SILVIA ROSA
Un caffè al volo. La barba da radere, ma non importa, non c’è tempo. Il viaggio è lungo. Però quella rompicoglioni di sua moglie mica lo capisce. Sono le cinque di un venerdì mattina di merda, come tanti altri del resto. Ha dormito sei ore per finire di caricare il camion la sera prima e adesso vorrebbe uscire di casa e via, senza sentire quella voce gracchiante nei timpani ripetere le solite cazzate.
“E basta dài, Mimma, fammi andare. C’ho più di mille chilometri di strada da macinare e voglio essere a Torino per le undici, ché tuo cugino Pietro s’incazza se gli piombo a casa troppo tardi, mi rompe con la storia che gli sveglio i bambini. Tiene basso il volume del televisore e parla piano, roba da matti. Vediamo se uno deve farsi comandare la vita dai figli… Torna a letto, che me ne vado.”
Pensare che da ragazza era stata bella, sempre sorridente, con lo sguardo malizioso e i fianchi snelli. E adesso. Adesso niente. È la madre dei suoi figli. Arruffata, dentro una camicia da notte che sfiora il pavimento. “Antonio salutami Silvana. E chiedi a Pietro per ‘sto fatto del terreno di Sava, non ti dimenticare”. “Sì. Sì. Ciao. Ti chiamo io quando arrivo”. La porta scricchiola, poi sbatte un poco.
Gli oleandri che spaccano in due l’Adriatica sono un muretto verde e rosa che trema di vento. Antonio è nervoso. “Ma guarda ‘sto stronzo davanti se si muove!” Un colpo di clacson e un sorpasso. Ha voglia di una sigaretta. Pescara è vicina e RadioNorba gli spettina il sonno con il successo del momento.
Nello specchio l’immagine riflessa è abbagliante. Chi è la bambolina in abito da sposa avorio, ricamato tutto a mano, un capolavoro di sartoria? Ah, sì. È lei. Ultimamente le succede spesso di non riconoscersi.
“Elena sta’ ferma che devo vedere se il velo cade bene. Ora girati. No, no, di fianco. Perfetto. Non perché l’ho fatto io, ma questo vestito è magnifico. Il migliore che ho cucito in trent’anni. E tu sei bellissima. Figlia mia, che gioia! Se potesse vederti tuo padre”. Scoppia a piangere. Immediatamente si asciuga gli occhi col fazzoletto che conserva nel grembiule. Le lacrime sembrano cadere precise e ordinate, dritte dritte. E sono in numero dispari. Mai una di più o di meno. Bussa la vicina e la mamma di Elena si soffia il naso. “Signora Marengo, lei lo sa. Vedova con una figlia piccola, è stata dura. Ma io ho lavorato sodo e l’ho fatta studiare, mia figlia, perché mi sono detta che mai doveva fare la fine mia, rompersi la schiena a lavare scale e pavimenti, a pulire le case degli altri, perdere gli occhi a cucire. L’ho mandata all’Università e l’ho fatta diventare farmacista, così la chiamano Dottoressa, e c’ha pure il camice bianco. E poi il miracolo, Signora Marengo. Ho pregato tanto che incontrasse l’uomo giusto, che oggi come oggi ci vuole niente, arriva un mascalzone e ti rovina anni di sacrifici. E la mia bambina è una brava ragazza, tranquilla e seria. Sempre a casa a studiare. Si è laureata col massimo, lo sa, vero? Subito, me l’hanno assunta. E poi è una gran bella figliola e non lo dico perché sono la mamma. Così il suo titolare, un uomo di mondo elegante e fine, s’è innamorato di lei e l’ha chiesta in sposa. Ah, e i genitori di lui, vedesse che villetta hanno, in collina, col giardino. Che persone a modo, dei veri signori.”
Elena si lascia depositare sulla guancia un bacio umidiccio dalla signora Marengo: “Auguri! Poi domenica vengo a salutarti ancora, ne’, prima che vai in chiesa”. Le dispiace che la mamma non l’abbia invitata al matrimonio. Ma dice che è una cerimonia intima. Talmente intima che nemmeno i parenti ha voluto. “È perché abitano troppo distante e poi sono anni che non ci si frequenta”. “Certo, come no”. Elena vorrebbe che all’altare l’accompagnasse il fratello di suo padre, che è rimasto in Calabria. Non il medico di famiglia, come ha stabilito sua madre. Cioè un estraneo. “Eh, no, questo non è vero, Elena! Il Dottor Barbera t’ha vista crescere!”. “Sì, mamma. Hai ragione tu.”
Le previsioni per il fine settimana danno sole e temperature primaverili.
Ancona sud. Al prossimo autogrill panino e caffé. Anzi, un piatto di pasta. Ad Antonio non va di mangiare da solo. E poi gli spaghetti sono scotti. Gli viene in mente la mensa dell’Italsider. Anche se da un pezzo gli hanno cambiato il nome è sempre lo stesso posto di merda. Ci soffia un vento di polvere rossa, l’alito della morte. Era un ragazzino con la testa calda, allora. Ma non si è mai pentito di aver lasciato quel lavoro. Meglio la campagna e il camion. Ora ne vede morire tanti di suoi colleghi, con qualche cazzo di tumore.
