I nani di Norea

SILVANO GREGOLI

      

Nani-Norea-1

Anni ’60, Vall’Ellero.

I Nani di Norea!
Ogni volta che ritorno col pensiero a quella mattina di primavera e ai fantastici momenti che me l’hanno impressa per sempre nella memoria, provo una spiacevole sensazione di incredulità. Ma sarà poi successo veramente?
Eppure la storia si sviluppa da un fascio di certezze iniziali.
La prima certezza riguarda il luogo: Norea, piccolo agglomerato di case quasi al fondo della Vall’Ellero. Immediatamente a monte di Norea si innalza lo zoccolo boscoso delle montagne locali: il Pian della Tura, la Pigna, la Gardiola e il Cars, un po’ più lontano. A Norea ci fermavamo poco. Norea era fatta per essere lasciata dietro di sé, con il suo gelido ponte sull’Ellero, l’immancabile segheria, le case modeste sul bordo di un gran prato e le incombenti falde delle montagne all’intorno che oscuravano parte del cielo. Non ricordo invece come fossi arrivato a Norea, con zaino e sci. Forse mi aveva portato Corrado, in sella alla sua Guzzi Super Alce che guidava sempre senza guanti, anche in pieno inverno. Altra certezza è che da Norea in su sarei rimasto solo e che, solo e in prima assoluta, avrei potuto sperimentare gli incanti offerti dalle pelli di foca: dispositivo magico di cui si raccontavano portenti.
Anche il tipo e la qualità dell’equipaggiamento non lasciano spazio al dubbio. Gli sci me li aveva imprestati Donatella, vagheggiata compagna di scuola, oggetto da parte mia di una devota ammirazione appena incrinata da inconfessati turbamenti. Le pelli di foca me le aveva invece imprestate Gigi, noto in città per via dello spaventevole trapano paterno.
Ricordo anche con certezza che, nonostante la pianura profumasse già tutta dei fiori dei peschi e dei ciliegi, la neve cominciava subito dopo Norea, all’inizio della rampa che molto più su avrebbe raggiunto Baracco. Ecco infatti le profonde tracce, ora ghiacciate, che avevano lasciato gli sciatori saliti al rifugio Mettolo Castellino il giorno prima. Sulla neve si potevano leggere gli elementi essenziali della gita e l’umore dei gitanti. All’inizio il gruppo era avanzato in fila indiana, poi qualcuno aveva affiancato l’uomo di testa per un centinaio di metri. Dovevano essere tutti allegri, l’aria doveva essere incantata: e infatti di scie parallele se ne vedono tre un po’ più in su, poi quattro. Si fa così quando si hanno gambe da vendere e si vuole chiacchierare in pace.

