ad accettarne i risultati. Soprattutto uno studioso come Svante Pääbo ha saputo recuperare DNA antichi, e con le tecniche più moderne negli ultimi anni si sono sequenziati interi genomi di migliaia di uomini vissuti migliaia e decine di migliaia di anni fa.

David Reich, che ha sequenziato buona parte di questi genomi, in un libro recente ha fatto il punto sullo status quaestionis. Tra le sue conclusioni l’esclusione che vi siano popoli geneticamente omogenei, l’estrema mobilità degli esseri umani, la cancellazione di ogni fantasia di autoctonia (avevano ragione i romani, non gli ateniesi), la fallacia di quasi tutte le idee delle singole culture sulle proprie radici. Ma soprattutto la dimostrazione di continui e significativi spostamenti di gruppi di umani, che non smentisce ma riduce fortemente la correttezza del diffusionismo. Come dice Adam Rutherford, gli uomini sono nomadi lussuriosi.

Oggi possiamo quindi evidenziare una serie di ondate di popolazioni che hanno costruito il panorama genetico dell’Europa, risolvendo ad esempio la questione delle lingue indoeuropee, non tanto collegabili agli agricoltori neolitico originari del Medio Oriente quanto ai gruppi provenienti dalle steppe, legati alla cultura dei kurgan.

Se questi spostamenti di popolazioni non possono più essere interpretati in chiave ottocentesca, tuttavia neppure la logica di un diffusionismo modello “Festa dei Popoli” appare adeguata. Né genetica né archeologia possono ricostruire con chiarezza le vicende storiche, ma non mancano dati che fanno riflettere.

Neppure 50.000 anni fa esistevano almeno cinque specie umane (Sapiens, Neanderhal, Denisova, Floriesensis ed Erectus), da almeno 30.000 ce n’è una sola, la nostra. Un trapasso con modalità sconosciute: però sappiamo sia che ci sono stati incroci, sia che questi sono stati piuttosto limitati, dato che nel genoma dei non africani il DNA neandertaliano e denisoviano raramente supera i due-tre punti percentuali. Non è impossibile che la nostra specie si sia imposta, demograficamente e culturalmente, assimilando in piccola parte e cancellando in gran parte gli altri.

Uno scenario, quello di migrazioni con tratti poco rassicuranti, che riemerge confrontando la genetica dei mitocondri e quella del cromosoma Y. I primi si trasmettono solo per via materna, il secondo ovviamente per via paterna. In presenza di migrazioni si nota spesso come il DNA mitocondriale rimanga in gran parte quello della popolazione femminile precedente, mentre quello del cromosoma Y proviene in gran parte dai nuovi arrivati, di solito da una piccola parte dei nuovi arrivati. Questo fa pensare sia a società gerarchiche e patriarcali in cui l’accesso alle donne è ristretto ad una élite, sia a quanto il mito del Ratto delle Sabine sia predittivo: tra le vecchie popolazioni i maschi sono eliminati, le femmine usate. A conferma di ciò, al momento sembra che l’eredità neandertaliana sia assente proprio dal cromosoma Y, anche se si ipotizza una mancanza di fertilità negli incroci tra Neanderthal maschi e donne sapiens.

Questo quadro conferma la centralità storica della demografia e permette di valutare la capacità delle varie società di gestirla: se le idee odierne in Italia ed in Europa sono a livello di puro infantilismo, la storia romana merita una valutazione largamente positiva.

Gestire la demografia

Innanzitutto c’è la percezione romana dell’importanza dei numeri della popolazione, e la lucidità nel capire che questi non possono essere raggiunti solo con la crescita interna, ma soprattutto con l’integrazione politica e culturale di altre popolazioni: quindi nessuna politica razziale sul modello mussoliniano o hitleriano, bensì figli adottivi di pari diritti di quelli naturali, affrancamento di schiavi, numerose e variate forme di integrazione nella cittadinanza, a vari livelli, accoglienza non solo di singoli ma di gruppi etnici.