“Antonio, la terra ti succhia il sangue”, gli diceva sempre suo padre. “Ma quando mai. Tra i filari della vigna almeno vedi il cielo. E non devi abbassare la testa con i superiori”.
Una sigaretta e un’ora di sonno, prima di ripartire. Traffico intenso in direzione Bologna.
Sono già le due. Elena deve ancora ritirare le bomboniere. Un dono della sua premurosa suocera. “Cara, non preoccuparti, ci penso io. Tu stai tranquilla. Ti fidi, vero, del gusto di questa vecchia signora?” Così le ha scelte lei. La madre di Elena felicissima: “figlia mia, che finezza. Un gioiellino. Un pezzo unico. E i confetti…tua suocera ha richiesto quelli della migliore qualità. Mandorle pregiatissime. Ah, che donna di classe!”
Ancora un salto al negozio di fiori, per il bouquet. “A me piacerebbero le margherite…” “Ma signorina, sono poco adatte!” Così la fioraia ha decretato: “Calle bianche. Intramontabili e di grande effetto”. La mamma della sposa è d’accordo.
Il pomeriggio rotola, rimbalzando di ora in ora. E poi è sera, il cielo scurisce d’un tratto.
Le amiche di Elena hanno prenotato la cena di addio al nubilato in un Ristorante Messicano e ora la aspettano, sedute al tavolo, euforiche. “Arriva la festeggiata. Auguriiiiii!!!!” Una sfilata di tacos, fagioli, vari intrugli piccanti, schiamazzi e cori, accompagna degnamente la fine di questa giornata. Vuota.
“…Porca miseria, Pietro, sono in tangenziale! Eh lo so che è quasi mezzanotte, ma tra una fermata e l’altra per pisciare e fare il pieno, se n’è andata un’altra ora. No, no, dille a Silvana che non mangio. Sì, no… ho mangiato in autostrada. Sì, vabbé, non citofono, ti faccio uno squillo quando sto sotto casa, al portone. Ciao.” Antonio mastica l’ultimo fastidioso pensiero. “Era meglio quando non ce l’avevo il cellulare. Così non mi rompeva le palle nessuno. Mo’, invece, non mi danno tregua. ‘E dove sei e cosa fai, ma come mai’…ma fatevi un po’ i cazzi i vostri!”. Cerca una sigaretta. Pacchetto finito.
Uscita di Corso Giulio Cesare. Imbocca Corso Romania, poi Lungostura Lazio, il curvone, Viale Agudio. Rallenta per guardare le puttane in minigonna. Al piazzale, con una decina di camper posteggiati vicini, spegne il motore e scende. Poco più avanti c’è una tabaccheria con il distributore automatico.
Il tempo è un gioco di lancette che si rincorrono in cerchio. Giorni e notti di minuti ad andatura irregolare. Un’intermittenza di accelerazioni improvvise e insostenibile lentezza. Oggi, per esempio, a Elena è sembrato volare. È mezzanotte e un quarto. È già sabato.
Saluta le amiche fuori dal Messicano. Si incammina verso la macchina. Ma non ha voglia di ritornare a casa. E tira dritto, a piedi, lungo Corso Casale. Poi svolta a sinistra. Ha la nausea. Sarà per via delle empanadas ai peperoni. O di tutti i ‘no’ fermi in gola, che vorrebbe vomitare. L’aria di maggio è frizzante. Si sente l’odore acre di legna bruciata, come giù al paese, quando nelle sere d’estate suo padre la portava dai nonni in bici. Ma forse è solo la sua immaginazione. In fondo di suo padre non le resta che questo. Una fantasia di ricordi sbiaditi, che non condivide con nessuno.
In Viale Agudio Elena decide di fermarsi. Una piccola sosta per tirare il fiato. Una pausa ritagliata nelle pieghe di un secondo. Basta girare in tondo su se stessa, come una marionetta. Adesso basta. Dall’altro lato della strada vede una donna passeggiare su e giù. I lampioni illuminano di un giallo sintetico l’asfalto. Niente coda metallica al semaforo.
Con la sigaretta in bocca Antonio chiama la moglie. “Sono arrivato, tutto bene. Buonanotte.”
È quasi al camion quando si accorge di una ragazza, immobile sul marciapiede, minuta e delicata, con una cascata di capelli nerissimi. Non gli capita mai di andare a puttane. È stanco del viaggio e Pietro lo aspetta. Però la brunetta merita davvero. È molto più giovane di lui. Bel culetto. Per niente volgare, non sembra nemmeno una troia.
Le si avvicina. Profuma di fiori. “Quanto vuoi?”
Elena osserva l’uomo. Alto, con un po’di pancia, il viso segnato da rughe profonde intorno alla bocca e sulla fronte. Ha i capelli ricci, bruciati dal sole, e gli occhi di un celeste trasparente. Come i suoi. Quarantacinque, cinquant’anni al massimo, portati molto male. Un’espressione severa e imbronciata. Ma la voce è profonda, calda.
