PAOLO LAMBERTI
Il titolo di quest’articolo è preso in prestito dal libro di Simon Schama, Le molte morti del generale Wolfe. Due casi di ambiguità storica, un’opera che analizza le ombre che ristagnano anche intorno ad avvenimenti che i documenti sembrano avere chiarito con certezza. Dice Schama: «le storie contenute in questo volume giocano sull’inquietante divario che esiste tra un avvenimento vissuto e la sua narrazione successiva…la certezza dei fatti si dissolve nelle molteplici possibilità di narrazioni diverse». Narrazioni che travalicano nella letteratura: recentemente è uscito un romanzo di Melania Mazzucchi ambientato in un luogo molto simile a Bastia, il cui titolo, La camera di Baltus, prende il nome da un ufficiale francese, immaginario, che si finge mortalmente ferito, insieme al suo generale, in uno scontro che non può essere che quello di Cassanio.
Questo combattimento, che il 21 aprile 1796 vide la morte del generale Stengel, comandante della cavalleria dell’Armée d’Italie guidata dal giovane Buonaparte (si firmava ancora così), è stato abbondantemente ricostruito da più parti: i testimoni dell’epoca, nei resoconti ufficiali di ambo le parti e nella ricca testimonianza di Gioacchino Grassi di Santa Cristina; gli storici piemontesi, sensibili alle tracce che l’avvenimento ha lasciato nell’ambito locale; gli storici francesi, attenti a ricostruire la prima gloriosa campagna dell’Empereur; gli storici militari, interessati agli aspetti tecnici dello scontro.
Se nulla si vuole qui aggiungere attraverso l’uso di nuove fonti, il problema che si vuole affrontare è quello delle diverse ricostruzioni del fatto, e soprattutto quello delle intenzioni: Stengel stava andando all’attacco ed è morto eroicamente all’assalto? Era in ricognizione e cadde in uno scontro casuale, morendo per sfortuna? Era in ricognizione, e morì per essersi avvicinato troppo, essendo fortemente miope? Almeno tre morti, per un unico cadavere.
Parte prima: la cornice dello scontro
La campagna
Non è questo il luogo di analizzare l’intera campagna napoleonica contro i Piemontesi, però alcune considerazioni generali permettono di inquadrare gli avvenimenti, spesso narrati in chiave di esaltazione (gli storici francesi) o di giustificazione ( quelli piemontesi).
Già Chandler individua in questa fase della campagna del 1796 la presenza di tutti e tre i sistemi che Napoleone utilizza per impostare il piano strategico di una spedizione: la penetrazione strategica, il momento iniziale in cui si cerca di individuare e colpire il punto debole dello schieramento avversario, in questo caso l’asse Savona-Ceva. La posizione centrale, ovvero la capacità di concentrare le truppe in modo da godere di una forte superiorità numerica sul campo di battaglia, anche se i francesi non possiedono tale vantaggio nel complesso dell’intero teatro: è il caso di San Michele e di Mondovì, dove la netta inferiorità numerica piemontese nasce dall’abilità di Buonaparte, non dal caso. Infine la manoeuvre sur les derrières o “avvicinamento indiretto”, la manovra preferita dall’imperatore, che la usò almeno trenta volte; essa consiste nel fissare il nemico con una parte delle proprie forze ed aggirarlo e schiacciarlo da dietro o di fianco con il nucleo maggiore delle proprie truppe, isolandolo dalle retrovie e costringendolo alla battaglia nel momento e nel luogo scelto dai francesi: si possono vedere una serie di queste mosse nei ripetuti tentativi di aggirare Beaulieu, dopo l’armistizio di Cherasco; è pertinente al nostro tema l’interrogativo se anche Mondovì debba essere considerata una battaglia di tal genere, parzialmente riuscita.