In parallelo nessun dubbio sul valore della propria cultura, e la consapevolezza che popolazioni esterne possono essere una risorsa, ma anche un rischio, da affrontare con una politica estera accompagnata da una decisa forza militare, sia offensiva che difensiva. Che sia il metus gallicus o il timore verso i Germani, la paura dell’invasione dei barbari è una costante della storia romana: anche tralasciando gli anni oscuri della Repubblica e le lotte contro Equi e Volsci, a partire dal sacco di Roma nel 390 aev i Galli appaiono un nemico pericoloso almeno sino a Cesare, per venire sostituiti, da Mario in poi, dai Germani.

Gli storici latini che parlano di invasioni e del pericolo alle frontiere non stanno svolgendo un compitino di retorica: a differenza dei loro critici moderni, essi spesso parlano di esperienze personali. Cesare rischia la vita contro i Germani, Tacito conosce bene il limes renano, probabilmente ci è nato e vi ha prestato servizio, Arriano guida una brillante campagna contro gli Alani, Ammiano Marcellino è un generale esperto: quando parlano di pericoli ed invasioni, sanno di cosa parlano.

Se misuriamo gli anni dalla conquista gallica di Roma a quel 1 gennaio 406 ev che vede decine di migliaia di Franchi, Alamanni e di guerrieri di altri gruppi attraversare il Reno gelato, vediamo che la politica romana ha saputo gestire il problema demografico legato alla pressione dall’esterno con notevolissima efficacia, per otto secoli. Per trovare qualcosa di simile nel mondo moderno si può guardare alla ben più breve esperienza statunitense, mentre colpisce l’incapacità europea, che ha creato vasti imperi coloniali senza saper creare un’integrazione con essi: non si trovano oggi in Europa homines novi o imperatori che vengono dalle province, nessun Cicerone, nessun Traiano arriva dalle vecchie colonie.

Solo l’Egitto faraonico e soprattutto la Cina hanno saputo meglio coniugare forza demografica e forza culturale, grazie anche a terre più fertili di quelle del Mediterraneo, e ad una posizione geografica più compatta e protetta. Ancora oggi la Cina associa a tecnologia, forza militare ed economia una demografia che le permette di controllare Tibet e Sinkiang riducendo in minoranza le popolazioni locali. E di espandersi in Africa, America Latina e Siberia non solo con capitali ma anche portandovi manodopera.

truppe ausiliarie

truppe ausiliarie

Demografia interna: i soldati

La parabola di Roma si è invece interrotta, per la pressione crescente dall’esterno ma anche per quanto ricordato all’inizio: la crisi demografica interna, soprattutto a livello di élites.

Tuttavia tale interruzione avviene dopo molti secoli in cui i problemi sono gestiti in maniera efficace. Un ruolo centrale lo ha avuto Augusto, la politica demografica è stata uno dei punti salienti della sua attività: dal primo censimento dopo le guerre civili all’ultimo tenuto sotto Augusto sappiamo che il numero di cittadini romani passa da 4.063.000 nel 28 aev a 4.233.000 nell’8 aev a più di 4.937.000 al momento della morte. Cifre da accettare con una fiducia non totale ma ragionevole, e da compararsi con il censimento del 70 aev, 910.000 cittadini: un aumento da riportare soprattutto alle modalità dei censimenti, possibili con Augusto anche senza recarsi a Roma, e testimoni di una organizzazione burocratica più efficiente di quella repubblicana, ma riconducibile in parte anche alla pace ad ai provvedimenti augustei.

La forza del primo imperatore è stata nella capacità di passare da Ottaviano ad Augusto, da triumviro a princeps, da signore della guerra a statista, oggi diremmo da populista a potere forte. Questo passaggio è avvenuto sapendo gestire due realtà politiche e sociali che erano anche demografiche: l’esercito e la popolazione cittadina.

