“La finestra dei mirtilli” di Fernando Lena e Daìta Martinez

Foto: Susan Burnstine

Recensione di Franca Alaimo

“(ora non lo sai, ma forse il dolore ci sorprenderà)”: così suggella fra parentesi il suo primo testo Ferdinando Lena nell’ora 00.00, che indica convenzionalmente la mezzanotte della giornata appena iniziata ed esotericamente la possibilità di un mutamento, suggerito da tre versi dello stesso testo: “Vorrei un giorno che la finestra apparisse lucida/ e baciandomi tra i passanti, dalle loro bocche/ tu ascoltassi almeno una parola dolce di mirtilli”.
Anche il titolo La finestra dei mirtilli, tratto dai versi precedentemente citati, implica un’apertura. La finestra è l’occhio della casa, quello che si spalanca alla realtà esteriore, esattamente come l’occhio umano.
E, ancora, sperare che il “tu” al quale il poeta si rivolge possa ascoltare “almeno una parola dolce di mirtilli”, significa progettare un tempo futuro visitato dall’amore.
Dunque ha ragione la prefatrice Anna Maria Bonfiglio quando scrive: “Il sottinteso fine di questo epistolario in versi non è, almeno per quanto riguarda l’io maschile, che una richiesta d’amore, un modo per farsi ascoltare, forse anche aiutare”.
Il “tu” a cui Lena si rivolge è l’amica e poeta Daìta Martinez, che non rimane soltanto la destinataria ideale, come accade in tante altre raccolte di versi, ma, scrivendo ‘in risposta a’, irrompe violentemente nella struttura della raccolta e per la diversa modulazione dei contenuti e per la costruzione dei versi, franti e allusivi, che mettono in scena un’impalpabile teatro di percezioni, in contrapposizione alla sintassi sufficientemente arginata e al tono narrativo-confessionale dell’amico Lena.
La Martinez, sapendo che la sua finestra-occhio si apre a una diversa prospettiva, più volte scrive all’amico di non avere niente da dirgli, o di non potergli rispondere, oppure lo invita a stare in silenzio, spiazzata e inquietata dal suo dolore e dalla sottesa richiesta.
Eppure i due poeti si ascoltano, e non tanto come amici, ma come tessitori di testi: a volte è un’immagine, a volte, un’idea o un ricordo o un suono a restare nell’orecchio, a mettere in moto l’immaginario, trovando un’elaborazione nuova e sorprendente.
Lui scrive: “Eppure con il sole sulle grate/ hanno portato nonna in chiesa”, e lei : (mutando il suono grate nel lemma dialettale graste) scrive: l’affannu di lu suli nta la grasta ca è cca”, come per dire che il lutto è sempre presente, se ancora dura “ la siti azzannata di memoria”; lui scrive “Piove come se fosse il giorno in cui per l’esame/ di maturità decisi di sfidare le nozioni con l’apatia” e lei gli risponde: “le acque si// rompono sulla/ piazza e piove”; così come l’immagine della finestra dei mirtilli torna più volte in entrambi; i termini disgiunti nei testi della Martinez, come a dire che una cosa è gettare lo sguardo oltre la finestra e immaginare quasi infantilmente un arcobaleno, come immagina l’amico Lena, un’altra guardare la realtà, essere capaci di scavalcare il disagio e cercare di fruttificare come dolci mirtilli; e, infatti, lo esorta così: “sùsiti è mattina fa vuci” : “versi forti, – scrive la Bonfiglio – vento impetuoso che scuote rami e foglie”.
E, tuttavia, quando Lena nel primo testo, si riferiva al dolore che, forse, un giorno, li avrebbe sorpresi, sapeva già di gettare il filo rosso che li avrebbe accomunati.
Solo che l’uno (Lena) ha bisogno di raccontarsi a un’altra persona e probabilmente di esserne anche consolato e, magari, amato; l’altra (Martinez) invece è reticente e scrive all’interno di uno stesso testo: “mi cuntavu” e mi “cuntu”, come a dire che, come già in passato, lei continua a raccontare solo a se stessa la propria sofferenza.
Da quali eventi personali abbia avuto origine la sofferenza della Martinez non è assolutamente semplice evincere: come si è detto, l’autrice sembra servirsi della lingua come di uno strumento di occultamento, quasi che desideri tutelarsi dallo sguardo altrui, (“iu ca nun sacciu parrarri e m’ammucciu”) e, dunque, interrompe, frantuma, deforma, avvisando il lettore che non può esserci una lingua ordinata per raccontare una spezzatura così intima. Bisogna mettere insieme questi frammenti per ricostruire la casa interiore della poetessa: “l’ancestrale solitudine”, “il bicchiere strapazzato”, “la collana della sposa/ imperfetta movenza” “nel pericolo del cielo dda vota”.
Lena, invece, racconta con parole esatte e drammatiche l’esperienza della droga; epatiti, allucinazioni, siringhe, aghi ingestibili, la mente come una centrifuga, le molteplici bestemmie, i vomiti, ci raggiungono come staffilate che bruciano.
Raccontare per lui è come gettare fuori quel dolore nel tentativo di recuperare la sacralità della vita, quella che gli insegnarono la madre, zia Lucia e qualche amico d’infanzia. Ma si tratta pur sempre di una sacralità senza teologia, contemplata in se stessa come valore terreno, in qualche modo legata alla memoria remota e all’amore materno, che risplende forte e deciso in quello che a me sembra il testo di Lena più bello e pieno (pag.38), in cui racconta come una telefonata della madre gli abbia un giorno salvato la vita.
