Diario di una giovinezza, ventunesima puntata

I campi di concentramento

I campi di concentramento

FELICE BACCHIARELLO

Gorlitz: fame

Lasciato l’infausto campo di Stablack, con un altro viaggio in treno fummo portati in Alta Slesia, a Gorlitz, in un grande campo di concentramento per essere destinati al lavoro presso ditte richiedenti mano d’opera.
Non posso dire con parole efficaci, pertanto tralascio, ciò che si provi trovandosi per mesi, lunghissimi, maltrattati, sballottati, stracciati per vie straniere e nemiche, mendicanti ad ogni passante un pezzo di pane, senza mai potersi ribellare, senza mai poter sollevare il capo come si addice ad ogni persona che abbia il diritto di vivere al mondo, al momento che è, sempre a capo chino, frustato come il bue al giogo. Cose che non abbisognano di raccontare.

Dal campo di Gorlitz, altro grande concentramento di prigionieri, fui inviato, sempre con mio fratello, in un piccolo paese a distanza di 5 chilometri, presso la ditta Muller (di triste memoria) a lavorare agli scavi di terra per le fondamenta di una centrale elettrica che la stessa impresa voleva costruire.
È difficile credere a quale bestia feroce fummo consegnati. Un sergente anziano e alcolizzato, che maneggiava la rivoltella con la stessa facilità e frequenza con cui un bambino capriccioso si diverte con i suoi giocattoli, comandava il distaccamento cui ero stato consegnato. A furia di botte, di tanto in tanto ne mandava uno all’ospedale. Un disgraziato non fece più in tempo ad esservi trasportato perché spirò nel distaccamento stesso per le tante percosse ricevute. A ogni piè sospinto ci si trovava quel brutto ceffo alcolizzato con la rivoltella in mano, che ce la puntava allo stomaco.

Presso tale impresa il lavoro duro e continuo ci aveva sfiniti tutti, facendo in modo che da 200 il nostro numero di appartenenti a detto distaccamento in poco tempo si era ridotto a 70. In pieno inverno ci si alzava al mattino alle quattro per essere sul posto di lavoro, distante circa mezz’ora a piedi, alle sei, a lavorare per ben due ore al chiaro della luce elettrica, fino a sera alle 18. Dodici ore di lavoro con picco e pala, spesso al trasporto di binari in pieno inverno con lo stesso vitto del campo precedente, con la sola differenza che nella zuppa, anziché tutte rape, vi erano anche patate che la rendevano più densa. Per non farci perdere tempo a consumarla a mezzogiorno, ci veniva data la sera alle sette, al rientro al campo. Come era buona!
Talvolta, per qualche stupido capriccio di quel mostro, che si faceva allora appellare comandante, si arrivava al punto di vedersi distribuita la zuppa alle 10 o anche alle 11 di sera, pronto poi, appena in cuccia o appena addormentati, a farci alzare per l’appello in camerata o per la rivista a un qualunque oggetto in dotazione; bastava che in tutta la camerata ne avessero trovato uno sporco, che tutti ci si doveva vestire e andare con lo stesso oggetto, se pur pulitissimo, al rubinetto a lavarlo.
Così succedeva spesso. Bastava fosse stato visto uno con i piedi sporchi che tutto il campo, fossero state anche le due dopo mezzanotte, doveva andare a lavarsi i piedi. Ciò succedeva specialmente quando il comandante arrivava ubriaco fradicio. Non c’era altro da fare che sopportare e sperare in Dio.

Si era in pieno inverno, tra il freddo e la fame, ci si sentiva proprio il cuore mancare e le gambe tramortite e gonfie per la stanchezza. Ogni sera, a fine lavoro, c’era chi non era più in grado di tornare al campo da solo, e talvolta quale medicina veniva servita una buona dose di botte, con la scusa che si facesse appositamente per non lavorare.
Lavorai per quattro mesi in un canalone a spalare sabbia alla profondità di una decina di metri e con gran sforzo la sera, servendomi del passamano e soffermandomi più volte, risalivo la scala che portava fuori da quel luogo. Spesso mi veniva la tentazione di buttarmi a terra e restarvi pur di non dover ancora fare quel po’ di cammino che, al mio corpo sfinito, pareva tanto lungo. Si pensi che 24 ore senza una zuppa, seppur cattiva, nelle quali 12 di effettivo e faticoso lavoro ed altre sei senz’altro in piedi, bastavano a distruggere qualunque fibra. Ciò era dimostrato dal continuo diminuire del nostro numero.
Inviare un prigioniero all’infermeria o in ospedale significava niente più che dispensarlo dal lavoro; se poi era completamente esaurito e tubercolotico, ciò non importava: chi doveva morire, moriva e chi doveva campare, campava.

