ENZA SIRIANNI
Sono trascorsi cento anni dalla Conferenza di pace di Parigi del 1919, in cui si ridefinirono gli assetti geopolitici dell’Europa post-bellica. Lo stesso numero di anni sono passati dall’impresa dannunziana dell’occupazione di Fiume. E quest’anno, si è celebrato di nuovo il Giorno del Ricordo, istituito con la legge 30 marzo 2004 n° 92. Data il 10 febbraio, in cui si rinfocolano polemiche tra i negazionisti delle foibe e i revisionisti, con dispute accese che si spengono nello spazio di pochi giorni. Poi non se ne parla più, almeno presso il grande pubblico che oggi usa manifestare le proprie opinioni attraverso i social. Tutto ricade nell’oblio. Si assopisce la memoria e si sedano temporaneamente i rancori, non rendendo un servizio alla verità storica né attuando percorsi di “perdono” che non significano assoluzioni ma scioglimento di nodi, come suggerisce Paul Ricoeur nel saggio «Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato» (Il Mulino, Bologna 2004).
Dosare la memoria è indispensabile per guarirla dalle sue patologie, moltiplicative o sottrattive, per prendere le distanze dal “passato che non vuol passare”, troppo legato al presente, e per permettere che avvenga l’aggancio - una sorta di docking tra navicella spaziale e stazione orbitante in linguaggio scientifico - tra la storia ed essa. In questo caso si attua il mutualismo tra fedeltà della memoria e verità storica.
Operazione auspicabile per ogni evento che dimori “ingombrante” nell’anima collettiva, quando ci si interroga sull’insensatezza dell’umano agire, sulle nostre feroci contrapposizioni, sulla pervicacia con cui tendiamo a sopraffarci, sull’incapacità di trarre insegnamenti dall’esperienza, a livello individuale e a livello generale.
Una riflessione sul centenario da Fiume e la questione dei confini orientali, per capire cosa avvenne o non accadde, in questa Italia minacciata dalla frantumazione in autonomie regionali, in cui rischiano di andare a pezzi la coesione nazionale, dopo le sofferte conquiste per l’unità, e tutto il sistema paese, giunge opportuna, non solo per le ragioni sinteticamente già esposte, ma per la lezione che ancora una volta la grande maestra inascoltata, la Storia, ci dona. Qui si offre una sintesi degli eventi che hanno riguardato Fiume e i confini adriatici rinviando a questo link: Dai confini orientali, cento anni di storia.
Nell’articolo che segue, invece, un focus sulla “vittoria mutilata” e l’occupazione della città quarnerina.
«La pace improvvisa mi dà uno scontento che non so vincere», così scriveva D’Annunzio al tenente di vascello Pacchiarotti nei giorni precedenti al 4 novembre del 1918, quando uscì il bollettino del generale Diaz in cui si annunciava la fine della guerra con la vittoria dell’Italia. Ma già ai primi di ottobre, il Vate avvertiva “fetor di pace”, visto che la Germania era in trattative con il presidente Wilson per i negoziati, essendosi ormai delineate le sorti del conflitto. Il poeta soldato, infatti, costretto a casa per una infermità transitoria, avrebbe dovuto scrivere un articolo per commemorare Caporetto. Vergò, invece, un’invettiva contro i patteggiamenti diplomatici che gli apparivano un pericoloso allontanamento dai compensi promessi all’Italia con il Patto di Londra. Il Corriere, il 24 ottobre, pubblicava il suo ammonimento con il titolo «Vittoria nostra, non sarai mutilata». A gennaio del 1919 iniziarono a Parigi i lavori per la Conferenza di pace. D’Annunzio si affrettò, sempre più preoccupato degli esiti che le trattative avrebbero avuto per l’Italia, a pubblicare sul «Popolo d’Italia» diretto da Benito Mussolini, la Lettera ai Dalmati. Il Vate attaccava duramente le potenze vincitrici, rivolgendosi con toni di pathos alle popolazioni italiane della Dalmazia, rievocandone i martiri e la fratellanza con Venezia.
Lo scritto ebbe un impatto notevole nell’opinione pubblica italiana e francese, visto che fu tradotto e diffuso rapidamente in Francia. Dalla sua lettura emerge che le rivendicazioni erano estese a tutta la Dalmazia e non alla sola città di Fiume.
Per comprendere l’agitazione di D’Annunzio, fomentata da un Mussolini ondivago, prima in una posizione moderata per la spartizione della Dalmazia tra Italia e Serbia, poi oltranzista della “vittoria mutilata” allorché si seppe che Fiume era stata esclusa dai compensi italiani sul confine orientale, occorre guardare non solo ai termini esatti del Patto di Londra, ma anche al mutato clima determinatosi per una serie di fattori, sia nel corso della guerra che alla sua conclusione.
Riguardo al negoziato con l’Italia, i nostri delegati alla plenaria di Parigi, sottovalutarono il peso del “wilsonismo” scaturito fondamentalmente dai famosi 14 punti, nonché l’influenza della popolarità del presidente americano in Europa e in Italia. Una popolarità indubbiamente condizionante nelle mosse che avrebbero dovuto giocare Orlando e Sonnino per ampliare le promesse del Patto di Londra più Fiume. Due erano gli assi portanti del programma dei ministri italiani nelle trattative di pace: 1) la concentrazione dell’Italia sulla questione dei confini orientali, a discapito di qualsiasi altro problema; 2) la contraddittoria pretesa, in dispregio del principio di nazionalità, di ottenere terre non abitate da popolazioni italiane , in quanto assicurateci dal Trattato di Londra, in base al quale l’Italia era entrata in guerra al fianco della Francia, dell’Inghilterra, della Russia; e, contemporaneamente, ottenere Fiume , che nel Patto non ci era stata assegnata, invocando il principio di nazionalità per la maggioranza di abitanti di etnia italiana nella città.
