MARIA GRAZIA ORLANDINI
Procedevo con cautela nelle notti senza la luna, abituandomi a poco a poco al buio che gravava sull’orto. Avrei rinunciato volentieri a quel rito serale, ma l’orgoglio di essere considerata la bambina senza paura era più forte.
Se non c’era papà, toccava a me chiudere per la notte il cancelletto di legno, invero piuttosto corroso e in male arnese, che divideva l’orto dal prato che si perdeva giù nella valle. Sotto, duecento metri più in basso, correva la strada che finiva nei campi e nelle vigne. Di là chiunque avrebbe potuto salire e acquattarsi nel buio…
Nel breve tragitto mi sovvenivano tutte le storie che avevo sentito sussurrare nelle veglie passate nella stalla di Maria ‘d C… quando nelle sere autunnali, con la bruma che scendeva umida e fredda ad abbracciare il Borgo, i vicini si radunavano sotto le volte arcuate di mattoni rosso scarlatto a raccontarsi, nel caldo rassicurante della penombra, le storie più incredibili. In un canto, le donne facevano il burro con la zangola mentre gli uomini tutti vicini, con le mani sulle ginocchia, parlavano appena rischiarati da una lampadina fioca che pendeva nuda dal soffitto.
Quel chiarore dipingeva lunghe ombre inquietanti sulle pareti scrostate che il dondolare delle donne rendeva vive.
Non c’erano giovani nella stalla, solo vecchi rugosi, donne infagottate con il fazzoletto nero in testa e bambini.
Nell’ampio antro semibuio, dove scorrazzavano i conigli e le mucche scacciavano con la coda le mosche noiose, mi sentivo abbracciare da un caldo buono, un tepore protettivo che tosto si trasformava in incubi agghiaccianti nel sentire i racconti dei vecchi.
Quelle storie…. Mi frullavano tutte in testa nel camminare, al poco chiarore lunare, sul breve tratto del cortile che mi divideva dal cancelletto di legno.
Di giorno scorrazzavo per quel pendio erboso, immemore; sostavo nel mio luogo magico, un albero di mele intorno al quale l’erba alta e pestata mi accoglieva nascondendomi alla vista di chicchessia; là restavo a fantasticare con la mia gattina pezzata che docilmente faceva le fusa. Di notte, invece, le lunghe ombre che la luna disegnava sul terreno in quel tratto profondo, erano solo terribili fantasmi in agguato.
Alla fine cedevo alla paura e acceleravo il passo con il cuore in gola che batteva sordo. Sprangavo quel cancelletto fragile, ben conscia della sua piccola altezza e della facilità con cui chiunque avrebbe potuto superarlo.
Di corsa riattraversavo l’orto silenzioso e richiudevo la porta che dava sul cortile con una grossa spranga legnosa, che difficilmente avrebbe sbarrato il passaggio a qualsiasi malintenzionato.
Le Masche, le terribili megere di cui i vecchi parlavano sottovoce, con paura mista a reverenza, erano il mio terrore. La cascina di Gafeu, vicina alla fontana dei Giajet[1], sprofondata dopo la maledizione di una Masca nella calanca dell’Oteria [2] con tutto il pollaio mentre i cani di tutta la Valada[3] ululavano di terrore, era sempre presente nella mia mente, come il racconto di come il gallo e le galline abbiano continuato a cantare per anni, in fondo al burrone, a monito dei paesani …
Le terribili megere erano certamente venute anche da noi una sera, io lo sapevo, non molto tempo prima: le galline si erano messe a starnazzare come impazzite e i cani dei dintorni ad abbaiare furiosamente. Le vecchie prozie che abitavano al piano terra, avvolte in scialli neri e sedute vicino al fuoco della vecchia stufa quasi ogni sera, mi avevano abbracciato con un misto di protezione e di timore, mi avevano imposto di inginocchiarmi con loro sul pavimento di mattoni, coperto di uno strato di cenere impastato con l’unto della cucina, per recitare il rosario e invocare la protezione divina.
Nonostante le mie insistenze, le prozie non mi avevano voluto spiegare chi e come fossero queste terribili Masche. Avevo intuito che esse fossero talmente terribili che solo il nominarle poteva portare nefaste conseguenze.
Anche il pensarle? Non avevo certezze.
Man mano che ritornando sui miei passi guadagnavo l’uscio di casa, rallentavo il passo e, nel chiudere la porta di ferro che dava sul cortile, tornavo a sentirmi tranquilla. Risalivo le scale e, nel comunicare a Mamma che la casa era al sicuro per la notte, provavo una sottile soddisfazione: sapevo che anche a mamma non piaceva il buio dell’orto nella sera, specie quando papà non era in casa.
Io invece, era lampante a tutti, non avevo paura.
***
Maria Grazia Orlandini, già dirigente scolastica per quasi trent’anni a Torino e nel Monregalese, rappresentante dell’Italia in un Programma educativo Europeo e coordinatrice europea di progetti di ricerca dal 1993 al 2004, s’interessa di storia locale, di arte e toponomastica e si diletta a scrivere racconti e romanzi.
Un racconto, Il ritorno, ha vinto nel 2015 il I° premio nel concorso letterario “Gli Spigolatori”. Il giallo Buttata là come uno straccio ha ricevuto il II° premio per un romanzo inedito, nella Prima Edizione del Concorso Nazionale di Letteratura La quercia del Myr nel 2017. Nel 2018 hanno visto la luce: Al tempo della guerra del sale. Una zampa di capra ferrata e Il segreto della Madonna nera, entrambi romanzi storici ambientati nel Monregalese.