SILVIA PIO
Quando mia mamma andò in visita per la prima volta a casa di mio padre, nella cascina Tanarella prima che si sposassero nel 1959, sapeva che era una famiglia numerosa. Sapeva che la primogenita era mancata, che due sorelle erano già sposate e una viveva con gli zii in paese; solo Piera stava ancora a casa. Venuta l’ora del pranzo notò tre matutín (bambini, ragazzini) che si sedevano a tavola; le ci volle un po’ a capire che erano gli ultimi fratelli di mio padre, dei quali lui aveva taciuto. Carlo era nato nel 1943, Luigi nel 1946, Lorenzo, il più piccolo (e l’unico sopravvissuto dei maschi ai tempi della scrittura di questa storia), è del 1948.
Come ho già avuto occasione di dire, nei primi vent’anni di matrimonio i nonni hanno avuto undici figli.
I grandi sapevano da dove venivano i bambini (a differenza di mia madre, figlia unica, alla quale dicevano che era nata sotto una pianta di rose1) perché c’erano animali nella cascina e per un periodo si era anche tenuto lo strup, gruppo di pecore appartenenti ad altri che soggiornavano con il montone per essere fecondate. Era una piccola fonte di reddito, che però Vigina mal sopportava, imbarazzandosi alla vista dell’intensa e disinibita attività del montone.
I bambini, inoltre, sentivano la mamma che partoriva, ed erano tutti parti abbastanza lunghi e dolorosi, esclusa Maria, che nacque praticamente da sola. Il parto di Renzo fu particolarmente difficile, la levatrice non riusciva a farlo nascere e si dovette chiamare il medico Molinari. Il bambino alla fine venne fuori, cianotico ma bellissimo.
Tutte le volte che Vigina rimaneva incinta le sorelle nubili di Berto che vivevano in paese, dicevano «è turna parei» (è di nuovo così). La cognata Pinota, sposa ad un altro fratello di Berto, che viveva in cascina, sembrava essere gelosa2.
Quando veniva il momento, se faceva freddo si accendeva una stufetta nella camera dei genitori e il papà andava a chiamare, a piedi naturalmente, la levatrice del paese e la nonna di Neviglie, Cecilia, detta Ciìn, che veniva a cucinare e ad accudire agli altri. Era sempre una festa: tutti potevano godere delle stufe accese più del solito e dei piatti speciali della nonna. Si tirava fuori il corredo buono e si metteva nel letto della puerpera, che riceveva le visite dei vicini e dei parenti. Teresa ricorda un cuerpié, una specie di trapuntino copripiedi. Il corredo si usava anche per i battesimi e per comporre il corpo dei morti.
I più grandi prendevano in braccio i più piccoli, li cullavano, ci giocavano. Teresa aveva dieci anni quando è nato Carlo e mentre ce l’aveva in braccio è caduto nel bui, il mastello di legno, costruito da Raimondo. Maria, a quattro anni, aveva cullato la bambina nata morta fino a quando le avevano detto di smettere. Insieme ad altre tre coetanee, aveva portato la piccolissima bara fino al cimitero, e ogni bambina teneva un fascio di lillà in mano: non si compravano fiori a quel tempo ma si raccoglieva cosa c’era. La piccola si chiamava Carla e così al figlio successivo venne dato il nome di Carlo. Diciamo per inciso che in quel periodo la famiglia aveva più lavoro del solito perché quell’anno aveva preso la terra della cascina Minerda per lavorarla.
Carlo nacque nello stesso anno del cugino Giorgio, figlio di Pinotu, il fratello di Bartolomeo3 che in quel periodo era in guerra. Tornato, forse in licenza, Pinotu era andato a Prassotere, dove si trovavano la moglie e i figli, anche l’ultimo che non aveva mai visto. Il primo bambino che aveva incontrato l’aveva baciato e abbracciato come suo, e invece era Carlo.
Per fortuna Carlo ha scritto le sue memorie in un libretto, che ho citato qui e qui, ed è da questa fonte che si conoscono molte delle notizie sugli ultimi nati. Carlo e Gigi hanno fatto i lavori di campagna a casa e sono andati a lavorare da servitù più o meno come i fratelli più grandi. Hanno fatto il militare, come Giuseppe; Raimondo ha evitato l’esperienza perché era il primo maschio di una famiglia numerosa.
