CLAUDIO ZANINI
Lo scrittore giapponese YunichiroTanizaki, in Libro d’ombra, osservava con mesto disappunto (già nel 1933) l’inarrestabile ed eccessivo progresso dell’illuminazione elettrica nelle città giapponesi: sparivano l’intimità e il mistero della penombra, quello spazio segreto in cui forme e oggetti sono evocati dal lume d’una candela. Oggi Tanizaki inorridirebbe percorrendo il quartiere di Giza a Tokyo, rutilante di luci, colori, insegne e schermi abbaglianti.
Anche noi siamo rimasti colpiti dal bombardamento d’immagini e suoni che ben riassume la vita frenetica e pulsante della sconfinata Tokyo: una delle prime e immediate impressioni giapponesi (frettolose e forse superficiali, ma intense) di un breve soggiorno d’appena due settimane. Nel corso d’un viaggio faticosissimo lungo il quale abbiamo preso un centinaio di mezzi: treni, metrò, autobus, battelli; camminato una quindicina di chilometri il giorno, il Giappone si è presentato ai nostri occhi come un paese alieno, percorso da estreme contraddizioni e molto diverso da come l’avevamo immaginato. Meglio non farsi delle idee prima d’intraprendere un viaggio o, come dice un amico, “i paesi esotici sarebbe preferibile conoscerli dai libri di fotografia” (pur sapendo che trasmettono un immaginario inesistente).
Una rapida e caotica modernizzazione, iniziata dalla seconda metà dell’800 con la dinastia Meiji, quindi drammaticamente continuata dopo la tragedia di Hiroshima e Nagasaki (1945) e la conseguente sconfitta militare – traumatico fu l’annuncio della resa senza condizioni da parte dell’imperatore Hirohito (che, nell’occasione, rinunciava alla sua origine divina), causa di molti suicidi -, hanno segnato indelebilmente il suo paesaggio e la sua anima, suscitando nel viaggiatore l’impressione che, ancora oggi, costantemente emergano, immedicabili, i segni e le ferite della guerra.
Il Giappone sembra un paese privo di storia; quasi che, senza soluzione di continuità, al medioevo feudale degli shogun sia improvvisamente succeduta una modernità senz’anima oggi dominata da una potente oligarchia finanziaria. Il vecchio viene sistematicamente distrutto (esemplare la vicenda del famoso Hotel Imperial di F. Loyd Wright a Tokyo che, edificato nel 1922, venne demolito nel 1969 per costruire un nuovo albergo). Questo nuovo (a parte certi quartieri d’architettura contemporanea d’eccellente qualità di Tokyo, di Kyoto e forse altrove) è il prodotto d’una speculazione selvaggia e disumanizzante. Persone come robot, inquadrate, efficienti, sciamanti in un flusso continuo; sui treni e metropolitane dormono o digitano sul cellulare (alto è il numero dei suicidi causati dallo stress del superlavoro: mi sono spesso chiesto se in Giappone esista e si pratichi la psicoanalisi). Tecnologia sopraffina, non c’è una carta in terra, i treni spaccano il secondo; loro sono puliti, gentili ma impenetrabili; nei grandi magazzini, accompagnano il visitatore sorrisi gelidi, cortesi inchini delle commesse simili a tante geishe seriali. Soltanto alcuni giovani chiedono, vogliono sapere, dialogano; ma il Giappone è un paese di vecchi. Vittima d’un inarrestabile spopolamento, ha uno dei più alti tassi di suicidi giovanili. Certo, belli i bambini e i ragazzi che girano con le divise della loro scuola, dalle quali, tuttavia si percepiscono i diversi livelli sociali. La scuola superiore e l’università costano molto, sono rigide e competitive; l’oligarchia deve perpetuare il proprio potere e selezionare un’efficiente e fedele classe dirigente. Siamo in un paese gerarchizzato, di scarsissima mobilità sociale, dove ciascuno deve stare al proprio posto.
