GABRIELLA MONGARDI
“Raccontare le guerre” era il titolo della seconda sessione del Convegno organizzato a Cuneo dalla Fondazione Nuto Revelli in occasione del centenario della nascita dello scrittore, che tutti i relatori avevano conosciuto di persona. Particolarmente coinvolti quindi, e coinvolgenti, i loro interventi.
Ha aperto la sessione il prof. Bonanate dell’Università di Torino, parlando di quello che lui considera il libro più importante di Nuto, Mai tardi (Einaudi, Torino 1967), diario della guerra in Russia. Più che un diario, una tragedia classica, con valore universale: il resoconto di una “discesa agli inferi” attraverso gli “stadi” della guerra tradizionale, della drammatica ritirata, del rovesciamento e tradimento delle alleanze, della guerra civile. Il sottotenente Revelli, uscito dall’Accademia Militare di Modena, capisce in fretta che “guerra” significa “uccidere per non essere ucciso”, e che è una sconfitta per tutti, anche per i vincitori; che “non è la nazione che decide come sono gli esseri umani” e che contro certi comportamenti bestiali bisogna ribellarsi. E bisogna “ricordare e raccontare”: per questo il soldato Nuto diventa scrittore.
Il secondo relatore, Corrado Stajano, continua il discorso parlando dell’8 settembre 1943 – la data che Nuto definiva “la mia seconda sconfitta”, ma che invece ha segnato la sua rinascita morale, la liberazione dal suo fascismo “fatto di ignoranza e presunzione”. Nuto assiste esterrefatto alla dissoluzione dell’esercito italiano, in particolare allo sfascio della Quarta Armata che rientra dal sud della Francia, e all’eccidio di Boves, cittadina a pochi chilometri da Cuneo, il 19 settembre: la prima risposta dei tedeschi al “tradimento” italiano. A ottobre è in montagna per ribellarsi, e in tal modo riscattarsi, e trova in Dante Livio Bianco il mentore che lo illumina dal punto di vista politico e ideologico, spiegandogli le ragioni morali e civili dell’antifascismo.
L’esperienza di Revelli comandante partigiano è magistralmente illustrata da Chiara Colombini, dell’Istituto Storico della Resistenza di Torino, per la quale le pagine di La guerra dei poveri (Einaudi, Torino 1962) documentano il crescere dal basso della Resistenza, per “prove ed errori”, e la formazione delle bande partigiane fra mille problemi: l’impostazione egalitaria e democratica o la militarizzazione, gli scontri armati, l’uso della violenza, i rapporti con le altre bande e la popolazione civile, la giustizia partigiana… Come testimone, l’onestà intellettuale di Nuto rasenta la brutalità: lui ha fatto i conti con la violenza inevitabile in quel momento storico e se n’è assunto la responsabilità fino in fondo, rifiutando però sempre la dimensione della guerra fine a se stessa, come vendetta privata.
La scrittrice Laura Pariani ricorda il suo incontro con Nuto Revelli a Cuneo nel 2003, per un’intervista sul tema del raccontare la guerra; per lei si tratta di narrare storie di altri, Nuto invece scrive la sua “verità”, per mantenerla viva.
Vengono dalle Università tedesche rispettivamente di Brema e Colonia i due successivi relatori, Cristoph Schmink Gustavus e Carlo Gentile: il primo, giurista di formazione, armato di registratore, microfono, stivali e bastone, ha raccolto testimonianze sulle stragi compiute dall’esercito tedesco in Grecia, e in Italia ha conosciuto Nuto Revelli e Lidia Rolfi, aiutando Nuto nella sua indagine sul Disperso di Marburg (Einaudi, Torino 1994), che il secondo rivela essere Rudolph Knaut, un giovane ufficiale tedesco morto in un’imboscata partigiana vicino alla caserma di San Rocco a Cuneo. Il prof. Gentile deve ai libri di Nuto Revelli la sua Weltanschauung e la sua decisione di fare ricerca sui crimini di guerra tedeschi in Italia, distinguendo l’operato delle SS da quello della Wehrmacht e di singoli soldati. In generale i soldati tedeschi ebbero un comportamento più brutalmente violento sul fronte orientale, mentre su quello occidentale e in Africa furono più moderati, non differenziandosi in questo da altri eserciti di occupazione; anche in Italia i militari furono moderatamente violenti, tranne che coi partigiani. La violenza militare è testimoniata nelle lettere e nei diari dei soldati, ma i responsabili non la confessano, rimuovono la memoria e la sostituiscono con una falsa memoria “vittimistica”, il ricordo dei patimenti subiti. Solo con il confronto delle memorie è possibile superare stereotipi e arroccamenti sulle proprie posizioni, per pervenire a una memoria il più possibile condivisa.
La sintesi conclusiva della giornata è affidata al prof. De Luna dell’Università di Torino, che sottolinea l’importanza della narrazione resistenziale, in quanto il narrare è l’unico antidoto alla deriva revisionistica che dagli anni ’90 trionfa in Italia. In questa prospettiva, Nuto Revelli va ricollegato non solo ai suoi amici Primo Levi e Mario Rigoni Stern, ma anche ad altri scrittori di area azionista, come Carlo Levi, Luigi Meneghello, Beppe Fenoglio…, per cui il partigianato ha rappresentato l’apogeo esistenziale, la vetta biografica, come per Revelli. Specifiche di Nuto sono la dimensione corale e la pietas della narrazione, che lo rendono un maestro sempre più attuale.