Uno storico militare nota la profonda differenza che c’è tra la battaglia di Farsalo, vinta da Cesare in modo geniale con l’invenzione della quarta schiera perpendicolare allo schieramento, che neutralizza la cavalleria pompeiana, e le due battaglie di Filippi e quella di Azio, scontri condotti in maniera frammentaria e goffa. Tale differenza non è solo tra uno stratega di qualità uniche e generali inesperti e mediocri come Ottaviano, Antonio, Bruto e Cassio, ma si ritrova nella sproporzionata grandezza delle forze impiegate, di fatto non gestibili dalle strutture di comando antiche (come ad esempio successe anche ai Persiani sia contro Atene sia contro Alessandro).

Al termine delle guerre civili vi sono almeno una settantina di legioni arruolate: anche dal punto di vista demografico la situazione è insostenibile, soprattutto perché questi soldati si aspettano ricompense in terre, strappate agli Italici, come testimonia Virgilio. Una situazione analoga, durante le guerre puniche, aveva di fatto devastato l’agricoltura e la società romane.

La soluzione augustea è ottenuta per tentativi: dapprima si nota una certa vena “populista”, escludendo confische e congedando buona parte dei soldati con premi in denaro pagati dal princeps stesso, che conferma il suo ruolo di signore della guerra. Le legioni rimaste sono inviate ai confini, con un servizio di 16 anni. Poi le realtà economiche prevalgono: il servizio sale a 20 anni, più spesso altri cinque da evocati, e 25 per gli auxilia; la paga base del legionario è fissata a 225 denarii, e tale rimarrà per due secoli; i fondi per i premi di congedo arrivano dall’aerarium militare, una tassa di successione sui patrimoni ammontante al 5%. A differenza di esperienze contemporanee, le tasse ricadono sui ricchi.

L’esercito dal punto di vista demografico permette di aumentare il numero di cittadini attraverso la concessione della cittadinanza agli auxilia congedati, e crea una serie di fortezze-città che allargano la civiltà romana e vi aggregano le popolazioni sottomesse; se anche ai legionari è proibito il matrimonio, al momento del congedo viene concessa la cittadinanza anche ai figli e alle compagne che di fatto erano la norma per i soldati. Tuttavia se le province prosperano, dall’Italia vengono sempre meno soldati; ancora sotto l’ultima Repubblica i legionari erano quasi tutti italici, con Augusto solo le coorti pretorie sono reclutate interamente in Italia: la crisi demografica è italiana (anche allora).

Demografia interna: le frumentationes

Se l’Italia Settentrionale regge ancora, quella centro-meridionale è sbilanciata dalla presenza di Roma: una metropoli che ospita, a seconda delle stime, tra 500.000 mila e un milione di abitanti tra i secoli I aev e I ev, e che attira migranti da tutto l’Impero, svuotando non solo le campagne italiche e creando una massa di cittadini dalle condizioni di vita precarie ma provocando un fortissimo impatto politico.

Curiosamente negli attuali dibattiti sul reddito di cittadinanza viene dimenticata quella particolare forma di reddito di cittadinanza costituito dalle frumentationes. Le fonti antiche esprimono verso tale uso una diffidenza profonda, non dissimile da quella che si vede oggi: non a caso Livio (IV, 12-14) collega alla distribuzione del grano a prezzo calmierato la figura di Spurio Melio, che nel 439 fu ucciso per avere distribuito cereali al popolo in occasione di una carestia, lasciando così sospettare la volontà di farsi re.

Si vede qui il nesso, ancora oggi evidente, tra populismo, demagogia e leggi per accattivarsi le masse: se il caso narrato da Livio è storicamente incerto, vista l’epoca alta, in età più recenti si moltiplicano i tentativi di offrire alla plebe grano almeno a prezzo calmierato.