La stessa vita e il solito lavoro ogni giorno, reso sempre più pesante però causa il decrescere in noi delle energie. Le domeniche, se non di più, erano lavorative almeno fino a mezzogiorno, di solito impiegate a scaricare lunghi treni carichi di cemento e mattoni, i quali ultimi consumavano talmente la pelle delle mani da renderle sanguinanti. Nelle poche ore che si trascorrevano in baracca, mai si poteva vivere con il cuore in pace, per l’incubo di vedersi piombare addosso il comandante impetuoso come una furia, rivoltella alla mano, con il volto atteggiato più ad espressione di bestia feroce che di uomo.
Talvolta veniva distribuito un po’ di carbone per il riscaldamento delle baracche durante le ore di riposo, ma il più delle volte bisognava restare al freddo, dopo una giornata di estenuante lavoro.
Altro che arrivare a casa e trovare una buona mamma, tutta accogliente, con il più dolce e amabile sorriso sulle labbra, un ambiente caldo e una tavola pronta! Come si impara, in simili momenti ad apprezzare tante belle cose, le quali, quando si hanno, quasi quasi passano inosservate. Invece, all’arrivo, si era il più delle volte accolti da dileggi, insulti, punizioni, e chiusi in un recinto di filo spinato come tante bestie feroci, con tutto quel che veniva dopo… Tale era il conforto che si riceveva dopo dodici ore di lavoro! Come può essere ancora possibile in simili condizioni conservare nel cuore sentimenti dolci, umani, che elevino lo spirito, che non rendano simili alle bestie?

Era tale il freddo da dover lavorare con il pastrano indosso (pastrani logori e consunti distribuitici al campo) ed allora non era raro il caso di vedersi arrivare addosso il tedesco come un’aquila rapace e strapparcelo di dosso.
In Alta Slesia il freddo arrivava spesso, nella stagione più fredda, a 24-25 gradi sotto zero; ciò nonostante mai fummo dispensati dal lavoro od almeno ridotte le ore di lavoro. I capi semiubriachi di alcool si divertivano a vedere noi, esausti, tremare dal freddo e per tal motivo ci dileggiavano.
Spettacolo umiliante, al quale ci spingeva la fame all’eccesso, era dato nell’ora del Frustic (spuntino) dei Tedeschi e dei civili di varie nazionalità che lavoravano nello stesso cantiere. Mentre a noi nulla veniva distribuito all’ora di mezzogiorno, i civili, provvisti di qualche cibo, si recavano dalle 12 alle 12.30 in baracconi del cantiere per consumare i viveri al sacco, portati per l’occasione. Allora a guisa di cani, timorosi di essere cacciati a pedate dal padrone, ci si susseguiva uno dopo l’altro a bighellonare intorno alle baracche, soffermandosi dinnanzi alle finestre ed estasiandosi alla vista di qualche pane per divorarlo con gli occhi. Avveniva talvolta che un civile (Cecoslovacco, Alsaziano, Francese) mosso a compassione per tanta fame ci donasse un tozzo di pane, se gli era avanzato. Neanche tale cosa era tollerata dai satanici tedeschi, perciò non era raro che mentre si era innanzi ad una finestra, vacillanti per il freddo e per la fame, imploranti ed in contemplazione di un pezzo di pane di cui si pregustava il sapore, si sentisse arrivare una tremenda pedata da uno dei poliziotti, sempre alle nostre calcagna come segugi. Simile spettacolo si ripeteva ogni giorno. Nulla intimoriva: la fame era più potente di qualunque paura.
Molti talvolta parlano di fame, ma cosa essa sia e significhi non ne hanno la benché minima idea. Fame non consiste nel non aver potuto mangiare ciò che si avrebbe desiderato, o aver ridotto o addirittura saltato qualche pasto; tali sono solamente inezie, un nonnulla in confronto alla fame duratura, continua, senza mai una volta, per mesi e mesi, poter mangiare non dico a sazietà, ma non di più di quanto basta a stuzzicare lo stomaco, sempre tormentato dalla poca ingestione di cibo.
Era passibile di punizione, cioè di botte, chi fosse stato colto a frugare tra i bidoni per i rifiuti presso le cucine dei civili stranieri, non già perché stimata dai Tedeschi cosa non igienica, quanto loro poco importava, ma perché non ammettevano né tolleravano ce ci fosse possibile sfamarci più di quanto loro piacesse. Succedevano a volte baruffe attorno a simili bidoni per appropriarsi poi magari di una rapa buttata perché almeno per due terzi in putrefazione. In certi casi preferivo rimanere con la fame anziché ingerire certe vivande ributtanti, eppure vi era sempre chi non se ne asteneva. Si trovavano talvolta in simili recipienti patate lesse in putrefazione, emananti un puzzo nauseante al solo passaggio a parecchi metri, eppure vi era sempre chi arrischiava ogni pericolo per appropriarsene, lavarle e saziarsene. Si mangiavano persino le patate crude, credo che non vi sia più sgradevole sapore.

