«Col massimo rigore e il minimo ingombro»: “Il sistema periodico” di Primo Levi

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GABRIELLA MONGARDI

Un narratore che sia anche uno scienziato ha una marcia in più, e non solo perché la scienza (la chimica nel caso di Levi), gli fornisce «un patrimonio immenso di metafore […] che chi non abbia frequentato il laboratorio e la fabbrica conosce solo approssimativamente» [P. Levi, L’altrui mestiere, in Opere II, a cura di M. Belpoliti, 1997, p. 642]: è la mentalità dello scienziato, la sua curiosità e il gusto di indagare, l’amore per l’esattezza e la precisione a dare alle sue opere letterarie un sapore inconfondibile, fatto di concretezza, originalità e profondità.
Nello stesso tempo, il talento del narratore è all’opera nel selezionare, tagliare e montare storie e parole, ideare la struttura del libro, infondervi ritmo e tensione vitale grazie a incipit apparentemente dimessi, ma in realtà perentori, enigmatici e intriganti, come «Una circolare ciclostilata, di norma, si getta nel cestino senza leggerla» o «A fare il SAC (Servizio Assistenza Clienti) non  si può mandare il primo venuto», o l’incipit degli incipit: «Ci sono, nell’aria che respiriamo, i cosiddetti gas inerti», che si riferisce apertamente all’intera colonna di destra della tavola di Mendeleev.
Con un guizzo fantastico davvero geniale, Levi prende infatti il Sistema Periodico di Mendeleev, che tutti gli studenti di chimica conoscono, come fonte di ispirazione e insieme “casellario” in cui incastrare i suoi racconti, perché «ogni elemento dice qualcosa a qualcuno (a ciascuno una cosa diversa)», e addirittura lo definisce «una poesia, più alta e più solenne di tutte le poesie digerite in liceo: a pensarci bene, aveva perfino le rime!». Ma è la “legge” della scrittura di Levi, che dà il titolo a questa recensione (“col massimo rigore e il minimo ingombro”), a rendere questo libro “essenziale, meravigliosamente puro”, come voleva Saul Bellow: perché per Levi lo scrivere è «un’opera di chimico che pesa e divide, misura e giudica su prove certe, e s’industria di rispondere ai perché».
Ogni racconto ruota intorno all’elemento da cui prende il titolo, che è materialmente presente in esso: solo nel primo racconto, Argon, il gas nobile e inerte è esclusivamente metafora dell’atteggiamento degli antenati, che «inerti erano senza dubbio nel loro intimo, portati alla speculazione disinteressata, al discorso arguto, alla discussione elegante, sofistica e gratuita»; ma il narratore-scienziato, prima di parlare dei suoi avi, arrivati in Piemonte verso il 1500 dalla Spagna attraverso la Provenza, dedica una pagina a spiegare quali sono e che caratteristiche hanno i gas rari…
I capitoli successivi sono disposti in ordine cronologico, quasi a comporre un’autobiografia o il romanzo di formazione di un chimico, a partire dalla passione adolescente per la chimica, un “grimaldello” per forzare le porte della Natura e carpire i segreti della Materia (Idrogeno, il racconto del primo esperimento casalingo con l’amico Enrico), attraverso gli anni dell’Università, con i laboratori dello zinco e dell’Analisi Qualitativa, il rapporto con i professori e l’amicizia con Sandro (Zinco, Ferro e lo stupendo Potassio) fino alla laurea, al primo lavoro in una cava di amianto (Nichel) e al secondo lavoro a Milano (Fosforo). In questi anni lo studio, le aule dell’Università sembrano essere un riparo dalla storia che tumultuava al di fuori: «Fuori dalle mura dell’Istituto Chimico era notte, la notte dell’Europa: Chamberlain era ritornato giocato da Monaco, Hitler era entrato a Praga senza sparare un colpo…»; «la chimica e la fisica di cui ci nutrivamo, oltre che alimenti di per sé vitali, erano l’antidoto al fascismo […] perché erano chiare e distinte e ad ogni passo verificabili, e non tessute di menzogne e di vanità, come la radio e i giornali».