Il piano della campagna del 1796 nasce dai tentativi falliti di forzare il passaggio verso la pianura piemontese attraverso la Val Tanaro, tentativi che negli anni precedenti avevano portato i francesi ad occupare i crinali appenninici e parte della Riviera di Ponente, ma avevano permesso agli austro-piemontesi di contenerli all’interno della fascia montuosa. Già nel 1794 i rappresentanti politici presso l’Armée, tra cui il fratello di Robespierre, avevano notato il punto debole costituito dall’asse Savona-Ceva, e la campagna del 1795 aveva spostato l’asse della penetrazione francese verso Savona. Tuttavia, quali siano stati i suggerimenti e gli spunti che Buonaparte mutuò da anni di esperienze, è certo che il suo piano, già pronto a Parigi nel gennaio 1796, era tanto completo e convincente da assicurargli il comando, e da essere eseguito sostanzialmente con fedeltà nel corso dei combattimenti.
Certamente esso fu favorito dalla scarsa previdenza dei comandanti avversari, e dalle loro divisioni. Infatti Colli, comandante piemontese, mirava soprattutto a proteggere la pianura piemontese e Torino, nonché i suoi amati magazzini e fortezze, mentre Beaulieu, comandante in capo e degli austriaci, mirava a coprire gli approcci alla pianura lombarda e a Milano. Essendo la geografia quella che è, gli alleati gravitavano su linee divergenti, nord-ovest per i sardi, nord-est per gli austriaci. Così la linea di separazione tra i due eserciti, già di per sé luogo estremamente delicato per i rischi di frattura che esso comporta, venne fatta correre proprio sul miglior asse di penetrazione per i francesi.
Se a ciò si aggiunge che i generali austro-sardi erano esperti soldati, ma delle guerre settecentesche, ed erano limitati da ordini contraddittori e dall’ingerenza delle rispettive corti, l’andamento della campagna appare più chiaro. Beaulieu, settantenne, circondato da generali riottosi come Argentau, sottovalutò il ventiseienne Napoleone, preparandosi ad una guerra di manovre con unità disperse su un vasto fronte: l’idea era quella di un assalto generale attraverso i monti, da Genova ad Imperia, prevedendo puntate offensive come quella che aprì la campagna a Bocchetta. Colli, quasi sessantenne, con esperienze nella guerra dei Sette Anni e nelle guerre turche, aveva presentato sia un piano offensivo, che prevedeva la calata dei piemontesi verso Loano e quella austriaca verso Finale, per spezzare in due l’armata francese, sia un piano difensivo in cui i sardi si sarebbero arroccati su Ceva, gli austriaci su Acqui, pronti ad attaccare sul fianco i francesi, qualunque dei due gruppi avessero attaccato: piani certo più sensati di quelli del generale austriaco, ma che anch’essi non attuavano quella concentrazione di forze che permetterà a Napoleone, in inferiorità numerica, di godere sempre del vantaggio del numero in quasi tutti gli scontri. Le valutazioni degli effettivi sono molto varie: indicativamente, seguendo Chandler, possiamo confrontare circa 37.000 francesi e 52.000 austro-sardi.
Certamente pesa sulla valutazione di Colli la dispersione di forze (di cui per altro si rendeva conto: scrive il 22 aprile a Beaulieu «Vi avevo detto molte volte che l’armata del Re non era in grado di tenere testa al nemico su un così lungo fronte»). Mancano all’appello non tanto i 20.000 soldati del Principe di Carignano, che fronteggiavano Kellerman sulle Alpi (che pure godevano del vantaggio della manovra per linee interne, e avrebbero potuto essere utilizzati), quanto tutti gli uomini lasciati a guarnire fortezze e proteggere magazzini, o abbandonati in posizioni isolate, e quindi sacrificati, come i granatieri di Cosseria. È l’antico vizio che i piemontesi hanno trasmesso all’esercito italiano, quello del custodire i magazzini con spirito da “lesina”, perché le guerre passano (e si perdono), ma gli inventari rimangono: persino il contrattacco riuscito a San Michele contro Sérurier venne chiosato dal capitano Schreiber, uno dei protagonisti, con l’osservazione che furono recuperate armi del valore di più milioni; risparmi che certo ben fruttarono, nell’armistizio di Cherasco, ma per Napoleone!