“Quaranta euro.”
“Vieni. Sono col camion. Sta là”.
Nella cabina di guida ci sono due spaziosi sedili e una cuccetta. Tante lucine. Elena ha la sensazione di essere su una giostra. Dovrebbe avere paura, dal momento che si trova con un perfetto sconosciuto, che la crede una prostituta. Invece pensa che quaranta euro è il prezzo esatto di una bomboniera scelta dalla suocera. E che di lui si può fidare, chiunque sia.
La barba dell’uomo la graffia e le sue mani sono ruvide. Però ha un odore così familiare. Ora ha voglia di baciarlo, a lungo.
Antonio osserva le labbra della ragazza, leggermente schiuse. Il respiro è regolare. Dorme. Ogni tanto si muove appena, tra le sue braccia. “Roba da matti…cioè…non è mica normale…” Da quanto tempo non faceva l’amore così, nemmeno se lo ricorda. Intensamente. Si sente leggero, come quando da giovane, dopo la campagna, sudato e stanco, prendeva la rincorsa e si tuffava nell’acqua salata e fredda del suo mare, con la testa tutta dentro, senza peso, svuotata. Silenzio e poi il rumore delle onde. Si sdraiava al sole ad asciugarsi e gli venivano i brividi.
Adesso al mare non ci va più.
Un sospiro e lei si sveglia. Apre gli occhi. Due schegge di cielo lo attraversano e gli si fermano nello stomaco.
Elena tiene la banconota da cinquanta euro in mano. Prende una penna dalla borsetta e ci scrive sopra il suo indirizzo. “Al posto dei soldi me lo faresti un favore? Verresti sotto casa mia domenica mattina col camion?”
“Senti…no, cioè…che è ‘sta storia?!…Io non voglio casini…poi domenica lavoro, vengono i clienti a comprarmi la roba che porto dal paese…prendi ‘sti soldi e tieni il resto, dài…”
“Io abito qui, comunque. Ti aspetto alle dieci.”
“Non ci vengo, ti ho detto! Oh?…mi ascolti?…”
Elena corre via. Da piccola correva sempre di felicità.
Antonio pensa che si è fatto vecchio e si sta rincoglionendo. Gli viene da piangere e non sa perché.
La Rolls Royce nera del Sessanta, gentilmente noleggiata dal suocero, ha il motore acceso. Il Dottor Barbera è già seduto dietro e guarda nel finestrino, sistemandosi di tanto in tanto gli occhiali sul naso troppo corto. La mamma di Elena, rossa in volto, continua a ripetere “Niente, niente…l’emozione…Elena? Capita, capita…mia figlia è emozionata…ma ora le passa…vero Elena? Dobbiamo andare, si fa tardi…”
Elena è immobile. Sul marciapiede. Intorno a lei qualche vicino di casa, le amiche del cuore, i curiosi di passaggio assiepati ad ammirare la sposa. Le dieci e venti. Lui non c’è. Ormai è inutile aspettarlo. O forse no. Serra le palpebre. “Conto fino a cento. Se nel frattempo non arriva, allora vado. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette…”
“Elena, ti senti bene? Elena così mi fai spaventare…” Ma la voce di sua madre le sfiora l’orecchio e si sfalda, debole.
Antonio sul camion si ripete che sta facendo una grandissima stronzata. Però accelera. S’è fatto spiegare da Pietro come si arriva in Corso Belgio. “E che ci devi andare a fare?” “Cose di lavoro”, ha sputato secco, e ha rimesso subito al suo posto quello scimunito del cugino.
Da lontano vede un gruppetto di gente intorno a una sposa. Poi la sposa si fa largo e agita il braccio. “Merda. Non è possibile”.
“Veramente io sarei già sposato…”
Elena ride forte. Ha ordinato alla mamma, incredula, di salire in macchina e aspettarla davanti alla chiesa. Lo guarda attraverso la nebbia del velo: “devo andare alla Gran Madre. Da qui è vicino. Mi accompagni per favore? Ti faccio strada io.”
Antonio non sa che cosa dire. E infatti non dice nulla. Non una parola per tutto il tragitto. Che gli sembra interminabile. In cima a un tappeto di gradini si staglia netta la sagoma rotonda, giallo ocra della chiesa.
“Io mi chiamo Elena, come mia nonna, e tu?”
“Antonio. Allora, cioè…tanti auguri.”
“Grazie.”
Antonio aiuta Elena a scendere dal camion. Sembra quasi un abbraccio. O un addio.
Intanto gli invitati guardano a bocca aperta l’ingombrante mezzo di locomozione, che si para sbuffando di fronte a loro. Un Eurotec bianco, tre assi, del Novantatre, importato dalla Francia, di seconda mano. Duecentosessanta quintali di portata a pieno carico.
Ma tant’è: la sposa arriva proprio da lì. Roba da matti.