FULVIA GIACOSA – GABRIELLA MONGARDI
“Sono ormai cinquant’anni”
Diciamoci la verità, noi che siamo nati nel 1950 o giù di lì. Oggi ormai ultrasessantenni abbiamo inevitabilmente un ricordo mitizzato dei nostri 18 anni: di ciò ci accusano e noi, buoni buoni, facciamo autocritica (ci ha abituato il Sessantotto) e per poco ci caschiamo, diciamo che sicuramente deve essere così, che in fondo, all’epoca, abbiamo detto e fatto solo c…, che hanno ragione quelli che liquidano il ’68 nei modi più svariati: i “buoni” ipotizzando una certa dose di buonafede e un ritardatario utopismo (romantico); i “meno buoni” o gli arrabbiati incolpando i sessantottini d’ogni nefandezza successiva, in primis il terrorismo dei Settanta. Qualcuno poi non se n’è neppure accorto. Molti scrittori hanno cercato di tracciare sul ’68 una sonora cancellatura, altri di spiegarlo, altri ancora – i leader carismatici – di farne una proprietà esclusiva. Eppure, tra memoria e rimozione, il ’68 ancora fa parlare di sé per la sua carica simbolica.
Sono esistiti un ’68 globale, uno locale ed uno privato.
Lasciamo il dibattito su quello globale agli storici perché di storia e non di mito si tratta. Diciamo soltanto che molti di loro concordano su un fatto, ossia che il presente, volente o nolente, è venuto al mondo in quegli anni: la globalizzazione del mercato, dei massmedia, dei consumi, dei costumi, della cultura. Persino la rivolta protestataria dei movimenti è un fatto globale, nata in una apparentemente casuale internazionalità che ha coinvolto in modo sincronico Europa occidentale e orientale, Usa, America Latina, Giappone. Dopo il ciclo del boom nel decennio precedente andava insinuandosi un senso di precarietà che si accompagnava alle proteste studentesche contro autoritarismo e burocratizzazione dell’università oltre alle rivendicazioni di una maggiore giustizia sociale e alla denuncia di storture politiche (si pensi alle marce contro la guerra del Vietnam). A guardare oggi quell’epoca, ci si rende conto di quanto la sensazione di precarietà d’allora sia diventata la cruda sigla di un tempo a cui manca il futuro (oltre ad aver elaborato una pericolosa amnesia del passato), che lascia ben poco spazio a sogni di cambiamento.
Per molti, gli studenti di allora erano viziati emotivi ribelli (si parlò di “rivolta edipica”), protetti dall’ombrello del benessere, provenienti (ed è in parte vero) dalla piccola e media borghesia sufficientemente colta e permissiva che li educava in modo critico (che mi sembra un punto a favore). Per alcuni giovani di allora lo scontro generazionale è stato forte, per altri più morbido. Sono tra i fortunati che hanno trovato comprensione, anzi devo ai miei (padre, madre e un nonno fuori dagli schemi) riconoscenza per avermi concesso più di quanto solitamente avveniva in piccole realtà di provincia; la contropartita per un’ampia libertà era il rispetto di regole che, proprio perché sancite tra le parti, erano ferree e inderogabili. Mia madre era insegnante, professione che ancora godeva di un certo prestigio ma che già mostrava i primi segni di declassamento; ciò mi rendeva più facile vedere la medaglia dalle due facce, al di qua ed al di là della cattedra. E a volte mi capitava di capirne dubbi e delusioni.