Non a caso è Sempronio Gracco a riproporre la questione: la lex Sempronia frumentaria fu emanata nel 123 a.C. e prevedeva che l’erario acquistasse grano in Sicilia, lo portasse ad Ostia e lo vendesse a prezzo basso; si trattava di un sussidio limitato, prevedendo per ogni pater familias un massimo di 5 modii (circa 40 litri) ad un prezzo di poco più di 6 assi, più o meno la metà del prezzo di mercato. Tale legge, emanata contro il parere del senato, rimase in vigore e fu riproposta da altri esponenti radicali come Saturnino, ma abbassando il prezzo a meno di un asse; non a caso fu sospesa, ma non abolita, sotto Silla. Quando la riforma conservatrice sillana venne smantellata alla fine degli anni Settanta, nel 73 furono i consoli Gaio Cassio Longino e Marco Terenzio Varrone Lucullo, fratello del più celebre Lucio Lucullo, a proporre la lex Terentia et Cassia frumentaria, che riproponeva la vendita calmierata di grano, che doveva essere fornito dalle province a prezzo fisso e inviato dai governatori; il fatto che almeno Lucullo fosse un sillano rivela il peso che tali leggi avevano ormai nella ricerca del consenso; né va dimenticato che dopo la guerra sociale il numero di cittadini era molto aumentato, e questi provvedimenti favorirono l’afflusso di contadini in città.

Infatti il passo successivo fu la Lex Clodia frumentaria, promulgata su proposta di Clodio durante il suo tribunato nel 58, quando esiliò Cicerone: per la prima volta si prevedeva la distribuzione gratuita per i più poveri, e non si fissavano limiti agli aventi diritto, purché cittadini romani. Questo provocò non solo una nuova ondata di inurbamenti, ma spinse molti a liberare i propri schiavi scaricando così sullo stato i costi del loro mantenimento, mentre il rapporto di clientela li teneva comunque in uno stato di dipendenza. Il provvedimento ebbe un impatto molto forte sulle finanze dello stato, anche se Clodio aveva previsto come copertura i tributi di Cipro, di cui ottenne l’annessione, strappando l’isola all’Egitto contro il parere del Senato. Già allora le coperture finanziarie erano scelte con disinvoltura: il senso della legge era nella possibilità di controllare le liste dei beneficiari, con un brillante esempio di clientelismo politico.

Ovviamente l’impatto del provvedimento non fu solo sulle finanze statali, ma sul mercato stesso: le esigenze delle province e degli eserciti si sommarono a quelle di Roma, la pirateria, all’epoca all’apice, limitava i trasporti, i prezzi salirono e i cereali divennero rari, venendo tesaurizzati in attesa di ulteriori aumenti: come oggi, il dirigismo e la demagogia si scontrarono con le realtà economiche. Fu Pompeo ad approfittarne, ricevendo un comando straordinario di 5 anni, omnis potestas rei frumentariae toto orbe romano (Cic. Ad Att. IV, 1, 7) che risolse il problema, non si sa a quale prezzo per i provinciali.

Indipendentemente dalle vicende delle guerre civili, nessuno poté togliere un simile privilegio, una volta concesso: Cesare cercò di limitare il numero degli aventi diritto, passando da 320.000 a 150.000, escludendo i non cittadini e probabilmente fissando di nuovo un prezzo, sia pur calmierato, per tutti esclusi i più poveri; il numero doveva rimanere fisso, gli aventi diritto avevano una tessera frumentaria.

La ripresa delle guerre civili allentò i controlli, nelle Res Gestae Augusto, allora Ottaviano, ricorda di aver distributo il grano a 250.000 persone nel 44, di nuovo a 320.00 nel 5 aev, finché nel 2 aev fissò il numero a 200.000. Se il grano era calmierato, tuttavia non raramente sotto Augusto, e via via più di frequente, le distribuzioni diventarono gratuite, con il nome di congiaria. Fu poi Augusto a strutturare in maniera definitiva le frumentationes, creando un Praefectus Annonae di rango equestre, destinato a divenire uno dei funzionari più importanti dell’Impero: tale ufficio fu creato probabilmente dopo l’8 ev; in precedenza sotto la repubblica la cura annonae era di competenza degli edili plebei, però già con Cesare e poi con Augusto vennero istituite magistrature apposite, sempre di rango consolare; la sistemazione finale invece sottrae questo incarico delicato ai senatori, rinsaldando la presa dell’imperatore.