Nani Norea 2Non avevo mai montato delle pelli di foca ma l’operazione era andata subito piuttosto bene. L’anello del puntale, i cinghietti laterali e il cinghietto di coda avevano docilmente assunto la configurazione dovuta. Gli sci così apprestati li avevo calzati in un attimo. Se si tolgono i brevi ruzzoloni senza controllo giù per una ripa cespugliosa nella zona dei Passionisti, ero veramente alla mia prima esperienza sugli sci. E la cosa avveniva in salita.
Cominciano qui dieci minuti di ricordi sensoriali di una precisione chirurgica. La neve su cui avevo cominciato a muovermi era dura come ferro e nelle trasparenze più scure si intravedevano pietruzze e fili d’erba. Il fondo era tormentato e, nonostante le pelli, gli sci facevano un rumore di legno che sbatte. Ricordo anche il sospetto con cui li avevo appoggiati sulle rotaie ghiacciate. E poi la sensazione nuova e quasi ultraterrena del piede che non scivola all’indietro, della fiducia che cresce, dei primi passi sicuri, delle prime sportive sgambate. Avevo provato quella mattina tutta la levità che aveva sicuramente sperimentato l’apostolo Pietro la prima volta che gli era successo di camminare sull’acqua.
L’inizio del percorso era dritto e parecchio ripido, e ogni volta che avevo guardato all’indietro Norea mi era apparsa un po’ più distante. Forse ero avanzato di un chilometro. La strada non la conoscevo: «Devi solo seguire le nostre tracce – mi avevano detto – e arriverai al rifugio Castellino senza problemi». Non mi rendevo assolutamente conto del percorso che avrei dovuto compiere: la strada da Norea a Baracco, i ripidi pendii prima di arrivare al Pino, il famigerato ‘boschetto’, giungla innevata di ontani e piccoli faggi, l’impennata della Selletta, l’innalzamento progressivo e faticoso lungo il groppone della Tura, fino a raggiungere la Trucca, da cui, con una breve scivolata, sarei infine arrivato al rifugio.
Improvvisamente lo sbattere anormale di una delle pelli mi destò dall’estasi. Il cinghietto anteriore era tranciato di netto e lo sci sbandava leggermente. C’era da aspettarselo: preso a forbice tra il filo della lamina e il bordo tagliente del solco di ghiaccio, la fettuccia di tela non aveva retto. Era la prima volta che mi trovavo in una situazione del genere e mi dissi che la pelle avrebbe retto lo stesso. Procedendo con cautela, avevo appena fatto qualche altro passo che si tranciò il cinghietto anteriore dell’altra pelle. L’insieme teneva ancora: le punte erano ancora fermamente ancorate, i cinghietti di coda tiravano ancora a sufficienza. Avrò fatto altri venti metri? Cinquanta? Cento? Stavolta fu uno degli anelli di punta a cedere di schianto e la pelle di foca si sfilò all’indietro come la pelle di un serpente in muta. Con uno sforzo inaudito mi appoggiai sull’altro sci, ancora integro, il peso del corpo spasmodicamente affidato ai bastoncini. Ma la situazione era insostenibile e così, pochi secondi dopo, rovinai a terra malamente e disordinatamente.
Avevo appena percorso un chilometro e la situazione era delle più disperate. I cinghietti anteriori erano recisi di netto, un anello di punta tranciato pure lui, l’altro tutto sbrindellato e ridotto a un filo. I tiranti di coda non andavano meglio: i bordi ghiacciati delle rotaie li avevano rosi fino al cuore. Se per miracolo avessi potuto continuare per altri tre-quattrocento metri, tutti i legami predisposti a tenere le pelli di foca aderenti agli sci sarebbero andati in pezzi. La situazione era semplice: la gita era finita, non mi rimaneva che scendere. E così feci, demoralizzato e furente all’idea di dover tornare a casa. Chissà come.

A Norea incrociai qualcuno – qui il ricordo si fa vago: uomo, donna, vecchio, giovane? Ricordo però un suo gesto nella direzione di un gruppo di case e la parola ‘calzolai’. Cupo e infuriato mi avviai in quella direzione sbattendo senza precauzione sci e bastoncini contro i muri del viottolo.
Le strade erano deserte, il paese senza vita. Né cani, né mucche, né odore di letame: solo cumuli di neve pietrificata dal gelo contro le facciate esposte a settentrione delle costruzioni in pietra. La possibilità che ci fosse un calzolaio in quel luogo abbandonato mi sembrava talmente remota che avevo ormai deciso di lasciare gli sci da qualche parte e scendermene a Roccaforte a piedi, sperando laggiù di trovare un passaggio in auto. Arrivato a ridosso di una delle ultime case mi parve di vedere una lucina provenire dal seminterrato e un soffio caldo esalare dal vano delle scale che sprofondavano sotto la terra gelata.
«C’è qualcuno?» gridai verso l’oscurità sbarrata da una porta al di là della quale mi era parso di percepire indizi di vita. «A-i é-lo chéic-un? Oooh?»

Nani Norea 3Il maniglione cominciò a muoversi. La porta, gonfia dall’umidità, si aprì infine di scatto e al fondo della scala apparve un nano. Il nano risalì i gradini di pietra rivestiti di ghiaccio sporco, uscì all’aperto, mi guardò – dal basso in alto, ovviamente – e mi rivolse una serie di parole incomprensibili. Non potevano esserci dubbi: era lui il calzolaio, avvolto com’era in un grembiulone di cuoio scuro, tutto sfregiato di buchi e di tagli.
Gli mostrai le pelli di foca e i brandelli dei cinghietti che penzolavano miseramente. Il nano, che aveva delle mani scure e spesse come il cuoio del suo grembiule, cominciò subito ad agitarsi e a sorridere in un susseguirsi di movimenti bruschi ma gentili. Si avviò poi verso il basso e scomparve nel buio dell’androne. Giunto sull’uscio si voltò e mi disse qualcosa che ancora ricordo e che mi sembrò come: «Vinu avècchi: parti peri-peri suít!». Non avevo capito nulla, ma tutto il suo corpo mi diceva di seguirlo, che ci avrebbe pensato lui, che la cosa non presentava difficoltà, che gli strappi e le lacerazioni sarebbero stati riparati.