La Martinez ha altri riferimenti salvifici e, sebbene sembri un paradosso, il primo è se stessa: “una finestra sugli occhi/ho una finestra sugli occhi, sugli occhi ho una finestra”, scrive, sottolineando non la possibilità di un’apertura da uno spazio chiuso (la casa) come fa Lena, ma la capacità di un’apertura che nasce dal proprio sguardo.
In un altro testo scrive: “iu/ comu stu roggiu/ca liberu camina”, ché, infatti, racconta di una passeggiata, in piena libertà, nel cuore antico della città di Palermo: via Roma, una piazza, un cestino di rami, l’acchianata, le persiane, ‘na vastedda, lo Spasimo, la taverna: e gli domanda: “intra vedi?” Riesci, cioè a vedere in questo teatro all’aperto che è la vita reale qualcosa di quello che è il mio teatro interiore?
Si individua, in questo modo, per la Martinez, un secondo riferimento salvifico, che è l’affezione per la propria città, per il suo volto antico salvato attraverso la parlata dialettale: quest’ultima viene, dunque, a configurarsi come il punto d’incontro tra la dimensione esteriore e quella interiore, quasi che in essa possa celebrarsi reiteratamente, l’innocenza dell’origine dell’individuo come della collettività. Lena è chiuso nel suo solipsismo, Martinez apre, come si diceva, il suo occhio-finestra sia pure per guardare, di notte, un “gelsomino di luna”.
In questo diverge la figura dell’infanzia nei due poeti: Lena ricorda un bambino che gioca nel chiuso di una stanza, comunque definitivamente perduto, e che segna una cesura fra passato e presente; Martinez si guarda vivere tra i vicoli e gli spazi dell’ora e del qui e vi colloca la sua cantilena dialettale, una perenne musica di cune, madri e figli, scialli, piantine di basilico, povertà, innocenza, tutti segni e sogni tenerissimi, come indica la prevalenza dei vezzeggiativi nominali e aggettivali, così consolatori ed auto-consolatori.
Eppure il filo rosso del dolore è stato gettato sin dall’inizio e serpeggia e lega insieme due stili, due mondi poetici, due luoghi lontani, due vite diverse: lo ribadisce ancora una volta Lena: ma rimaniamo lo stesso/ un aneddoto risorto/ dalla disperazione, che vuole soprattutto significare che è comunque il dolore ad alimentare la parola poetica di entrambi, ad avere offerto loro materia di narrazione, sebbene velata dal “segreto”(secondo quanto significa etimologicamente il termine ‘aneddoto’) della forma poetica. E, a questo proposito mi piace citare l’amatissimo Rilke, il quale afferma: “Nulla può tanto poco toccare un’opera d’arte quanto un discorso critico: si arriva per quella via sempre a più o meno felici malintesi ( …)la maggior parte degli avvenimenti sono indicibili (…) e più indicibili di tutte sono le opere d’arte, misteriose esistenze, la cui vita, accanto alla nostra che svanisce, perdura”.
Da questa consapevolezza senz’altro condivisa nasce, a mio parere, (sperando di non scivolare nel malinteso di cui dice Rilke), quel sentimento che suggella l’ultimo testo della Martinez: “misericordia” (subito affiancato ad una nuova dichiarazione di non volere più scrivere nulla); e quello finale di Lena, quando scrive, a proposito dell’affetto che lo lega alla madre: “ormai siamo in due/ a doverci sopportare/ per quella goccia di dna (e inchiostro),/ che ci lega come l’acqua alla sete”. È una dichiarazione, questa di Lena, che apre ad un’interpretazione significativa; infatti avere accostato i due termini “dna” e “inchiostro” (quest’ultimo tra parentesi quasi per un gesto di pudore) equivale a dichiarare la propria vocazione poetica come un destino. Significa anche volere affondare grazie alla lingua poetica nel centro più remoto di se stesso.
Leggendo recentemente un saggio di Bonito Oliva sull’archetipo del labirinto, in vista della presentazione della raccolta di Mirella Crapanzano che ha appunto titolo Labirinto, mi ha molto suggestionata la sua idea dell’artista contemporaneo che, simile all’eroe mitico Teseo, crea percorrendo ed esplorando i labirinti del linguaggio ed uccidendo la bestia, portatrice di una doppia natura così com’è duale la natura del linguaggio ed infine riemergendo alla luce.
A questa dualità del linguaggio allude certamente l’inchiostro associato al dna: da una parte la parola intatta dell’infanzia e dall’altra quella spezzata dagli effetti della droga, ma anche, da una parte, il linguaggio consumato dalla quotidianità e quello inventato della poesia. Apparentemente la cosa sembra riguardare solo Lena, ma non è così: anche la Martinez, nel suo alternare la lingua italiana con quella dialettale, sconfigge la spezzatura della lingua adulta con la lingua bambina della lallazione, della musica-madre, del ventre antico della città. Anche questa volta l’approdo è simile e distante allo stesso tempo, ma in ogni caso guidato da una volontà di riemersione.