Ma dopo l’8 settembre 1943 non c’è più riparo, s’impone una scelta: e per il partigiano Levi catturato dai fascisti l’oro disperso nelle acque della Dora Baltea – di cui va in cerca il suo compagno di cella – diviene il simbolo della libertà perduta (Oro), mentre le sbarre di cerio trovate nel laboratorio tedesco della Buna rappresentano, per lui e il suo amico Alberto, la possibilità di non morire di fame in Lager, di assicurarsi due mesi di vita in più: ne ricavano infatti la pietra focaia per gli accendini, che scambiano con il pane (Cerio). L’esperienza del Lager ritorna in Vanadio, quando il lavoro in una fabbrica di vernici lo mette in contatto proprio con l’ignaro ingegnere tedesco che aveva già incontrato vent’anni prima nel laboratorio della Buna, dalla parte dei carnefici… Ad altre, meno drammatiche esperienze di lavoro sono dedicati i capitoli intitolati a Arsenico, Azoto, Stagno, Uranio e all’Argento, in cui, alla cena per i 25 anni di laurea, le nozze d’argento con la chimica, un collega racconta dei suoi problemi con il bromuro d’argento.
L’autobiografismo prevalente all’inizio si stempera, si diluisce man mano che il libro procede: così, oltre ai racconti più marcatamente autobiografici ne troviamo due “fantastici”, Piombo e Mercurio, e altri “eterodiegetici”, nel senso che hanno protagonisti diversi dall’io narrante, Zolfo e Titanio. Del resto, come l’autore stesso sostiene, Il sistema periodico non è certo un trattato di chimica, neppure un’autobiografia, ma la storia di un mestiere poco conosciuto, quello dei “trasmutatori di materia”, un mestiere «che è poi un caso particolare, una versione più strenua del mestiere di vivere». “Più strenua” forse perché ci vuole una forza d’animo particolare per confrontarsi con la Materia, con la Natura a distanza così ravvicinata…
Il libro si chiude con Carbonio, ossia la storia di un atomo di carbonio, da quando, in forma di carbonato di calcio, era pietra calcarea a quando, passato nel forno a calce, diventa anidride carbonica, viene disciolto nell’acqua, ritorna nell’aria e infine entra nell’avventura organica: passa vicino a una foglia e grazie alla fotosintesi clorofilliana diventa parte di una molecola di glucosio per poi tornare anidride carbonica – una metamorfosi che si ripete ogni 200 anni, grazie alla fotosintesi, per tutti gli atomi di carbonio che non siano congelati in materiali stabili come il calcare o il diamante o il carbon fossile.
È un racconto per eccellenza scientifico, e profondamente “vero” anche se del tutto arbitrario, perché «il numero degli atomi è tanto grande che se ne troverebbe sempre uno la cui storia coincida con una qualsiasi storia inventata a capriccio». È un racconto che si conclude con una dichiarazione di impotenza e di umiltà, quella di chi «sa fin dall’inizio che il suo tema è disperato, i mezzi fievoli, e il mestiere di rivestire i fatti con parole fallimentare per sua profonda essenza»: il “trasmutatore di parole” non si sente all’altezza del “trasmutatore di materia”. Viene in mente il Dante del Paradiso, che al culmine del suo viaggio oltremondano e della sua scrittura si riconosce vinto «come a l’ultimo suo ciascun artista» e depone la penna – come lo scrittore-scienziato Levi, in cui nel dissidio tra le due anime è lo scienziato a prevalere, è la sua lingua di numeri, simboli e formule: la lingua universale con cui la Materia parla agli uomini dalla nuova “tavola della legge”, la tavola del Sistema Periodico degli Elementi.