La porta dava su uno stanzone poco illuminato da cui giungeva un pacato tepore. Due altri nani, tozzi e svelti come il primo, si erano fatti sotto e parlottavano passandosi di mano in mano le pelli di foca che guardavano con ilarità. Uno dei nani, con una fronte particolarmente spessa e prominente, mi disse: «Roumiage dur, eh! Pàf con lou cul. Pàf, pàf, pàf!», poi scoppiò a ridere battendosi forte la testa con le mani.
Ora i miei occhi si erano adattati all’oscurità e ciò che vedevo m’infondeva un senso di pace e fiducia. Lo stanzone era Nani Norea 5un vera calzoleria, fornita di quattro minuscoli posti di lavoro: il quarto era per la nanetta che in quel momento stava armeggiando intorno alla stufa con un pentolino. La scena dei tre nani a consulto attorno al relitto delle mie pelli ne rivelava i diversi temperamenti. Uno dei tre era ridanciano e non cessava di lanciarmi occhiate canzonatorie. Un altro era decisamente più piccolo dei suoi colleghi: forse per ciò emanava una rassegnata cupezza. Il terzo – quello che mi aveva accolto fuori di casa – sembrava un po’ il capo. Non lesinava saltelli, guizzi e tutta una mimica conviviale il cui fine era forse di infondere fiducia ai rari clienti. Mentre il nano giocondo frugava in un cesto, il nano cupo aveva cominciato a scucire tutti i vecchi cinghietti delle pelli scuotendo il testone in segno di disapprovazione. A un certo punto, sprizzando malizia da tutti i pori, il nano ilare mi si accostò con in mano una pezza di morbido cuoio e me la sventagliò sotto il naso Nani Norea 4ridendo come un matto: «Pùm con lou cul! Ha, ha, ha! Roumiage dur: pàf pàf pàf!» disse; e rideva, e rideva. «Bel e fin, eh, lou roumiage con lou cul!» Poi, schiappettando e saltellando si diresse verso il suo deschetto con il brandello di cuoio in mano.
Il lavoro dei nani ferveva in un pacato silenzio, rotto solo da borbottii, sbuffi e risatelle. Il nano cupo aveva denudato le pelli di foca e le mostrava al capo che le esaminava con attenzione. Trafficando con le forbici, il nano giocondo aveva ottenuto dalla pezza di cuoio un mazzetto di fettucce che, senza dubbio, erano destinate a sostituire gli antichi cinghietti di tela. Guardandomi, si strofinava il mazzetto sul naso e canticchiava: «Pierìn pelìn, chemin picìn, dur con lou cul: paaaf!». Mi fissava, e rideva. Durante una breve pausa, intimata senza troppe formalità dalla nanetta, avevamo tutti succhiato, molto rumorosamente, un tazzone di estratto di cicoria, nero come l’inferno.