Solo Renzo ha avuto una vita diversa da tutti gli altri, forse perché i pochi anni che li dividono hanno segnato un cambiamento deciso dei tempi.
Carlo racconta nel suo libro della costruzione di una stalla nuova e dell’affitto di terreni per coltivare i cereali, ma anche di come, cambiando le richieste del mercato, aveva impiantato nuove vigne di moscato e comprato nuove attrezzature. È stato lui a fermarsi nella cascina di famiglia e continuare il lavoro dei campi, sempre aiutato dai fratelli nei periodi di raccolto e soprattutto nella vendemmia. Si è sposato nel 1968 con una ragazza del paese e ha avuto due figli maschi, che non hanno continuato il lavoro del padre.
È mancato nel 2015.
Gigi da piccolo era il più gracile, mangiava poco, si allungava troppo; infatti era il più alto ed è rimasto magrissimo anche dopo.
Ha iniziato a lavorare come operaio alla Miroglio di Alba facendo i turni e ad aiutare il fratello Raimondo che aveva aperto una autoscuola. Giovanissimo aveva conosciuto una ragazza che poco prima del matrimonio si era ammalata mortalmente. Un’altra tragedia che segnò tutta la famiglia e che tolse a lui il sorriso per alcuni anni. In quella occasione, come per un’altra ancora più tragica che doveva accadere qualche anno dopo, i fratelli e le sorelle sostennero il congiunto in difficoltà. Teresa racconta che andò con lui a sbaraccare l’alloggio nel quale i giovani promessi sposi non sarebbero più andati a vivere.
Nel 1972 Gigi incontrò un’altra ragazza e la sposò due anni dopo. Riprese gli studi e si diplomò perito nel 1978, poco prima della nascita della loro figlia. Arrivò poi la proposta di andare a dirigere uno stabilimento a Busca e la famiglia si trasferì nel paese vicino a Cuneo. Fu proprio a Cuneo, una sera di novembre del 1983, che Gigi andò a comprare le sigarette e a fare due passi. Un’auto guidata da ubriachi lo investì mentre stava camminando: lo ritrovarono i Carabinieri il mattino dopo, riverso nella scarpata. La moglie e la figlia si trasferirono con Maria a Mango, tutta la famiglia si strinse intorno a loro, Raimondo accompagnò la cognata ai processi. Questa cognata è rimasta a far parte della famiglia ed è spesso presente alle riunioni periodiche.
Lorenzo nacque quando la mamma Vigina aveva già 42 anni e si vergognava di avere un altro figlio a quell’età. A dire il vero rimase di nuovo incinta dopo Renzo (nel 1950, aveva più di 45 anni) ma non riuscì a portare a termine la gravidanza. In inverno, quando non c’era più tanto lavoro a casa, e comunque ci avrebbero pensato i figli e le figlie più grandi, la mamma andava a far visita alla nonna Ciìn, a Neviglie; si trovava là quando ha avuto una emorragia e il medico ha fatto un raschiamento in casa, probabilmente sul tavolo di cucina.
I due fratelli più grandi erano già andati a lavorare fuori casa, ma tornavano spesso prima di sposarsi. La festa di leva di Raimondo si era tenuta a Prassotere e in quell’occasione il fratello maggiore era andato a prendere il piccolo e l’aveva mostrato ai coscritti. Le sorelle avevano contribuito a badare a lui, fino a quando se ne sono andate anche loro.
Renzo mi racconta quanto scrivo di seguito.
I fratelli maschi erano amici in coppia: Raimondo e Beppe, Carlo e Gigi: Renzino era in qualche modo tagliato fuori, ma questo non gli dispiaceva e si trovava spesso ad andare in giro da solo. La famiglia si era trasferita a San Rocco Seno d’Elvio, prima, e a San Martino, poi. Per frequentare la quinta elementare, Renzo dovette andare in seminario a Cherasco. «Non ho fatto il militare, ma il seminario è stato peggio». Il seminario era l’unico modo per far studiare i ragazzi senza spendere molto; gli orari erano molto duri: sveglia presto, toeletta, studio e preghiera prima della colazione e della scuola. Durante il pranzo si leggeva la “censura”: chi aveva avuto la sufficienza poteva mangiare tranquillo, chi aveva preso 5, mangiava in piedi, chi aveva preso 4 andava fuori a studiare. Le camerate erano divise per età: piccolissimi (Renzo era tra questi), piccoli, mezzani e grandi.