Se a livello strategico la campagna individua una decisa superiorità francese, a livello tattico questa appare molto meno netta. Infatti non va dimenticato che l’Armée d’Italie non solo era considerata meno importante di quella del Reno, e perciò otteneva meno risorse, ma si trovava altresì nel 1796 ridotta di numero: rispetto ai circa 90.000 effettivi dell’anno prima, ne contava circa 66.000, di cui 24.000 di guarnigione nella Francia del Sud; inoltre è ben noto lo stato di autentica miseria in cui versavano soldati ma anche ufficiali, miseria che spiega l’entusiastica propensione al saccheggio dimostrata anche a Mondovì (vizio che Napoleone tollererà sempre, nei soldati e soprattutto nei marescialli).
Una recente redistribuzione delle truppe aveva unito nelle medesime unità soldati di professione e volontari, ottenendo di amalgamare l’esperienza dei veterani e lo slancio dei cittadini in armi; è in forma più efficace la miscela che a Valmy sorprese e incrinò il senso di superiorità degli eserciti di professione del Settecento, con la loro rigida disciplina e il sofisticato addestramento a complesse manovre in battaglia: l’uso di voltigeurs, tiratori in ordine sparso che precedevano le truppe, l’attacco con massicce colonne a baionetta inastata, la velocità permessa da un inquadramento meno rigido e da salmerie più leggere verranno mantenute dall’imperatore, che vi aggiungerà un uso massiccio dell’artiglieria, quasi a bruciapelo.
Tale tattica sfrutta appunto lo slancio e compensa il minore addestramento, basandosi sulla forza bruta e sulla capacità di intimidire il nemico; le perdite sono alte, ma limitate dalla velocità e dagli aggiramenti sul campo di battaglia; questo soprattutto se il nemico si lascia intimidire e perde l’iniziativa: quando invece la tenacia degli inglesi o l’ostinazione dei russi ignorarono l’intimidazione, si ebbero sanguinosi macelli come ad Eylau o in Spagna. Si può dire che le truppe piemontesi siano assimilabili a questi modelli, visti episodi come Cosseria o San Michele, dove più volte l’impeto francese venne spezzato e contrattaccato, e dovette pagare un salato pedaggio (almeno un sesto degli attaccanti, a Cosseria).
Nelle battaglie della primavera del 1796 si può già notare un uso spregiudicato dell’artiglieria, portata quasi a contatto del nemico e usata con micidiale efficacia: si tratta ancora di pochi cannoni, a volte solo uno o due, ma è l’anticipazione dei massicci concentramenti di decine o centinaia di pezzi sui campi delle più grandi vittorie di Napoleone, formatosi appunto come ufficiale di artiglieria.
È invece la cavalleria il punto più debole dell’Armée d’Italie, per la mancanza di ufficiali esperti, in buona parte emigrati in quanto nobili, ma anche per lo scarso numero e la bassa qualità delle cavalcature, nonché per un terreno, quello tra Savona e Mondovì, poco adatto ad un uso vigoroso di tale arma: perciò proprio lo scontro di Cassanio, prima occasione per i cavalieri francesi di dispiegarsi in pianura, è indice dei limiti di soldati che pure fra i loro ranghi annoverano ufficiali come Murat, Lasalle, Grouchy e Milhaud, che negli anni successivi guideranno la più bella cavalleria d’Europa.
La battaglia dei dieci marescialli.
Nella campagna piemontese del 1796 si fanno le ossa numerosi soldati che negli anni successivi arriveranno al maresciallato, carica istituita da Napoleone nel 1804 non tanto per scopi militari, essendo un grado civile, quanto per inserire l’esercito stesso nella struttura imperiale che stava costruendo e per premiare i militari vuoi più fedeli, vuoi più influenti nell’esercito, e perciò potenzialmente pericolosi; per questo motivo non sempre i marescialli sono i migliori soldati di Napoleone, che per altro non gradì mai la presenza di altri talenti militari a fianco del suo: gli servivano uomini coraggiosi ed obbedienti, non colleghi, e le vicende spagnole sottolinearono i limiti di questo accentramento.