Ad un certo punto nell’antica Roma non solo il pane veniva concesso gratuitamente, ma anche vino, olio e carne. Man mano che cresceva la generosità dello stato nei confronti del cittadino, sempre più sottile si andava facendo il confine tra previdenza sociale in soccorso dei più indigenti ed evergetismo mirato ad ottenere il consenso politico. Nel periodo centrale dell’impero questo equilibrio si spezzò a favore del secondo aspetto e il regno di Commodo, alla fine del secondo secolo, è il più fulgido esempio di questa tendenza, tanto che ancora oggi è ricordato come il regno del pane e del circo.

Sotto Settimio Severo il sussidio del pane fu concesso anche a fanciulli e a soldati e con Aureliano, invece, venne elargito non più in modii di grano ma direttamente sotto forma di pane che veniva consegnato, quotidianamente, in pagnotte di due libbre ad ognuno degli aventi diritto. In età tardo antica infine la distribuzione di pane era ancora attiva, esistevano sia un panis popularis gratuito ed un panis fiscalis, a pagamento ma sussidiato; sappiamo anche dell’esistenza di fondi finanziari destinati all’acquisto di derrate, come l’arca frumentaria, olearia, vinalia; e proprio i primi imperatori cristiani toglieranno alle Vestali anche il privilegio di ricevere il grano dall’annona.

Demografia interna: la nobilitas

Il calo demografico della nobilitas viene affrontato per la prima volta da Augusto con una serie di provvedimenti di carattere sia moralistico che economico e fiscale. Può sembrare singolare, data la vicenda personale di Giulio Cesare Ottaviano.

Tra le eredità lasciategli da Cesare, che i suoi soldati chiamavano il fottitore calvo, c’era anche uno spiccato gusto per le mogli altrui, a partire da Livia Drusilla. Fece scandalo non tanto l’aver convinto il marito a divorziare, ma l’averla sposata incinta di Druso, figlio quindi del primo marito: di norma si lasciavano passare 10 mesi proprio per essere certi delle paternità. Invece in questo caso Ottaviano attese che la moglie Scribonia (nipote per parte di madre di Pompeo e Silla) desse alla luce Giulia, nel giorno stesso le inviò il divorzio e la settimana successiva convinse Tiberio Claudio Nerone, marito di Livia, a divorziare.

Fu comunque un matrimonio perfetto, almeno a livello politico: Livia rimase per tutta la vita un consigliere fidato, la prima donna ad avere titoli e littori. E fu lei a coordinare le attività seduttive del marito, per evitare problemi politici o il rischio di essere soppiantata.

Ma ironicamente la sua politica demografica non trovò riscontro nella sua vita familiare, come ricorda Svetonio:

«Sed laetum eum atque fidentem et subole et disciplina domus Fortuna destituit. Iulias, filiam et neptem, omnibus probris contaminatas relegavit; G. et L. in duodeviginti mensium spatio amisit ambos, Gaio in Lycia, Lucio Massiliae defunctis. Tertium nepotem Agrippam simulque privignum Tiberium adoptavit in foro lege curiata; ex quibus Agrippam brevi ob ingenium sordidum ac ferox abdicavit seposuitque Surrentum. [Ma il destino deluse lui che sperava di essere fertile nella prole e fiducioso nella disciplina della casa. Esiliò le due Giulie, la figlia e la nipote, colpevoli di ogni scostumatezza, mentre nello spazio di diciotto mesi perse Gaio e Lucio, morti il primo in Licia, il secondo a Marsiglia. Adottò allora, nel Foro, in forza di una legge curiata, il terzo nipote Agrippa e il figliastro Tiberio, ma tra di loro ben presto, considerato il carattere grossolano e brutale di Agrippa, annullò l'adozione e lo confinò a Sorrento.]» (Suet. Aug. 65).

A questo elenco va aggiunto Marcello, figlio del primo matrimonio di Giulia con Marco Claudio Marcello, il primo dei possibili eredi di Augusto a morire, come ricorda il celebre passo dell’Eneide:
Heu, miserande puer, si qua fata aspera rumpas, / tu Marcellus eris. Manibus date lilia plenis…
(Virg., Aen. VI, 882-883.)