Le posizioni di Wilson, Lloyd George e Clemenceau e quelle di Orlando e Sonnino furono destinate, di fronte ad interessi specifici e rivendicazioni contraddittorie, ad incagliarsi.Il braccio di forza tra un’Italia che non intendeva rinunciare a Fiume e gli altri vincitori impuntati a non cedere alla richiesta, si protrasse fino alla rottura con il ritiro temporaneo della nostra delegazione alla conferenza il 24 aprile del ’19.
In Italia, i nostri ministri furono accolti da grandi manifestazioni di solidarietà, ottenendo dalla Camera l’approvazione della loro condotta nel negoziato a Parigi con una ampia maggioranza. D’Annunzio espresse subito il suo entusiasmo e il suo l’orgoglio di essere italiano. Il 25 aprile, nel suo stile che non ammetteva indugi, il poeta teneva un discorso a Piazza San Marco, a Venezia, in cui invitava gli italiani alle armi per difendere Fiume. C’erano tutti i presupposti per l’impresa fiumana che avrebbe avuto inizio a settembre , dopo la firma del trattato di Saint-Germain il 10 dello stesso mese, con la conferma di una Fiume croata mentre si manteneva vaghezza sui confini della Jugoslavia da definire.
La tensione inevitabilmente salì con lo scoppio di incidenti tra truppe francesi e soldati italiani in città. Si alzarono insistenti le voci di ardimentosi ad accorrere a Fiume per difenderne l’italianità. Intanto, già da due mesi, Host Venturi aveva formato la legione dei volontari fiumani, provenienti da ogni parte del paese.
La mattina del 12 settembre, alle 11:45, D’Annunzio entrò a Fiume, sull’automobile guidata dall’autista Basso, con il tenente Riccardo Frassetto, Guido Keller e l’attendente Italo Rossignoli. Alle loro spalle seguivano 26 autocarri, tutti i granatieri di stanza a Ronchi, 4 autoblinde di bersaglieri,un numero imprecisato di Arditi. Nessuno osò fermare quella colonna di «impavidi». La scena assunse i toni del melodramma quando il generale Pittaluga, comandante delle forze alleate di Fiume, si presentò allo sbarramento di Cantrida. Due uomini vis à vis: l’uno a difesa della ragione di stato, l’altro del cuore. Il poeta, alle intimazioni del generale di non osare procedere di un passo, fieramente gli porse il petto coperto di medaglie, tra cui la medaglia d’oro al valor militare con il nastrino azzurro esortandolo a sparargli. Il generale, per evitare forse una strage o per motivazioni sentimentali, non lo fece.
Fiume, nella tarda mattinata del 12 settembre, apparve a D’Annunzio come una “sposa vestita di bianco”. Le campane suonarono a festa e una folla di fiumani si riversò per le strade ad acclamare i liberatori.
Iniziò così il periodo della Reggenza del Carnaro che ebbe la durata di poco più di un anno.
«Fra il settembre 1919 e il dicembre 1920 si dispiegano […] mesi di inebriante pienezza di vita durante i quali la piccola città adriatica viene strappata alla sua perifericità e vissuta e presentata – da pellegrini dell’arte, della letteratura e della politica, accorsi non solo dall’Italia, – come il luogo di tutte le possibilità: il centro del mondo, la “città olocausta” – nel linguaggio immaginifico di D’Annunzio – alla cui fiamma si alimentano il pensiero creativo e i “nuovi bisogni” – individuali e collettivi, nazionali e di genere; la “piazza universale” di tutti i progetti e di tutti i sogni». (Mario Isnenghi, L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai nostri giorni, il Mulino, Bologna 2004)
Il 23 dicembre l’esercito italiano lanciò un ultimatum a D’Annunzio che si rifiutava di riconoscere il Trattato di Rapallo: entro il giorno successivo il governatore e i suoi uomini avrebbero dovuto evacuare la città. Giolitti, di nuovo Primo Ministro, succeduto a Francesco Saverio Nitti, prima di giungere allo sgombero armato, tentò, attraverso dissuasioni varie, di fare desistere il poeta soldato dall’occupazione.
Ci furono anche dimostrazioni di muscoli come il blocco di Fiume ai primi di dicembre da parte del generale Caviglia e nel contempo, colloqui per trovare un accordo. Tutto inutile.
Si giunse, quindi, al Natale di sangue. In effetti, il 25 ci fu una tregua. I combattimenti, con le prime vittime, si svolsero la vigilia, nei pressi di Cantrida. D’Annunzio lanciò appelli accorati, proclami ai triestini senza successo. L’azione militare della marina militare italiana da una parte e di truppe di terra dall’altra, riprese il 26. I bombardamenti furono incessanti senza risparmiare i civili. Dopo alcune ore, in una riunione plenaria del Consiglio della Reggenza, D’annunzio presentò le sue dimissioni, rassegnando ogni potere.
Il sipario su Fiume per il momento si chiudeva. Il bilancio dei morti era di 22 legionari e cinque civili da parte fiumana, di 25 militari e due civili, da parte governativa.
Il Vate lasciò definitivamente la città il 18 gennaio 1921, diretto a Gardone dove avrebbe preso alloggio, grazie all’aiuto dell’editore Treves, nella Villa Cargnacco destinata a diventare, con le elargizioni di Mussolini, la dimora del Vittoriale in cui si sarebbe spento il 1 marzo 1938.