GABRIELLA MONGARDI
C’era una volta, in un paese di mare di rocce e di sole, un uomo che aveva una grande passione: cercare sul fondo del mare, riportare alla luce e restaurare oggetti d’arte antica. Nella sua casa-laboratorio-museo aveva già una notevole raccolta di anfore, tazze, ciati a figure rosse e a figure nere, vasi per l’olio e il grano, e anche qualche statuetta — di Poseidone, di Afrodite, una testa di Apollo forse; testimonianze di quella raffinata civiltà fiorita, 2500 anni prima, nella terra dove adesso viveva lui. Era una collezione già ricca, che avrebbe suscitato l’invidia e l’ammirazione di molti, lo sapeva: tuttavia non era ancora soddisfatto dei suoi “bel giocattoli” — come li chiamava. Sentiva che qualcosa ancora gli doveva venire, dal mare: e con una sospesa inquietudine, in ogni mattina di bonaccia, quando la luce del giorno increspava l’aria dietro i monti a oriente e a occidente l’acqua pareva un sarcofago di smalto, l’uomo si calava in mare, in ricerca.
In questa ricerca infruttuosa di “qualcosa” di diverso e di più aveva già speso tante e tante mattine, che non credette ai propri occhi quando, un giorno, gli inviarono l’immagine di una mano affiorante fra le alghe. Si avvicinò, la liberò dai fili penduli e la seguì: toccò un braccio, e sotto la sabbia e i gusci dei molluschi ebbe l’impressione che al braccio fosse attaccato un busto, intuì una testa, una gamba. Ritornò il giorno dopo, con più attrezzi, e con la certezza che quell’ “oggetto” fosse ciò che aspettava: e ne scorse un altro, poco più in là — il mare dunque gli riserbava più di quanto egli potesse sperare. Con lieve cautela cominciò a togliere le incrostazioni e scoprì due statue maschili integre, alte circa 3 m.: per riportarle alla superficie impiegò tutta una notte, ma vi riuscì senza l’aiuto di nessuno. Per mesi, nel segreto del suo laboratorio, l’uomo lavorò al restauro delle due statue: a mano a mano che le liberava dalla salsedine gli si svelava la loro euritmia, la loro ideale bellezza: erano due guerrieri — privati dal tempo di lancia e scudo — che conservavano però la loro composta energia e un sereno compiacimento della propria forza e prestanza fisica.
Al termine del lavoro il restauratore si sentiva pari allo scultore che aveva creato quei due capolavori: egli infatti li aveva ricreati, disseppellendoli per due volte da ciò che li occultava; ne conosceva ogni linea, ogni particolare, ogni vibrazione del bronzo alla luce: le statue erano cosa sua. Le sistemò nella stanza più ampia della casa, di fronte alla grande finestra che guardava il mare, e trascorse ore a contemplarle, a gustare il dono che il mare e l’arte degli antichi e la sua paziente passione gli avevano donato, ma — stranamente — non era contento. Non erano contenti i due guerrieri, troppo imponenti per quella piccola camera e soffocati in essa; il loro sguardo ossessivamente fisso alla finestra chiusa pareva contenere l’ordine di aprirla, e l’uomo obbedì: in piedi presso la finestra guardava ora il mare, guardava i bronzi, e ancora sentiva salire in sé l’immotivata oppressione. Poi, improvvisamente, capì: i due guerrieri non volevano che egli aprisse la finestra, non la vedevano nemmeno: i loro occhi guardavano lontano, molto più lontano, verso le distese infinite di spazio e di luce per cui erano nati: i due guerrieri erano prigionieri, in casa sua. Le statue trovate sul fondo del mare non erano sue: egli le aveva scoperte e restaurate, le aveva amate e conosciute come nessun altro avrebbe saputo, aveva esercitato su di esse un “potere”: questo “potere” era appunto la sua capacità di “scoprire”, di “dar vita” alle statue; nasceva dalla sua sensibilità e dalla sua intelligenza – che erano uniche – ed era, esso sì, una “cosa” sua, esclusivamente sua, inalienabile: non le statue. Come il mare ai suoi piedi, come le montagne dietro la casa, sfumate nella foschia meridiana, come le persone che si amano, tutto ciò che al mondo è bello non è in “possesso” di nessuno, ma in “potere” di tutti: il suo errore, la causa della sua angoscia era stato il voler possedere, solamente per sé, quella bellezza.
Decise allora che avrebbe affidato le statue a un museo: là, in un salone di proporzioni adeguate, i due guerrieri avrebbero potuto regalare il loro enigmatico sorriso, il loro equilibrio, il guizzare dei loro muscoli a tutti. Anche lui, confuso fra la folla, sarebbe ancora andato ad ammirarli, ed essi avrebbero avuto per lui uno sguardo diverso – magari una strizzatina d’occhi di complicità: gli avrebbero parlato con un linguaggio noto soltanto a loro, un linguaggio che lui solo, fra gli uomini, aveva il potere di decifrare.
(le statue dei guerrieri di Riace sono state ritrovate il 16 agosto 1972)