Franca Alaimo

Da “La finestra dei mirtilli” (Edizioni Salarchi Immagini, 2019)

f:
00.00

Vorrei un giorno
dicevo a quella tossica di Adele
mentre lei mi metteva fretta nel prendergli la vena.
Un giorno avrei voluto amarla, con una fede
consegnargli il mio batticuore e tutte le epatiti.
Davanti a Dio ci saremmo scambiati le allucinazioni
promettendo metadone anzichè aghi ingestibili.
E così avrei detto amore e nei cessi poi vomitato
una delle mie tante personalità.
Ho pensato in grammi per chissà quanto tempo
immaginando che fosse lì il peso della mia volontà.
Essere con il respiro dentro l’abitudine di peccare
se ciò fosse una espiazione metodica dei polmoni
direi che ho vissuto brancolando per necessità
d’assomigliare più a una bestia che a un santo.
Vorrei un giorno che la finestra apparisse lucida
e baciandomi tra i passanti, dalle loro bocche
tu ascoltassi almeno una parola dolce di mirtilli.

(ora non lo sai, ma forse il dolore ci sorprenderà)

*

d:
23.23

accade ciurato dal grembo un merletto melanconica sutura
a mia assenza la notte arrotondata tra il catino e la maniera
chi c’hannu li manuzze mentri pigghianu l’aria frisca sutta
chiddu ca nun torna d’un orlo alla paura degli specchi
o un rovinio di latte quando è piana la fontana dentro agli attimi
primitivo il sapore a dietro un gesto dal respiro e ha cenere
guarda
la collana
della sposa
imperfetta movenza]

quest’ancestrale solitudine dalle braccia che morbide mi
asciugo candore del rimpianto sulla riva del cielo lassatu
a li lampare cunsacrate d’ogni dèi la spiranza vagnata di
nuddu ca nuddu sapi li dogghie ammucciate nta la vucca
assittata d’insonnia e collina discendente silenzio questa
ebbrezza spugghiata ‘n mezzu ciatu na fogghia crolla lei

*

f:
17.10

«Ora puoi fare da solo dicevi
come se io avessi imparato chissà cosa di così geniale
era una questione di paure
e per alcuni quelle paure li condusse alla luce».
Ma noi eravamo quelli davanti ai pub chiusi
convinti di mirare la luna con le bottiglie vuote
eravamo una specie non protetta
causa le molteplici bestemmie e l’amore
per una sola fede appuntita, maleducata.
Poi il cielo è cambiato e i colori
hanno iniziato a moltiplicare il rosso sulle camicie,
sul cruscotto: dove c’era follia quel colore
ci battezzava le cadute e mai nessuna rivincita.
Ora potresti convincermi che la vista ci ha illusi
perchè le nuvole non le abbiamo mai avute sotto i piedi
o forse sono ancora messe lì nel dipinto ispirato da Dio,
e anche se ti cerco nei dettagli appena una croce,
una foto, indicano l’evoluzione del caos:
ogni minuto dell’aria adesso è eternità,
forse non so respirare ma scrivere della mediocrità
che spinge i cancelli non lascia
nuove storie alla voce arrugginita, e ormai
varcata l’intenzione quei bambini sull’altalena
non siamo noi, capisci ?
noi abbiamo tutte le periferie in gola, ed è impossibile
gridare la bellezza all’infuori del diritto d’essere
muti fino alla resurrezione.
«Finalmente puoi fare da solo – dicevi soddisfatta –
come se avessi imparato la formula dell’accoglienza:
diluirmi nel sangue aspirando la tua dolcezza mancata
da una fiala… fu quello l’amore… tutto in percentuali
tra un collasso e un’aurora».

a volte imparo dalla saliva
l’affinità dei vomiti
sarà un’intuizione epatica,
ma vivere quello non ci riesco
è una febbre alle ossa
inestirpabile senza un’idea.