Quella sì che era fame! Eppure a sentire dire, i prigionieri russi e i civili ebrei sarebbero arrivati al punto di mangiare carne umana.
Non sto a dire, e poi non mi sarebbe possibile descrivere o ricordare tutti gli episodi, i rischi, gli stratagemmi e mille altre stravaganze provocate dalla fame. Si era a tal punto ridotti che più nulla si paventava allorquando si intravedeva la possibilità di ingerire alcunché di commestibile. Dinnanzi alla fame superlativa più nessuna ragione è valida, più nulla si intende, ci si rende incivili, degradati, bestiali.
In simili momenti viene quasi da domandarsi per quale scopo si sia venuti al mondo, per qual motivo Iddio abbia a permettere che milioni di uomini siano in tal modo torturati, a che pro? Perché circa 15 milioni di stranieri hanno dovuto trovare la morte sotto la tirannide di Hitler, morte preceduta dalle più lunghe ed inenarrabili agonie? Misteri anche questi imperscrutabili, ai quali è giocoforza sottostare perché ribellarcisi è inutile; meglio conviene rassegnarsi…
Continuare su tale tono non è il mio argomento, perché troppe sarebbero le riflessioni da farsi, e le deduzioni da trarre tante e tali che ci sarebbe da perdere il senno.

