SILVIA PIO
Berto Pio e Vigina Stella si sono sposati nel 1926; nel 1927 è nata Cecilia, nel 1929 Raimondo, nel 1931 Giuseppe, nel 1933 Teresa e nel 1935 Giovanna. Con lo stesso ritmo ci sono state altre sei gravidanze e altri cinque figli.
Le storie dei più grandi mi vengono raccontate dalle superstiti Teresa e Giovanna, che attualmente godono di buona salute e sono ancora molto attive. I ricordi sono frammentari, soprattutto quelli di quando erano piccole, quindi i racconti sono spesso incompleti e contraddittori; andare così indietro negli anni non è facile. La cronologia di quanto scrivo non è verificabile. È un puzzle che ha, come ho scritto altrove, molti pezzi mancanti e molti sbiaditi.
Cecilia ha iniziato presto ad occuparsi dei fratelli e delle sorelle più piccoli. È rimasta a casa ad aiutare la famiglia: in una foto ha in braccio Giovanna, minore di soli 8 anni. Aveva 21 anni quando è nato l’ultimo, e Renzo chiamava lei e non la mamma se aveva bisogno, usando il diminutivo Cia. Non ha mai avuto nulla di suo, dicono le sorelle, ma ‘parlava’ ad un ragazzo. La sua storia, purtroppo breve, è raccontata qui.
I genitori non avevano molto tempo: con tutti quei figli e il lavoro da fare era abbastanza comprensibile e diffuso che i bambini se la cavassero da soli. Avevano i compiti tipici di allora: andare al pascolo, raccogliere la frutta, spiumare le oche per ottenere il piumino. Mangiare la frutta, o avere una mela per la merenda a scuola, era una possibilità che i bambini del paese invidiavano ai campagnoli. Quando c’era abbondanza di prodotti del frutteto o dell’orto, la mamma li faceva portare alle maestre.
Erano liberi di girovagare per la campagna, giocare tra di loro e con i figli dei vicini; salivano sugli alberi e andavano a fare il bagno in una tampa, chiamata peschiera anche se di pesci non ce n’erano, che si trovava in direzione di Neviglie. A pensarci ora, i pericoli dovevano essere infiniti.
Venivano spesso a giocare in cascina le figlie del medico Molinari, che anni dopo avrebbero dichiarato che i giorni passati con i Pio erano stati i più felici della loro vita. Al medico dobbiamo le prime foto della famiglia; le sue figlie hanno un grembiulino chiaro e un bel fiocco in testa, le bambine Pio vestono di scuro e i bambini hanno un aspetto abbastanza selvatico.
I maschi aiutavano in campagna appena ne erano in grado e le femmine si occupavano dei lavori domestici; mamma e papà andavano nei campi e Cecilia e Teresa badavano alla casa e ai più piccoli; tutti i giorni facevano le tagliatelle e il minestrone (il pasto era costituito dal minestrone con dentro le tagliatelle, mentre queste ultime si mangiavano asciutte solo la domenica). Epico è il racconto di Giovanna, anche lei messa a cucinare appena possibile, con l’aiuto di uno sgabello per farla arrivare al tavolo: aveva fatto l’impasto per le tagliatelle e ci stava giocando come fosse una sciarpa; l’aveva portato davanti allo specchio della camera dei genitori e se l’era messo intorno al collo. In quel momento ha visto, riflesso nello specchio, il volto accigliato della mamma. Si era presa uno schiaffo e la raccomandazione di raschiare la pasta per togliere la parte esterna, con la mamma che si dispiaceva di doverla sprecare (anche se fu data ai pulcini).
A differenza di Raimondo, che era molto magro, Beppe era forte come un toro e questa sua qualità veniva usata sia a casa che, in seguito, nei lavori presso altre famiglie. Era scatenato e disubbidiente, e a scuola era un disastro; per tenerlo in riga veniva chiamata la zia maestra Genia, che alla fine se l’è messo nella sua quinta facendogli saltare la quarta. (Alcune informazioni sulla zia Genia si trovano in nota qui).
Quando Teresa aveva 10 mesi, e Beppe meno di tre anni, successe un fatto del quale lui si vergognò per tutta la vita. La mamma aveva seduto la piccola sotto il portico; Teresa aveva appoggiato la mano sul timone del carro; Beppe aveva un falcetto. «Togli quella mano, che te la taglio!», Teresa non la tolse e lui diede un colpo; per fortuna ferì soltanto un dito, che però rimase storto.