*

d:
19.43

come posso
a un nocciolo
di piede

m’inchina silenzio
o liberazione sia

velatura le unghia
dal sonno un dopo
lasciato

hai battito tempo ?

e il vuoto in un canto di cicale
affonda la notte ai nostri passi
smarrita resistenza poi ferita

l’eclissi blasfema

cavallucciu marinu
‘u mari mi scinni da
chisti occhiuzzi ccà

l’avissi pinzatu r’accussì ‘u juocu mentri unn’era jucu
[caminari all’incuntrariu unni attummuliava la

grasta e tuttu ‘u firmamentu di la vistina i centrini
[all’uncinetto la grazia di li mennule ‘u lettu in
un ramuzzu di misericordia cielo sbavato all’odore del
[mosto: l’avissi pinzatu r’accussì ‘u jocu ma
unn’era jocu iu ca nun sacciu parrari e m’ammucciu
[sutta na scorza d’aranci ché la pioggia ha il
senso del contatto mancato o mancato al contatto il giorno
[dei giorni in un casteddu di rina

appizzatu
a la vintura
dello spacco

si tramonta dalle mani il torpore
comu pozzu
arriminari li paroli
prijate

nel sangue degli apostoli
ho

libertà?

statti mutu
‘a prucissiuni sta passannu

Daìta Martinez è nata a Palermo. Segnalata e premiata in diversi concorsi di poesia, ha pubblicato in antologica con LietoColle, La Vita Felice, Mondadori, Akkuaria, Fusibilialibri, Cfr Edizioni e Il Soffio. Dietro l’una è la sua opera prima, segnalata al Premio Nazionale Maria Marino. Autrice dei testi in video Kalavria 2009, nel 2015 ha vinto il primo premio per la sezione dialettale del Concorso “Città di Chiaramonte Gulfi”. La bottega di Via Alloro è il suo ultimo lavoro poetico. Nel 2018 è stata finalista – sezione opere inedite in lingua siciliana della 44° edizione del Premio Internazionale di Poesia Città di Marineo. È stata inserita nell’Almanaccco di poesia italiana al femminile Secolo Donna 2018, Edizioni Macabor.

Fernando Lena è nato a Comiso in Sicilia nel 1969 dove vive e lavora. Ha pubblicato diversi libri di poesia, il primo risale al 1995 con il titolo E vola via edizioni Libro Italiano. Dopo un silenzio di quasi dieci anni ha pubblicato una piccola suite ispirata ad otto tele del pittore Piero Guccione edita dalla Archilibri di Comiso e successivamente sempre con lo stesso editore una raccolta dal titolo Nel rigore di una memoria infetta. Gli altri tre libri risalgono al 2014 per i Quaderni Dell’Ussero dal titolo La quiete dei respiri fondati edizioni Puntoacapo, e al 2016 Fuori dal Mazzo, libro d’arte (edizioni fuori commercio) e La profezia dei voli edizioni Archilibri (1° classificato al Premio Poetika e al Premio Città di Castiglione Cento Sicilie Cento Scrittori, 2° classificato al Premio Moncalieri, 3° classificato Premio Internazionale di Poesia Don Luigi Di Liegro e finalista al Premio Letterario San Domenichino).

Franca Alaimo è nata nel 1947. Vive a Palermo. Esordisce come poeta nel 1989 con Impossibile Luna a cui sono seguite altre diciassette sillogi, quattro e-book editi con La Recherche, e una pubblicazione con PulcinoElefante. Ha scritto saggi sugli autori contemporanei: D. Cara, T. Romano, L. Luisi, F. Loi, G. Rescigno. È presente in numerosi volumi di Storia della Letteratura italiana, e in InsulariI. Romanzo della letteratura siciliana di Stefano Lanuzza; in diverse antologie (tra cui: Newton Compton, Aragno, LietoColle, Laboratorio delle Arti; Giuliano Ladolfi Editore) e in riviste quali Poesia (dove è stata presentata da M. Bettarini e da M. G. Calandrone), Anterem, Italian Poetry Review, Bomba carta e molte altre. Ha tradotto dall’inglese due brevi sillogi del poeta irlandese Peter Russell. È presente sul sito Italian Poetry e in quello internazionale di Sabido Sanchez. Alcuni suoi testi sono stati tradotti in spagnolo, inglese e tedesco. Fa parte del team redazionale della rivista on-line La Recherche. Si occupa anche di critica letteraria, recensendo opere di autori contemporanei. Le sue più recenti pubblicazioni (2018), edite da Giulinao Ladolfi, sono: la raccolta poetica Elogi e l’antologia Il corpo, l’eros, che riunisce i testi di oltre sessantotto poete italiane e straniere, alla quale ha partecipato in veste di curatrice e di autrice.

A cura di Silvia Rosa