Del ’68 locale ho qualche ricordo: i piccoli gesti di ribellione a scuola, le discussioni sul destino proletario degli intellettuali di domani (oddio, ma siamo noi!); per alcuni miei compagni un impegno politico e la partecipazione alle lotte operaie nelle industrie della zona (io stavo un po’ a latere, oltre l’ultima fila, mi sembrava di capir poco di politica); per quasi tutti le rivendicazioni in famiglia anche solo per sostenere idee personali; i primi viaggi fai da te in Europa a scoprire che il mondo non si fermava dietro casa, né sulla solita spiaggia con genitori e fratelli. E ancora un artigianale cineforum, con la scoperta del cinema sovietico (ma “La corazzata Potëmkin” di Ejzenštejn è stata di difficile digestione!), di Chaplin, di Bergman, del Neorealismo italiano; e poi le “lezioni alternative” a programmi liceali che si fermavano alle soglie del Novecento: la nostra “rivoluzione culturale” (altro che monocolore sul “libretto rosso” di Mao) guardava a Brecht, agli americani tradotti da piemontesi come Fenoglio e Pavese, a Kerouac e la beat generation, e ancora a Calvino, alla poesia novecentesca nonché la saggistica, soprattutto gli “arancioni” Einaudi, che si compravano a rate mensili (e così se ne andava una bella fetta di paghetta!); in un percorso a ritroso, abbiamo ritrovato anche il passato prossimo (quello remoto lo si studiava a scuola), da Baudelaire ai maudit francesi, Pirandello, Svevo, Joyce e Proust (certo, non era fatica da poco, ma i tragici greci non erano stati da meno per tre anni di liceo). Altre letture verranno dopo e aiuteranno a completare il quadro delle posizioni (come la modernità distorcente annotata da Pasolini).
Scoprivamo che dopo il Romanticismo di Delacroix e l’occhio impressionista c’era stato, al di qua e al di là dell’oceano, un sacco di cose, non ultimi i nostri vicinissimi di casa, quel Pinot Gallizio che andava a vendere la sua “pittura industriale” a metri sulla piazza del mercato. A proposito, il ’68 è l’anno della morte di Marcel Duchamp, di cui andavamo scoprendo (un po’ sbacaliti) le provocazioni dei ready-made. Appena dopo, nel ’71, a Parigi Renzo Piano progetta il Beaubourg, “figlio della rivolta studentesca”, ha scritto. Nel ’69 la GAM di Torino aveva messo in piedi una mostra sul primo Novecento internazionale, “Le Muse Inquietanti”, che è stata una presa d’atto di vergognosa ignoranza personale: e per non dimenticarla (l’ignoranza, intendo), ho ancora il manifesto della mostra riproducente il quadro di De Chirico che le forniva il titolo.
Restava il tempo per i fumetti, per sentire musica, soprattutto inglese e americana (Beatles, Rolling Stones, Dylan, Baetz), andare al cinema (il 1968 si chiude con l’uscita in Italia del profetico “2001: Odissea nello spazio”) e a teatro (era venuto persino Dario Fo in provincia, con la piéce “La signora è da buttare”), alle feste di compleanno e ai veglioni studenteschi (c’era anche un po’ di festa goliardica nel ’68), agli incontri in parrocchia con un prete che girava con una vistosa sciarpa rossa al collo, in palestra, nelle colline di Langa per le merende sinoire con pane-salame-tuma e, in primavera, le fragole di vigna. Non mancavano le occasioni per sperimentare incontri furtivi … OMISSIS
Ora che siamo nella terza età, viene ancora da chiedersi quanto il ’68 e gli anni immediatamente precedenti hanno influito sulle nostre scelte e sul nostro quotidiano. Agli anni che si chiudono col ’68 (in effetti quell’anno segna la fine di una stagione e l’inizio di una linea discendente per molti versi tragica, nonostante uno degli slogan recitasse “Non è che l’inizio”) credo di dovere un fondo di fiducia verso il futuro, l’abitudine di non delegare ad altri responsabilità che sono nostre, l’attitudine critica verso quello stesso passato e verso il presente. Ma resta anche l’amara constatazione di un’occasione perduta.
Ogni tanto, quasi senza rendermene conto, canticchio ancora The times they are a-changin’, anche se non è certo quel cambiamento invocato allora che scuote la civiltà occidentale, sostituito da triviale tracotanza, violenza verbale e muscolare, razzismo e via dicendo, sintomi di rozza semplificazione del pensiero sulla realtà.
