GABRIELLA MONGARDI
Di Amos Oz, lo scrittore israeliano morto il 28 dicembre 2018 a 79 anni, ho letto un solo libro, La scatola nera (1987), due anni fa, e ne sono rimasta folgorata – cosa che raramente mi succede con un romanzo: folgorata dall’originalità della struttura, dalla potenza della scrittura, dall’intensità delle passioni in gioco.
Anche questo romanzo è una storia di amore e di tenebra (come si intitola il romanzo autobiografico del 2002), una storia che dimostra quanta crudeltà, quante tenebre abitino l’amore, quanto più l’amore è passione incandescente e assoluta, inestricabile groviglio di contraddizioni – ma a differenza del successivo, scritto quindici anni dopo, questo in senso stretto non è un “romanzo”, ossia un testo in cui un narratore, in prima o in terza persona, riferisce gli eventi vissuti in un certo tempo e luogo da uno o più personaggi. Si tratta di una raccolta di lettere, intervallate di quando in quando da scritti non epistolari: appunti, estratti di articoli di giornale, relazioni di periti.
Il tempo e il luogo sono indicati dalla datazione delle lettere: la prima è scritta a Gerusalemme il 5-2-1976, l’ultima il 28-10-1976, ma alcune missive provengono da altre località di Israele o dall’estero (Chicago, Berlino, Londra). Non mancano sontuose descrizioni paesaggistiche nelle lettere, come quella del temporale che si scatena su Chicago al tramonto: ma l’unica dolcezza è nel paesaggio di Gerusalemme, con «le vette dei monti lambite dai fiotti del tramonto», quando «l’ultima luce comincia a dissolvere i vicoli di pietre, spogliandoli della loro natura solida» – la città che l’autore più amava.
La voce narrante invece, grazie alla dimensione epistolare, scompare totalmente dalla scena, mimetizzandosi dietro le voci dei personaggi che si scrivono: quelle dei due protagonisti, Alec e Ilana, una coppia che ha alle spalle un matrimonio malamente naufragato sette anni prima, e quelle dei comprimari – il figlio, gli avvocati, il secondo marito e la sorella di Ilana, che esistono solo in quanto mittenti e destinatari di lettere o telegrammi. Così, in assenza del narratore, tocca al lettore ricucire il filo della storia, riordinarne i vari pezzi, dare senso alle registrazioni della “scatola nera”.
Oz è bravissimo – e la traduttrice italiana Elena Löwenthal altrettanto – nel far “parlare” a ogni personaggio una lingua diversa, corrispondente alla sua personalità e mentalità: la lingua alta, appassionata, metaforica, profondamente originale dei due protagonisti si alterna con quella povera e sgrammaticata di Boaz, il figlio che ribellandosi al mondo adulto rifiuta anche di impararne la lingua, e con quella di Michael Sommo, il secondo marito, un fanatico ortodosso che infarcisce i suoi discorsi di citazioni della Torah. Gli avvocati, con i loro tecnicismi e il loro ironico cinismo, informano sui problemi del presente (i guai giudiziari di Boaz, i soldi, per lui e per la famiglia Sommo); la sorella di Ilana, “la saggia e normale Rahel” rappresenta la vita nel kibbutz, di cui Oz ha vissuto utopie e disillusioni…
Ne risulta una tavolozza quanto mai variegata, trionfo del plurilinguismo e della “filosofia” come riflessione sulla vita, quasi che la vita avesse valore non in sé, ma solo in quanto analizzata, anatomizzata, dissecata, sezionata.
La vita che viene studiata e ripercorsa non è soltanto quella privata dei personaggi, è anche quella della società di Israele, di cui i personaggi incarnano le varie anime e tendenze mettendone a nudo ambiguità e aporie: il “passatismo” di Ilana, il fanatismo religioso di Michael, il militarismo laico di Alec, l’affarismo e l’ironia dell’avvocato Zakheim, il collettivismo del kibbutz, il ribellismo scalcagnato di Boaz, un inconsapevole e postumo “figlio dei fiori”, l’unico capace di tenerezza in un paese spietato, dove tutti feriscono se stessi e gli altri cercando un’ “appartenenza” che dia senso alla loro vita. Ma la cercano, sbagliando, in un passato-che-non-passa, continuando a riaprire e a far sanguinare vecchie ferite, a livello sia individuale che collettivo: recuperare le registrazioni della “scatola nera” ha senso dopo un disastro aereo, per capirne le cause, ma non nei rapporti tra le persone o tra i popoli, in cui ha molto più senso saper “girare pagina”. Come ha scritto Claudio Magris in Infinito viaggiare, «essere liberi significa pure […] smettere di tenere una meticolosa contabilità delle proprie ragioni e dei propri torti», mentre qui i protagonisti non fanno altro, prigionieri come sono di una competitività, di un agonismo esasperati: tra uomo e donna, tra genitori e figli, tra Israele e il resto del mondo. Un agonismo che svanisce solo nell’agonia che segna la fine non solamente di uno dei personaggi, ma del romanzo stesso – come se, venuto a mancare un nodo, si disfacesse tutto il tessuto narrativo. Il romanzo epistolare di Amos Oz così resta aperto, enigmatico, come deve essere un grande libro. E chiede di essere riletto, perché «non ha ancora finito di dire quello che ha da dire».