Prefazione di Giuliana Bagnasco alla raccolta “La tela di Penelope” di Gabriella Mongardi, edito nel 1997 da Boetti & C. editori.
«Scrivere poesia è un modo di guardare ciò che avviene all’interno di sé, senza filtri o coperture. La parola poetica nasce da un ascolto interiore. Il coraggio dell’ascolto e dello sguardo lucido che scruta ed indaga, il carattere autoriflessivo della scrittura poetica pare essere vocazione femminile.
La Cvetaeva sostiene: “Io non penso, io ascolto. Poi cerco una incarnazione esatta nella parola”.
La poesia di Gabriella Mongardi si direbbe sintonizzata sulla lunghezza d’onda dello sguardo interiorizzato, capace di lasciar vibrare ciò che nella memoria è custodito.
Voci appannate dal tempo riprendono il loro timbro in un’atmosfera evocativa, il Silenzio assume una densità vocale poiché custodisce l’impronta della voce (“voce roca di reticenze / voce sommessa / e sfumata / Voce perduta”).
Le emozioni passano sul registro delle presenze naturali, un paesaggio ricostruisce un luogo dell’anima o comunica il senso metafisico del mondo. In particolare è l’inverno a dilatare il ventaglio delle possibilità metaforiche: un giorno che tramonta presto si cristallizza in una immedicabile solitudine, un inverno di pietra e le montagne maternamente protese sulle valli brumose sono invocate a protezione dagli impudichi assalti dell’estate.
Gabriella Mongardi, attratta dalla varietà dei fenomeni che percorrono l’universo come una brezza inquieta, assimila la vitalità e il desiderio di fuga ad aspetti della vita animale, incarnazioni inconsapevoli dei moti della sua anima.
Possono essere i gruccioni in attesa del vento, trepidanti per l’imminente ripresa del volo, ospiti ingrati che dopo aver sostato nella terra del cuore ne assorbono i colori e le ventate di giovinezza, oppure i filamenti pazienti di un ragno che ricama geometrie di cristallo e pare materializzare i sentimenti sospesi in una improbabile epifania.
La freschezza delle immagini si nutre di una luce che emana il suo raggio incidendo di una differente intensità gli sguardi incrociati nel tempo.
L’accordo sensitivo tra l’io e la natura, una sorta di alleanza con la vita che ripete ciclicamente lo stesso gioco è scandito dalle onde che si infrangono incalzate dal vento in una superficie schiumosa che dissolvendosi allude alla friabilità dei nostri giorni.
Avanzando nella foresta dei segni, là dove si quieta l’ascolto e l’immaginazione riprende vigore, il verso disegna un pulviscolo di stelle sui vetri, gli occhi si aprono in un buio lanoso mentre si accende il desiderio di toccare il “respiro della luna”.
Le rocce sospese nel vuoto custodiscono un fiotto che sgorga nella nebbia in un presente eterno, chi osserva l’implacabile immobilità di uno spettacolo naturale avverte un senso pungente di incompiutezza, l’urgenza di un incanto che si vorrebbe altrettanto duraturo, ma la delusione subentra all’audacia del desiderio, il verso abbandona l’orizzontalità dello sguardo per avventurarsi nella profondità del tempo.
Nell’ansia di svelare e di nascondere, la voce di Gabriella Mongardi affida alla parola della poesia il palpito della vicinanza della figura amata o quello siderale del distacco.
La percezione della perdita, dell’inesorabile sfaldarsi delle passioni, del vuoto che talvolta è per l’anima unico alimento, si traduce in una supplica senza risposta, ma non è incline alla rassegnata accettazione di una privazione.
Il sogno o l’attesa intessuta di speranza nel canto poetico trovano balsamo al desiderio amoroso.
La lontananza disincarna l’oggetto d’amore senza desolazione di giorni perduti, la fragranza di un momento mantenuto intatto nel tempo può essere assaporata in tempi malati.
Un nome, un gesto possono esplodere nel cuore con suono argentino, trasfigurandone la mestizia, ma unico dono di forza e di saggezza è l’affetto rassicurante.
Una giovinezza maestosa non provoca il rimpianto di stagioni inaridite, i congedi avvengono a ciglio asciutto perché solo al figlio del desiderio spettano il riso del Tempo e dell’Oblio.
I versi di Gabriella Mongardi comunicano il senso dell’autenticità del sentire che pare essere requisito della poesia femminile. “Scrivere poesia è per le donne trovare un luogo depositario dell’autentico” afferma Marianne Moore.
Questo verso si immerge nella realtà e le dà voce in una pacata, serena accettazione dell’esistenza. La poesia agisce in uno spazio dove tutto è allo stesso modo assente e compresente, dove è continua l’assimilazione del passato al presente, dove i versi si intridono di patimento, di tenerezza, di vitalità, intrecciando questa “Tela di Penelope”, frutto di una passione forte per la vita.»
Marta Del Malandrino legge alcune delle poesie di “La Tela di Penelope”.
Le foto sono di Bruna Bonino.
Verso la riva lentissime corrono
le onde. Un’onda si forma lontano,
s’ingrossa, si gonfia compatta,
sempre più s’avvicina per dissolversi
in inesorabile spuma ai miei piedi.
Un’altra la segue, incalzata dal vento,
ripete l’identico gioco, si alza,
si rompe, e subito
un’altra s’accoda
poi un’altra, un’altra, una ancora…
Come i miei giorni
di spuma…
Memoria
Impronte sulla neve
non durano
a primavera -
segni impercettibili
di un passaggio,
tracce troppo
labili
di presenza -
esili, troppo
esili marche
d’amore
Inverno di pietra
Montagne che abbracciate materne
un ventaglio di valli brumose,
inverno di pietra, limite posto
a protezione dell’autunno:
distogliete i miei sguardi
dall’aperta, lontana pianura
che un vento solca sconfinato,
siatemi nicchia
per cancellare l’estate.
Gruccioni
Grumi di colore
sui fili del telefono
in attesa del vento
- gli stessi dell’anno
passato, gli stessi
dell’anno a venire -
voli ansiosi di vita,
in attesa del vento.
Sostano nella mia terra,
vibrano nel mio cielo:
ogni anno
si portano via
i miei colori
e i miei anni.