Ma non ci si può arrendere se, come allora, l’impossibile può diventare possibile lavorando su un sano esercizio del dubbio, nostro e delle generazioni future.
“Il mio ’68”
Avevo solo quindici anni quell’anno, e abitavo “alla periferia dell’impero”, in una sonnolenta cittadina di una sonnolenta provincia dell’Italia nord-occidentale, appena lambita dalle ondate della contestazione giovanile che saliva come una marea a sommergere istituzioni, costumi, tradizioni.
Più che partecipare attivamente al movimento sessantottesco, l’ho guardato da lontano e… ne ho goduto i frutti. E per “frutti” non intendo i cambiamenti “materiali” che hanno immediatamente investito la scuola, come l’abolizione dell’esame tra la V ginnasio e la I liceo, la riforma dell’esame di Maturità, l’abolizione delle limitazioni di accesso all’università, ma la nuova “aria” che si respirava a scuola, in famiglia, all’università. Il venir meno dell’autoritarismo un po’ sadico nei rapporti tra adolescenti e adulti, della pretesa di un’obbedienza cieca e assoluta, dell’ipse dixit, e un maggior rispetto per le opinioni, le esigenze, la voce dei giovani, e in particolare delle giovani.
Bisognava essere ragazze in quegli anni, per apprezzare pienamente la portata della “rivoluzione” sessantottina, che ha consegnato a noi donne una libertà di movimento, di decisione e di iniziativa prima ignota, condensata all’epoca negli slogan “L’utero è mio e lo gestisco io” e “Io sono mia”. L’altra metà del genere umano, quella con il cromosoma Y, che ha sempre goduto – e in molte parti del mondo ancora gode – di una posizione di assoluta superiorità sociale, fa molta fatica a capire il significato profondo di questa fondamentale eredità dal ’68, di fronte alla quale tutto il resto impallidisce.
Lo slogan “L’utero è mio e lo gestisco io” annunciava l’inizio di una nuova era, perlomeno nel mondo occidentale: quella del controllo della fertilità e quindi della maternità, reso possibile dalla pillola anticoncezionale, che sganciava gli esseri umani di sesso femminile dalla loro mera funzione biologica di “fattrici”, di strumenti per generare figli ai maschi.
“Io sono mia” era un modo sintetico e lapidario per affermare il diritto femminile all’auto-nomia e all’auto-determinazione, in tutti i campi: voleva dire avocare a sé il diritto di scegliere come e con chi vivere la propria vita sessuale e sentimentale, rifiutando la doppia morale corrente, per cui uno “sciupafemmine” era (è?) ammirato come un dongiovanni, una “sciupamaschi” era (è?) considerata una puttana; voleva dire rivendicare il diritto di studiare, di pensare, di avere ed esprimere opinioni proprie, di partecipare attivamente alla vita politica, di accedere a tutte le professioni – su un piano di assoluta parità con l’altro sesso. Ma soprattutto “io sono mia” voleva dire aver acquisito la sicurezza di chi non deve dimostrare niente a nessuno, unita a una nuova consapevolezza di sé; voleva dire non aver bisogno di un uomo accanto per sentirsi “qualcuno”, non far dipendere il proprio valore di persona dallo sguardo desiderante di un uomo, non aver bisogno di “sedurre” nessuno – e rifondare radicalmente il rapporto di coppia, i ruoli e la divisione dei compiti all’interno di esso e nei confronti degli eventuali figli.
Il cammino su questa strada è ancora lungo, anche all’interno di quelle società in cui è stato avviato, e il rischio di una “controriforma” maschilista è sempre incombente: ma il ’68 ci ha insegnato la forza dell’utopia, ci ha insegnato che ciascuno di noi, con il suo comportamento “virtuoso”, può nel suo piccolo contribuire al cambiamento della società, e per questo mi considero ancora, orgogliosamente, una sessantottina.
(g.m.)