Il primo romanzo di un docente universitario, abituato a scrivere esclusivamente testi specialistici, suscita sempre sorpresa, ma in questo caso è una sorpresa piacevolissima e gradita, perché un libro come questo mancava, nel panorama della letteratura “regionale” italiana – nella fattispecie piemontese – e la mancanza è stata colmata nel modo migliore.
“Romanzo piemontese” è infatti il sottotitolo del romanzo del professor Stefano Sicardi Lo strument, che fin dal titolo rivela la sua peculiarità linguistica: quella di essere scritto in un italiano colto e ricco, a tratti venato di lirismo, in cui però sono intercalati regionalismi ed espressioni piemontesi (sempre tradotte in italiano, nel testo o in nota), non tanto per “verismo”, quanto per amore di quella “lingua dei padri” che è lingua delle radici.
Le due citazioni in esergo, rispettivamente di Tolkien e De Martino («Le radici profonde non gelano. Solo chi ha un villaggio nella memoria può avere una esperienza cosmopolita») indicano subito le coordinate in cui collocare questo “elogio della piemontesità”: non chiusura gretta e aprioristica al nuovo, al diverso, al lontano, ma riconoscimento dei valori e del valore delle tradizioni e della catena delle generazioni che ci hanno fatto quello che siamo.
In questo romanzo l’autore molto opportunamente evita l’uso della prima persona, il narcisismo dell’auto-fiction, e anche le pastoie della docu-fiction, e presenta sulla scena una serie di personaggi inventati, ma rappresentativi della borghesia benestante di una piccola città del Piemonte sudoccidentale, in cui è possibile riconoscere persone reali e una città reale, sì, ma ha molto più senso vedervi gli emblemi di un “piccolo mondo antico” in fase di radicale trasformazione, se non già al tramonto.
Come aveva fatto Thomas Mann nei Buddenbrook, anche Sicardi segue le vicissitudini di una famiglia – e di una città – attraverso gli anni: il romanzo è infatti diviso in due sezioni, distinte anche dall’utilizzo di un diverso carattere tipografico – la prima è ambientata negli anni ’50, la seconda negli anni ’90 del secolo scorso; e come nei Buddenbrook, anche qui il perno della narrazione è la casa di famiglia (qui con annessi terreni) a cui si riferisce lo “strument” – il rogito notarile, in piemontese – che vi dà il titolo. Non ci sono suddivisioni in capitoli, ma solo degli asterischi a segnare le “svolte” nella narrazione, senza bisogno di ulteriori raccordi tra i vari episodi, oltre all’iniziale, prezioso “identikit” dei personaggi principali. Il romanzo assume così un andamento quasi teatrale, o meglio “museale”: non viene raccontata una storia con una trama precisa, ma vengono presentati dei quadri di vita e disegnati dei ritratti di “piemontesi d.o.c” tratteggiati con affettuosa ironia. Due i leitmotiv ricorrenti: quello delle “virtù” tipiche della gente del basso Piemonte (la riservatezza, la gravitas, la concretezza…) e quello della vita che passa, e che il romanzo cerca semplicemente di riprodurre in tutti i suoi aspetti – affari e affetti, amori e lutti, stagioni che si susseguono, lavori agricoli, viaggi, studi, scelte politiche e religiose… Tutto va raccontato, sottratto alla caducità.
Il tema del tempo che passa e delle feste che lo scandiscono permette di accostare questo romanzo a un altro capolavoro manniano, La montagna magica, e lo libera ulteriormente da possibili ristrettezze regionalistiche: così Lo strument, da “romanzo piemontese”, diventa “romanzo” e basta – romanzo a pieno titolo novecentesco, anche per quel procedere per incisi che dilatano le frasi e fanno sentire la voce del narratore che commenta l’agire, il pensare e il parlare dei suoi personaggi, con distacco, arguzia e insieme empatia. Anche il narratore ha la sobrietà e il senso della misura tipicamente piemontesi – il che impedisce al romanzo di cadere nel patetico o nel nostalgico e lo rende un prezioso strumento di autocoscienza collettiva. Quello che finora mancava, a questo angolo di basso Piemonte…