Chissà se la nanetta era bella. Chissà se i canoni estetici naneschi erano uguali ai nostri. Chissà quanti anni aveva. Nani Norea 6Avrebbe potuto averne sessanta; o forse venti. Chissà se il nano giocondo era suo fratello, o suo marito, o suo padre, o suo figlio. Il fatto importante era che la nanetta, dopo aver discusso con il nano capo aveva preso in mano la situazione e aveva cominciato a passare in rivista le pelli di foca e le fettucce di cuoio. Emise infine alcuni suoni acuti, simili allo stridio di un uccello in collera, e il nano giocondo accorse, visibilmente turbato. «Pinìn veri, prestu lou coràm balicàn!» No, non andava bene! Almeno la metà delle striscioline andava rifatta. E il nano giocondo filò, tutto contrito, verso il suo sgabello a raschiare le strisce visibilmente troppo spesse. Pensai anche di avvicinarmi e di dirgli tra i denti: «Vitàsa dura eh! Pùm con lou cul: pàf, pàf, pàf!», ma lasciai perdere perché il nano cupo mi si era avvicinato per osservare da vicino i rombi trapuntati della mia giacca a vento verdastra.
La fase preparatoria stava per concludersi; il nano giocondo aveva riparato il malefatto e aveva consegnato l’opera alla nanetta che già si stava avviando al suo posto di lavoro. Era lei la nana cucitrice. Altri tagliavano, scucivano, raschiavano, tiravano, bucavano, martellavano, incollavano, posavano occhielli. Ma la cucitrice era la nanetta e il nano capo controllava da lontano, serenamente, sicuro della qualità del risultato.

Nani Norea 7Le pelli, rimesse a nuovo, mi vennero infine consegnate dall’intera conventicola di nani sorridenti. Seguirono alcuni momenti imbarazzanti quando chiesi quanto faceva. Speravo che facesse poco perché in tasca avevo solo qualche spicciolo. La domanda fu accolta da risate, sorrisi, e saltelli. No, non faceva niente, mi dicevano con gli occhi, con le mani, con tutti i movimenti del corpo, e il nano giocondo, ridiventato tale, si picchiava il «cul» con ilarità.
«Roumiage dur dins lou bosc, Sarvan; prend-te gardo del pàf sur lou cul!» mi gridò ancora sulla soglia.
Cominciavo a capirlo il suo dialetto nanesco, ma non mi serviva più, ormai. Ormai ero approdato in un mondo di luce calda e le montagne all’intorno mi chiamavano in una loro lingua imperiosa e precisa.

Il montaggio delle pelli di foca era stato una magia, e magici erano stati i primi passi, rapidi e silenziosi. Avevo percorso la distanza precedente in pochi minuti. Norea si era allontanata a vista d’occhio. Le curve di livello erano sfilate sotto i miei sci come in un sogno. Ma come, ero già a Baracco? Aspiravo l’aria incantata del mattino con la bocca spalancata e le gambe spingevano gli sci verso l’alto come stantuffi.
Sarà stato un sortilegio? Saranno state le pelli delle sette leghe? Come mai i cinghietti dei nani avevano retto? Ma allora il cuoio è più robusto della tela! O forse era la nanetta che ne aveva sapientemente rinforzato i bordi? La forza irresistibile che mi spingeva verso l’alto, sarà stato l’estratto di cicoria? Era una maga la nanetta? Ma da dove erano saltati fuori tutti quei nani? Non era la prima volta che passavo per Norea, ma non li avevo mai visti. Saranno stati loro a dare alla neve una consistenza gioiosa, alle mie gambe una leggerezza indicibile, all’aria un profumo di giovinezza? Stavo vivendo un miracolo?
O forse veniva tutto da quello là: da quel sole tondo, giallo e felice, sbucato da dietro il Monte Moro, che aveva trasformato il ghiaccio tagliente in morbido gelato alla vaniglia, buono per le pelli, buono per gli sci, buono per le gambe e buono per l’anima?

P.S.
Nel 2010, dopo 50 anni di assenza, sono ritornato a Norea: vicino alla fontana c’era un nano.
Sì: erano tre fratelli e una sorella, un tempo. Tutti calzolai. Vivevano lì – e indica col dito una vecchia casa, non lontana.
Era rimasto solo, adesso…
Pochi mesi fa è morto anche l’ultimo dei nani.
La modesta saga dei Nani di Norea sta per entrare nell’oblio.
La breve storia scritta qua sopra (e affidata al WWW) è probabilmente tutto ciò che resterà di loro.

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La versione originale di questo racconto è apparsa nella rivista Alpidoc, n° 45, del marzo 2003, pp. 52-57.

Due precedenti versioni del racconto sono comparse in: Silvano Gregoli, E laggiù, Mondovì, Edizioni Il Belvedere, Mondovì 1990 e id., Alpi Liguri primo amore, CDA & Vivalda editore, Torino 2004

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