Una certa contraddizione si ritrova anche nelle leggi augustee su matrimonio, famiglia e cittadinanza.
La Lex Iulia de adulteriis coercendis del 18 aev ripropone l’adulterio come reato, ma ne rafforza l’applicazione, sostanzialmente caduta in disuso, creando un’apposita quaestio; la Lex Iulia de maritandis ordinibus del medesimo anno favorisce i matrimoni sia rendendo accessibili le cariche in età più giovanili ai mariti sia offrendo vantaggi fiscali a coppie con almeno tre figli (ius trium liberorum, che durò a lungo e finì come sempre con il diventare una forma di privilegio e con l’essere applicato anche a chi non aveva tre figli).

Tuttavia la legge impediva a non coniugati o coppie senza figli di ricevere legati ereditari se non da parenti stretti: in una società come quella romana in cui i legami sociali contavano più di quelli di sangue, e in cui adozioni e legati costituivano vincoli fortissimi, tali disposizioni causarono un malcontento così forte da dover essere attenuate con la Lex Papia Poppaea del 9 ev, che ridusse gli svantaggi di scapoli e coppie senza figli rafforzando i vantaggi dei genitori.

Tacito ne registra un effetto scarso sulla demografia, pesante sulle relazioni sociali:

«Relatum dein de moderanda Papia Poppaea, quam senior Augustus post Iulias rogationes incitandis caelibum poenis et augendo aerario sanxerat. Nec ideo coniugia et educationes liberum frequentabantur praevalida orbitate: ceterum multitudo periclitantium gliscebat, cum omnis domus delatorum interpretationibus subverteretur, utque antehac flagitiis ita tunc legibus laborabatur. [Si discusse, poi, sul mitigare la legge Papia Poppea, che Augusto, in età avanzata, aveva promulgato dopo le leggi Giulie per inasprire le sanzioni ai celibi ed accrescere l'erario. Né per questo si moltiplicavano i matrimoni e le nascite: preferito il non aver famiglia. Del resto cresceva il numero delle persone minacciate dalle sanzioni, poiché ogni casa era investita dalle accuse dei delatori, di modo che, se prima era il malcostume a costituire un problema, adesso lo erano le leggi.]» (Tac. Ann. III, 25).

Da notare come l’inciso augendo aerario segnali che il fisco incamerava i lasciti caduca, ovvero riservati ai celibi.

Tuttavia esaminando i dati dei censimenti (4.063.000 nel 28 aev, 4.233.000 nell’8 aev, 4.937.000 nel 14 ev) si nota un tasso di crescita demografica intorno al 2% nel primo ventennio e più alto, circa l’8%, negli anni successivi: forse gli sforzi di Augusto hanno avuto un certo successo, almeno agli inizi.

Queste leggi erano anche rivolte a liberte con quattro figli, che uscivano dalla tutela di un patronus.

Una scelta che sembra contrastare con il divieto ai senatori e loro discendenti di sposare liberte o attrici; in realtà il problema di Augusto era quello di rafforzare la demografia delle classi dirigenti, e di mantenere una sorta di purezza della razza: ricorda Svetonio:

«Magni praeterea existimans sincerum atque ab omni colluvione peregrini ac servilis sanguinis incorruptum servare populum, et civitates Romanas parcissime dedit et manumittendi modum terminavit. [Inoltre, considerando importante conservare il popolo romano puro e non corrotto da ogni mescolanza con sangue straniero e servile, sia concesse molto parcamente la cittadinanza romana e pose regole precise all'affrancamento.] » (Suet. Aug. 40,3).

Un problema stranamente simile a quello delle nostre società, che vorrebbero vedere aumentare la demografia dei propri cittadini ma si ritrovano a colmare i propri ranghi con la maggior natalità di migranti e dei loro figli. Di conseguenza invecchiando (e quindi diventando più conservatore e diffidente, come le nostre società) Augusto cercò di limitare la concessione della cittadinanza a individui e città, con una politica opposta a quella di Cesare, e ridusse gli spazi per la manomissione, pur senza abbandonare pratiche che avevano creato la forza di Roma: ricercava il difficile equilibrio tra numero di nuovi cittadini ed integrazione.

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