La distribuzione dei bastoni da maresciallo rispecchia il peso dei fronti delle guerre del Direttorio, con una sovrastima proprio del fronte italiano guidato dal giovane Buonaparte: così su un totale di 26 marescialli, tra effettivi ed onorari, nominati tra 1804 e 1815, 11 militarono in Italia tra 1796 e 1797, 13 combatterono sulla frontiera orientale e 2 nell’armata dei Pirenei (Poniatowski è polacco e sta a sé).
Nella primavera del 1796 nelle valli liguri-piemontesi erano presenti ben 10 futuri marescialli: Augereau, Berthier, Bessières, Lannes, Marmont, Massena, Murat, Sérurier, Suchet, Victor. I loro ruoli furono molto diversi, alcuni erano già generali affermati e più esperti del giovane Bonaparte, altri erano ufficiali di grado inferiore che si misero in luce proprio in questa campagna: è spontaneo chiedersi se a Cassanio la sciabola del dragone piemontese Berteu non abbia spezzato quel bastone da maresciallo che Stengel, molto apprezzato da Napoleone, probabilmente portava nel suo zaino.
Victor era già stato al fianco di Buonaparte nell’assedio di Tolone del 1793, ma nella campagna d’Italia il suo ruolo rimarrà quello di comandante di brigata (nella divisione di Augereau) e poi di reggimento, sia pure noto come «il terribile 57°»: non sembra abbia avuto un ruolo particolare nelle battaglie dell’aprile del 1796. Giudizio analogo per Bessières, allora capitano, amico di Murat, che nel giugno del 1796 verrà nominato comandante della guardia del corpo di Napoleone, ruolo che lo porterà ad essere a suo tempo il comandante che plasmò e comandò più a lungo la Guardia: tuttavia la nomina, dovuta a quel coraggio che lo condurrà alla morte a Luetzen nel 1813, sembra rispecchiare un comportamento audace proprio nei mesi precedenti. Lannes, «l’Orlando francese», un soldato di grande coraggio fisico (che lo porterà a morire sul campo di Essling nel 1809) che seppe migliorare con il tempo anche il suo talento militare, come ricordava l’imperatore a Sant’Elena, era colonnello ed ebbe un ruolo fondamentale nel contrattacco a Dego il 15 aprile, contribuendo a ristabilire il fronte contro gli austriaci.
Suchet, che Napoleone a Sant’Elena giudicò uno dei tre migliori generali francesi, ebbe invece un ruolo significativo nel più celebre (per i piemontesi) fatto d’arme della campagna, lo scontro di Cosseria: era infatti vicecomandante di reggimento (o demi-brigade, come era nota allora) sotto Quenin, che venne ucciso durante l’assalto, e venne sostituito proprio da Suchet, in uno scontro che entrambe le parti ricordano combattuto più con baionette e sassi che con le armi, che scarseggiavano sia per i francesi, male armati sin dall’inizio, che per i granatieri piemontesi, abbandonati a se stessi.
Marmont era anche lui all’inizio della carriera (ventiduenne nel 1796, rimarrà il più giovane dei marescialli, tutti, tranne due, più anziani o coetanei dell’imperatore): ufficiale di artiglieria come Buonaparte, comandante di un battaglione di cannoni, faceva parte del piccolo gruppo di aiutanti di campo di Napoleone, che lo definì «mon fils, mon enfant, mon ouvrage» ancora a Sant’Elena, pur dopo il suo tradimento del 1814. A Mondovì combatté nell’assalto finale francese contro i granatieri di Dichat al Brichetto.
Tra gli aiutanti di campo di Buonaparte era anche Murat, allora colonnello di cavalleria ma con il titolo onorario di comandante di brigata, che gli consentiva di comandare un’unità di tal tipo; la sua era stata sino ad allora una carriera poco rilevante dal punto di vista militare, ma che lo aveva visto svolgere il ruolo fondamentale di procurare al generale corso quei cannoni con cui spezzò la rivolta dell’ottobre 1795 e assicurò al Direttorio il potere. Legatosi così al futuro imperatore, Murat lo seguì in Italia, dove finalmente a Dego il 14 aprile 1796 si distinse in una carica di cavalleria. Il suo ruolo nello scontro di Mondovì sarà esaminato più avanti.