Nemmeno il giorno del Santo Natale fummo lasciati in pace da quella gente senza Dio e senza religione, per i quali Hitler e la sua volontà erano tutto.
Il regime fascista in nulla differiva dal bolscevismo, se non nel fatto che mentre questi è più volgare, più nuda e cruda realtà, quello invece era velato da una maschera di ipocrisia e mentre inneggiava al demonio voleva dire di fare offerte alla chiesa di Dio. Del resto, stessi gli istinti, identiche le idee ed uguale lo scopo: rinunciare alla propria volontà e libertà costituendosi obbligatoriamente parti integranti di quelle dello stato.
Come già detto, il giorno del Santo Natale ci toccò lavorare e scaricare un treno di cemento. La solita zuppa poi, anziché alla sera ci fu distribuita a mezzogiorno e poi rimanemmo chiusi nel reticolato e nelle baracche fredde tutto il giorno.
Ricordo proprio di non aver dormito per tutta la notte di Natale del 1943 per la fame che mi procurava crampi allo stomaco e capogiro, da non poter stare né in piedi e nemmeno coricato. La fame aveva spinto la maggioranza alla più rischiosa delle imprese che si possa intraprendere in un campo di prigionia, e cioè a varcare i reticolati per andare a rubare patate e rape. I custodi sbronzi avevano rallentato la loro sorveglianza. Allora fu praticato un foro nel reticolato e, zaino alla mano, molti uscirono per i campi. Le patate e le rape, data la grande produzione, vengono ammassate in fosse scavate nel terreno, indi ricoperte di paglia e terra. Trovandosene parecchie di queste fosse nei dintorni, furono esse le mete degli evasi per la fame; essendo in troppi a gironzolare la cosa non poté passare inosservata. Invero qualche poliziotto di passaggio in quei pressi, accortosene sparò all’impazzata sui fuggitivi, molti dei quali lasciarono bottino e zaino sul luogo. Fatto il rapporto al comandante, il giorno seguente, lascio immaginare quale sia stato il pandemonio succeduto e quale la disciplina conseguente. Rivista generale, adunate straordinario per trovare i colpevoli, molti dei quali, identificati, buscarono le più tremende punizioni. Per molti giorni, anziché distribuire il rancio, subito all’arrivo al campo ci toccò stare ogni volta un’ora, anche due, inquadrati al freddo. Per parecchie notti, sveglia e controllo ogni ora. Cose da fare impazzire per la disperazione.
Nei giorni successivi, dopo aver venduto già in cambio di pane ogni altra cosa vendibile, venni alla soluzione della vendita dell’orologio, salvato fino a quel momento da tutte le perquisizioni, serbando mio fratello il suo per un ulteriore commercio. Conclusi l’affare meglio di quanto avrei sperato: lo vendetti ad un lavoratore civile Alsaziano, il quale mi diede in cambio 9 chili di pane e 90 sigarette , a rate (se fossimo stati trovati in possesso di più pane di quanta era la razione in distribuzione si sarebbe stati bastonati e seviziati sino a scoprirne la provenienza). Per fortuna il mio cliente clandestino fu galantuomo e poco alla volta, ad ogni mia richiesta, mi soddisfece del suo dovuto.
Così posso dire che l’orologio servì ottimamente a me e mio fratello, alla nostra salvezza, poiché le 90 sigarette servirono per comperare oltre 10 chili di pane, facendone commercio fino all’inverosimile, con ogni speculazione, in modo da essere sempre in guadagno e depauperando il meno possibile il capitale.

Non sto a scrivere i modi di commercio, poiché sarebbe cosa troppo lunga. Fatto si è che si tirò avanti sino a Pasqua, integrando la razione del campo clandestinamente, tanto che bastasse per tenerci vivi ed in efficienza per non lasciare le nostre misere spoglie mortali in questa terra, che non vorrei proprio mi avesse più ad ospitare, nemmeno morto.
A tutte le suddette sofferenze fisiche, nei momenti di lucidità mentale, si univa la sofferenza morale, ciò quella del pensiero dei nostri cari, che si presentiva fossero pure in pericoli, stando alle notizie che trapelavano fino a noi, nonostante il divieto e la sorveglianza a riguardo, e il fatto di non ricevere corrispondenza dalle famiglie.
Il morale si alzò assai all’arrivo della prima posta nel campo. Quale gioia! Inoltre si annunciava quasi a tutti che erano stati spediti pacchi, i pacchi salvatori, provvidenziali. Io e mio fratello sapevamo di avere in viaggio parecchi pacchi per noi, eppure mai ne arrivavano, sicché si era già al punto di vendere il secondo orologio, poiché nonostante tutte le industrie la scorta del primo era finita. Ma ecco la vigilia di Pasqua 1944 avvenire la prima distribuzione di pacchi nel nostro campo! La soddisfazione provata in quel momento ci parve addirittura un sogno. Con quale trasporto si vedevano tutti stringere al petto quei pacchi tanto attesi e con quale avidità e riconoscenza venivano aperti. Poi avveniva tutto il resto. L’elemento più desiderato era il tabacco, non già che si volesse tanto fumare, ma perché si adattava ottimamente all’acquisto del pane facendo cambio con i lavoratori civili. Da quel giorno, ricevendo di tanto in tanto un pacco (una terza parte andava smarrita) la vita divenne più umana.
Così, tra il malissimo, il male e il meno male, si tirò avanti sino all’estate, anche senza essere granché disturbati dai bombardamenti aerei, fino a quando fummo traslocati a altra località, e precisamente nella Sassonia (Ergzebirghe), sul confine della Cecoslovacchia, non molto distante da Praga.

(Continua)

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