Durante i mesi scolastici, il gruppo di bambini percorreva insieme i due chilometri di strada che porta al paese: fango e ghiaccio in inverno, polvere in estate. Erano di solito in tre: Teresa ha fatto l’asilo mentre i due maschi facevano le elementari, Cecilia aveva già finito. Quando il tempo era davvero cattivo, si fermavano dalle zie Teresa e Genia la maestra, sorelle nubili del nonno, che abitavano nel concentrico. La casa aveva una camera matrimoniale, dove dormivano le due zie, più una cameretta dove aveva vissuto la nonna Rosina, detta Rusinin (nella quale sarà poi sistemata e morirà Cecilia). C’era anche un locale nel rustico chiamato la buschera (legnaia).
Hanno frequentato tutti la V elementare, classe che probabilmente segnava l’obbligo scolastico a quei tempi; Raimondo e Beppe hanno poi fatto l’avviamento (Beppe ha dato l’esame a Canelli dai Salesiani), preparati naturalmente dalla zia Genia. I genitori avrebbero voluto farli studiare, ma non era possibile: serviva l’aiuto di tutti per andare avanti e per i progetti che Berto avrebbe avuto per la famiglia (e che Carlo racconta nel suo libretto; si può trovare un estratto qui e qui).
A quel tempo c’era scarsa circolazione di denaro, le famiglie di campagna erano autosufficienti per il cibo: c’era bisogno di poco altro, per il quale venivano raggranellati spiccioli vendendo i prodotti al mercato settimanale. Di questo si incaricava la mamma, che portava a Mango polli e uova, e le sue tume, formaggi di pecora. Una volta all’anno si doveva pagare la taglia (tassa), per la quale si vendeva un vitello oppure si usavano i soldi dell’allevamento dei bachi da seta.
La guerra portò ancora più penuria e per tirare su qualche soldo tutta la famiglia filava la lana, compreso Raimondo, per conto dei vicini. Con quella stessa lana la mamma confezionava ai ferri calze e curpet (maglie da sotto), che ‘pungevano’ e facevano prudere la pelle. Raimondo, come dirò in seguito, aveva delle mani d’oro ed era capace in tutto; era anche molto curioso e una volta ha disfatto un ricamo del corredo di Giovanna per capire come funzionavano i punti.
Durante la Resistenza Mango fu teatro di feroci battaglie. Nel 1943 Raimondo aveva 14 anni. I suoi ricordi di quel tempo non me li ha mai confidati, ma ho sentito una volta che parlava di aver visto impiccare o linciare qualcuno. A Beppe spararono (i Partigiani? non si sa) mentre tornava da Mango, per fortuna senza ferirlo.
Giovanna ricorda che a 9 anni (quindi era il 1944) ha visto un ragazzo morto. Stava andando a scuola da sola perché gli altri avevano l’influenza e dopo il bivio di Neviglie ha incontrato un vicino di casa, di nome Ernesto, che si trovava sulla strada e urlava «Turna ‘ndré masnà (torna indietro, bambina)». Sulla strada c’era questo ragazzo coperto di sangue, con una mano sopra la fronte… Arrivata in paese Giovanna era sconvolta e non riusciva neppure a raccontare quello che aveva visto. Aveva lasciato le scarpe sporche sotto il portico di una signora, come facevano quando c’era fango, e si era messa le scarpe per la scuola, ma a scuola non c’era poi andata. Era passata dalle zie in paese e queste si erano accorte che era successo qualcosa di terribile e l’avevano tenuta un po’ da loro, dandole acqua e zucchero da bere.
Chi non voleva fare il militare si nascondeva in ‘tane’ e di notte andava a casa a prendere da mangiare. Una notte qualcuno venne ucciso nella vigna a due passi dalla sua famiglia. Gli adulti parlavano: «ne hanno trovati tre impiccati» senza pensare che i bambini ascoltavano e si spaventavano. Il papà Berto sembrava avere più tatto, e diceva di tacere di certe cose davanti ai piccoli.
Raimondo e Teresa furono i primi ad andare via di casa. Raimondo venne mandato da servitù, cioè a fare il servo a casa d’altri, per contribuire – credo – al magro bilancio famigliare durante la guerra. Tutti i pochi guadagni dei figli venivano incassati dal padre; Berto aveva un enorme portafoglio a fisarmonica, che però era sempre vuoto, a parte una mistà, immaginetta sacra, del Cuore di Gesù. Il figlio maggiore, quindi, ha iniziato a lavorare probabilmente dalla sorella della zia Teresina, moglie di zio Nino, fratello di Vigina, a Castagnole Lanze, quando i figli di questa erano stati mandati in guerra. Gli hanno voluto bene tutta la vita.
Anche Teresa aveva imparato il mestiere che pratica tutt’ora da una sarta (e un po’ a fare la maglierista dalla zia Teresa, sorella di Berto, che abitava, come già detto, in paese). Stava a Mango tutto il giorno e tornava a casa per la notte. In seguito era stata iscritta dal padre ad un corso organizzato dalla scuola di taglio di Alba, che si teneva nell’asilo del paese, con una spesa di 5000 lire, che poi col lavoro restituì al padre.
