GABRIELLA MONGARDI
Un concerto imperniato sul confronto, quello tenuto dai bravissimi Solisti dell’Accademia Stefano Tempia sabato 13 aprile a Mondovì Piazza: Francesco Cavaliere al pianoforte, Elena Miglietta all’oboe, Ugo Favaro al corno, Flavio Lodi al clarinetto, Francesco Loprete al fagotto.
Ad essere confrontati non erano tanto due sommi compositori, Mozart e Beethoven, attraverso i loro due quintetti per pianoforte e fiati, quanto due epoche della storia della musica e della cultura europee, Illuminismo e Romanticismo, nel momento di passaggio da una concezione della musica come piacere, come “sogno fatto in presenza delle ragione”, a una concezione della musica come tramite tra l’Io e l’Assoluto, linguaggio privilegiato per esprimere passioni e tormenti altrimenti indicibili. Passaggio che si compie a Vienna, in seno al cosiddetto “classicismo” viennese, la cui perfezione risulta appunto dalla fusione tra stile galante e Sturm und Drang, grazia settecentesca e inquietudine già romantica, in un miracolo di equilibrio destinato a durare pochi decenni: principali artefici Haydn, Mozart e il giovane Beethoven, che appunto a Vienna alla fine del Settecento, a tredici anni di distanza uno dall’altro, composero i due Quintetti proposti nel concerto.
Il Quintetto di Mozart in Mi b M, K452 è la perfezione assoluta dal punto di vista delle proporzioni e della misura: il pianoforte apre delicatamente il sipario sugli strumenti a fiato, che sembrano avere una voce sola, anche se nella loro massa sonora si distinguono molto bene i singoli timbri: la voce un po’ nasale dell’oboe e quella molto espressiva del corno; il suono caldo e vellutato del clarinetto e quello ricco e profondo del fagotto. Nel cullante larghetto il tema si dispiega con grazia sorridente, tra crescendo e diminuendo, e viene ripreso in chiusura; nel rondò finale ritorna la cristallina leggerezza iniziale; i singoli strumenti ripropongono il tema in maniera trascinante, con un andamento a spirale avvolgente fino all’assertivo unisono finale.
Il Quintetto di Beethoven op. 16 è modellato su quello di Mozart (di cui riprende la tonalità), ma è molto più tormentato e tempestoso, ha un andamento molto più franto e drammatico, nonostante gli sforzi del pianoforte per riportare un po’ di dolcezza con i suoi trilli e arpeggi. Ma nel primo movimento i fiati sembrano impuntarsi ostinatamente a negare ogni possibilità di consolazione e di sollievo: nel dialogo con il pianoforte le voci sono in netta contrapposizione, quasi portatrici di opposte Weltanschauung. Alla fine anche il piano si adegua alle sonorità da trombe del giudizio che sembrano disperate invocazioni di aiuto, e il dialogo prosegue concitato, senza misura e senza fine, involuto, tortuoso, pesante, perché inestricabilmente complesso. L’andante è aperto dal pianoforte con un motivo più sereno, ma i fiati, a turno, riportano toni malinconici; analogamente il rondò si apre con un andamento di danza, ma viene subito smentito dallo sviluppo tematico affidato ai fiati, che vira sul drammatico, incupendo l’atmosfera. L’Ottocento romantico è davvero alle porte.