Tra gli ufficiali che ricoprivano cariche più importanti va ricordato per primo Berthier, il generale con più anzianità di grado nell’Armata d’Italia, soldato esperto, costretto al congedo per ragioni politiche tra 1792 e 1795, recuperato da Carnot e inviato in Italia dove assunse il ruolo di capo di stato maggiore, ruolo in cui lo trovò Napoleone, che pur parlandone spesso male (e facendogli sfuriate anche peggiori), se lo tenne a fianco in questo ruolo sino al 1814: pertanto la brillante esecuzione della campagna del 1796 ebbe alle sue radici l’oscuro ma fondamentale lavoro di coordinamento di Berthier, che non si coprì mai di gloria in battaglia, ma fu indispensabile perché queste battaglie fossero combattute e vinte.
Gli ultimi tre marescialli in pectore ricoprivano già il grado di generali di divisione. L’ultimo arrivato era Augereau, aggregato con la sua divisione all’Armata d’Italia nel 1795, trasferitovi dall’Armata dei Pirenei: a lui sarà affidata la I divisione del corpo principale (di battaglia), che ne comprendeva quattro. Personaggio di estrazione popolare, audace e guascone, con un confuso passato militare pre-rivoluzionario che lo vide soldato, poi disertore, poi mercenario in più paesi (tra cui la Prussia), la sua esperienza lo vide giocare un ruolo fondamentale già nella battaglia di Loano del 1795. La sua divisione seguì nei primi giorni Massena, e subì un primo scacco a Cosseria; poi costituì con quella di Sérurier il grosso delle forze concentrate contro i Piemontesi, ma il 18-19 aprile il suo tentativo di aggirare Colli a San Michele fallì; anche nella battaglia di Mondovì il suo ruolo fu secondario: sarà poi la battaglia di Castiglione a consacrare la sua fama.
Sérurier è il più anziano dei generali presenti a Mondovì. Ufficiale dalla lunga esperienza maturata nell’esercito regio, proveniente dalla piccola nobiltà, al pari di Stengel avrà problemi durante il Terrore; protetto da Barras, è in Italia dal 1793. Al comando di una divisione, nei primi giorni della campagna del 1796 è in appoggio ad Augereau e Massena, ma a partire da San Michele, dove pure il suo attacco fu respinto, si trova al centro dell’azione, ed è lui ad avere i meriti maggiori nella battaglia di Mondovì. Ricorda Marmont nelle sue memorie: «mandò avanti un nugolo di fucilieri e si mise dietro a loro, a passo di carica, sciabola alla mano, dieci passi avanti ai suoi uomini». La sua carriera termina nel 1800 con un onorato pensionamento: la nomina a maresciallo e la vicepresidenza del Senato rispecchiano il rispetto di Napoleone per l’uomo e per l’erede della tradizione dell’esercito regio.
Massena, nizzardo, nato suddito del re sardo, sottufficiale in Francia sotto il re, fece una brillante carriera, sempre nel sud della Francia; comandante di divisione dal 1794 nell’Armata d’Italia, a Loano nel 1795 colse la sua prima importante vittoria; scavalcato da Napoleone nel comando dell’Armata, cui sembrava naturalmente destinato, non si oppone al più giovane e inesperto generale e ricopre nella campagna del 1796 il comando dell’avanguardia, con due divisioni. Protagonista a Cairo e Dego, dove però fu ributtato per l’indisciplina delle sue truppe (e sua, se è vera la malignità che gli austriaci lo sorpresero in dolce compagnia, abitudine che a lui fu sempre congeniale), rimase sul fianco verso gli austriaci, nelle Langhe, e tornò all’avanguardia nell’avanzata verso Cherasco, dopo aver svolto una manovra aggirante nello scontro di Mondovì, puntando su Briaglia. Il resto della sua carriera conobbe i fasti di Rivoli e di Essling, ma anche momenti di congedo e le sconfitte in Spagna, che compromisero i suoi rapporti con l’imperatore.
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