Nel giugno del 1950 si trasferì a Canelli per lavorare come domestica da Contratto, ricca famiglia che possiede la prestigiosa cantina. Qui aveva il permesso di uscire la domenica dalle ore 15 alle 19: ecco dove e quando ha conosciuto Luigi, che sarebbe diventato suo marito. A volte Raimondo andava a trovarla e sfogavano la nostalgia e i patimenti piangendo insieme. Camminavano guardando le vetrine di pasticceria, ma non avevano soldi per comprare nulla.
Quando a casa molti dei fratelli minori presero la scarlattina (forse era gennaio del ‘52), Teresa tornò per dare una mano. In una borsa con del vestiario aveva portato un quadernino dove scriveva i suoi pensieri più segreti. Quel diario sparì e forse venne letto da qualcuno…
Il primario di Alba, il professor Carusi, di origini napoletane, era venuto a vedere Cecilia che non stava bene. Aveva chiesto a Berto se non potesse mandare una delle figlie a servizio da lui, e Teresa venne assunta fino a quando, più tardi in quello stesso anno, si sposò e trasferì a Canelli. Dalla famiglia Carusi Teresa è sempre stata trattata bene, a differenza dei Contratto a Canelli. Quando Cecilia venne ricoverata all’ospedale di Alba i suoi padroni le dicevano spesso: «Va’ da tua sorella».
Dopo Teresa, pure Giovanna andò a servizio da loro per un periodo e anche lei ricorda la famiglia con piacere: le figlie la portavano a far la spesa e la tenevano come un’amica. In seguito andò a servizio a Canelli. Nel ’56 alla Fiera di Maggio ad Alba incontrò Vittorio, il cui fratello Oreste era amico di Raimondo e Beppe, e nel dicembre si sposarono, andando a vivere a Monforte, il paese di lui.
Beppe, come Raimondo, fu mandato da servitù. Teresa ricorda un episodio: Beppe si trovava molto distante da casa, a Sant’Antonio frazione a tre chilometri oltre Canelli (quindi a quasi 20 chilometri da Mango), e una domenica, o forse più di una, è tornato a casa a piedi con il fagotto del bucato. Dove lavorava non gli lavavano neppure la roba. «Ha patito tanto», è il commento della sorella. Mi sa che hanno patito tutti.
Torniamo al primogenito maschio, Raimondo, mio padre. Mi dicono, e anch’io posso confermare, che fosse capace di fare di tutto: U fava ‘el bec a n’usel (era capace di fare il becco ad un uccello). Aveva costruito un ventilatore per pulire la meliga, e sicuramente molto altro. Se la cavava anche a scrivere e parlare, e cantava bene, come molti altri in famiglia. Lo chiamavano Mundin, e col passare del tempo Rai, che suona più moderno.
Nel 1951 fece un corso da cameriere (forse a Beaulard o forse vi aveva lavorato), c’è una foto che lo ritrae con la giacca bianca insieme ad altri giovanotti; non ha praticato il mestiere perché non gli piaceva. I motivi che hanno spinto lui, o più probabilmente la famiglia, ad investire tempo e denaro per fargli fare quell’esperienza non li conosciamo. Il patriarca Berto era quello che prendeva le decisioni.
In seguito (dice Carlo nel suo racconto) ha fatto «domanda alla Ferrero come autista; fu assunto subito e tutte le mattine partiva da casa per farvi ritorno alla sera. L’anno seguente si è sposato e ha affittato un alloggio ad Alba». Era quindi il 1957. Mio padre non mi ha mai raccontato nulla, io non ho chiesto; mia madre mi ha detto che i primi anni non sono stati facili: lui faceva il camionista ed era sempre via. Deve avere poi cambiato datore di lavoro un paio di volte, per arrivare a fare l’istruttore di scuola guida fino a decidere di mettersi in proprio.
Raimondo era stato esentato dal servizio militare, in quanto primo figlio maschio di famiglia numerosa, ma Beppe dovette partire; in seguito quest’ultimo fu assunto alle cantine di Fontanafredda e poi alla Barbero di Canale, facendo una bella carriera. Aveva conosciuto un’amica compaesana della moglie di Raimondo al loro matrimonio e si erano sposati.
I grandi erano sistemati, con buoni lavori; si era nel boom economico. Dopo una permanenza a San Rocco Seno d’Elvio (della quale si parla in altri articoli) la famiglia con i figli più piccoli era tornata nella cascina d’origine, a Prassotere di Mango. Iniziava un periodo di certo più facile, almeno per alcuni di loro, insieme all’abitudine di ritrovarsi la domenica, con i nipoti che nascevano ad un buon ritmo. La famiglia si ingrandiva.
(Per altri articoli sulla famiglia Pio, cliccare sul tag Foto di famiglia)