All’inizio della prima media, Renzo insieme ad altri sono stati allontanati dal seminario perché «non avevano la vocazione». Intanto la famiglia era tornata a Mango e qui alcuni ragazzi venivano preparati per l’esame di avviamento dal maestro Sottimano, un uomo amato e stimato, per il quale i bambini erano «tutti uguali» (la maestra di San Martino, invece, odiava i figli dei mezzadri). Purtroppo nessuno superò l’esame. Renzo si iscrisse allora alla scuola professionale Inapli di Alba e per due anni visse con Raimondo e la sua famiglia. Aveva 14 anni.
Raimondo doveva sentirsi come un padre per il fratello minore; prima di sposarsi lo portava spesso con sé al paese della moglie, dove i parenti di questa lo viziavano. Durante il periodo nel quale vissero insieme, la moglie di Raimondo (mia madre) si sentiva molto responsabile per il giovane cognato, il quale non aveva voglia di studiare e marinava la scuola, falsificando la firma dei genitori per le giustificazioni. A volte i genitori venivano convocati a scuola.
Renzo era poi andato in collegio e aveva terminato il corso da congegnatore meccanico.
Nonostante i diciannove anni che dividevano Renzo dal fratello maggiore, i due si somigliavano, lo capisco bene ora che scrivo questa storia. Entrambi con uno spirito indipendente e una capacità manuale eccezionale. Entrambi hanno fatto numerose esperienze di lavoro ed hanno deciso di mettersi in proprio, con successo. Infatti Renzo aveva una carrozzeria molto conosciuta a Neive, dove era andato a vivere con la moglie, sposata nel 1971; questa ha contribuito insieme ai genitori alla realizzazione di obiettivi importanti per la famiglia. Ora l’officina ospita automobili, motociclette, juke-box che Renzo, ormai in pensione, si diverte a sistemare, dimostrando quell’ingegno che in lui e Raimondo sono particolarmente sviluppati, ma che contraddistingue tutti i fratelli e le sorelle. La capacità di fare qualsiasi lavoro, di realizzare qualsiasi opera.
«Se solo ci avessero insegnato ad essere più sicuri e più scaltri». La nonna aveva passato loro la timidezza, la mancanza di confidenza; il nonno la rettitudine a tutti i costi. Renzo dice che ha sempre avuto paura di non riuscire.
Mi domando quali mete avrebbero potuto raggiungere tutti loro in condizioni storiche e culturali diverse, ma siamo quello che siamo proprio perché siamo nati in quel particolare luogo e abbiamo vissuto quelle particolari vicende. Siamo esattamente come dobbiamo essere.
Note
1 Mia madre avrebbe voluto un fratello o una sorella, i genitori – cugini primi – avevano avuto tre bambini prima di lei che erano nati morti, oppure morti subito dopo la nascita, e lei si era “allevata” per miracolo, tenuta in una scatola circondata da ovatta e borse dell’acqua calda. Tutte le volte che nasceva un bambino in paese correva la voce: hanno portato un bambino alla tale famiglia. E mia madre pensava: perché non lo portano anche qui?
2 La zia Pinota era rimasta incinta ma aveva perso il bambino e da allora non aveva avuto altre gravidanze.
Vigina ricordava un episodio: tornando dalla campagna si era fermata in cortile ad allattare uno dei figli. La cognata le aveva detto: «certo che quelli che hanno i bambini non hanno mai niente da fare… Chila cun i so bei cavei nei (lei con i capelli neri)». Quest’ultima battuta si riferiva al fatto che Vigina non ingrigiva mentre Pinota si tingeva i capelli con ogni sorta di espediente, compreso il lucido da scarpe. I cavei nei, cioè una scarsa presenza di capelli bianchi, è una particolarità che siamo in molti ad avere in famiglia.
Ma Pinota aveva spesso anche gesti premurosi verso la cognata.
3 L’albero genealogico si trova qui. Giuseppe Pio aveva sposato Carolina Culasso, sorella di Pinota moglie di Battista: due fratelli avevano sposato due sorelle. Battista era nei Carabinieri ed aveva lasciato l’Arma per sposarsi: lei aveva 16 anni, lui 26. Sembra che abbia in seguito rimpianto la sicurezza di un lavoro statale.
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