Suscitano un fascino strano i templi buddisti e scintoisti, ricostruiti dopo incendi, terremoti, distruzioni belliche, e altri rimessi a nuovo recentemente a seguito d’una concezione transitoria ed effimera della vita e delle cose (come il fugace fiorire dei ciliegi in primavera) oppure quasi s’intendesse rimuovere il passato, cancellarlo con una mano di belletto? (il Kinkaku-ji, il Padiglione d’oro di Kyoto, di cui scrive Yukio Mishima nell’omonimo romanzo, è stato bruciato da un monaco nel 1950 e ricostruito dopo cinque anni. A proposito di Mishima, dopo questo viaggio, nel corso del quale mi sono rimaste inspiegate molte cose, credo tuttavia, d’aver intuito le motivazioni della sua tragica fine. Non volendo sopravvivere alla brutale modernizzazione e alla decadenza dei valori della tradizione, di cui noi oggi vediamo le nefaste conseguenze, nel 1970 a 45 anni, si sottopose pubblicamente al suicidio d’onore (seppuku).
Alla bellezza dei templi corrisponde l’infittirsi caotico del tessuto urbano. Sul velocissimo “treno proiettile” Shinkansen, nei 900 chilometri percorsi da Tokyo a Hiroshima in circa quattro ore, abbiamo visto scorrere ai nostri fianchi una squallida periferia urbana interrotta da esigui campi a risaia. Un susseguirsi di case minime, tristi e precarie o degli enormi condomini anonimi, avulsi da un qualsiasi organizzazione dello spazio urbano, mezzo disabitati, che si mangiano lo spazio l’uno all’altro, come i fitti arbusti delle foreste di bambù.
Al fascino astratto e geometrico dei giardini di pietra zen, agli spazi silenziosi dei monasteri isolati, al sacro magicamente evocato da certi santuari (vedi Koyasan, dove siamo stati ospiti) immersi in foreste di sequoie secolari – del tutto estranei, tuttavia, e lontani dal caotico indaffararsi delle persone -; a questa bellezza si contrappongono le luci fredde delle frenetiche stazioni ferroviarie e metropolitane, il gracchiare ininterrotto degli altoparlanti; luoghi come gli onnipresenti mercatini di cianfrusaglie, oppure come Ginza, il quartiere del lusso di Tokyo, che ha l’aspetto d’un enorme cimitero in cui i mausolei funebri sono gli smisurati palazzi delle grandi case di moda: Gucci, Louis Vuitton, Versace, Paul Smith, Armani, Cartier… in un’estrema celebrazione del consumismo. E poi, in un altro quartiere, entro altrettanti grattacieli, le sedi delle multinazionali dell’elettronica, della tecnologia soft robotics, della ricerca proiettata verso un futuro che mette i brividi.
Simboli d’una modernità alienante che certo sgomenterebbe Tanizaki, hanno stordito e turbato anche noi contemporanei. Comprendiamo e condividiamo, dunque, la nostalgia di spazi scuri, indefinibili, dove lo sguardo si prolunga nel silenzio dell’ombra e il tempo pare si sia fermato (ombre e luci diffuse, che noi ritroviamo nei centri storici e nelle architetture delle città europee, massimamente in Italia). Forse, oggi in Giappone, quest’ombra satura di mistero si rintraccia ancora, relegata all’interno dei templi e dei monasteri. Tale suggestione di spazi indefinibili, come in assorta attesa di qualcosa che li riempia, richiama il concetto, o meglio, l’esperienza del vuoto.
Provo a chiarire meglio.
Il centro dei templi, che avvolge e definisce lo spazio del sacro (sacro è una definizione nostra e impropria che, tuttavia, penso possa rendere l’idea), in realtà è involucro del vuoto. Il vuoto qui non significa, come in Occidente, assenza, bensì esperienza indeterminata ma intensa e potente, in un rimando costante che non si esaurisce perché sfugge alla nostra percezione.
Azzardo una spiegazione intuitiva: per noi il vaso è il recipiente, l’interno è vuoto. Qui il vaso è il vuoto che l’involucro avvolge. La forma del vaso senza vuoto non sussisterebbe.
Ho trovato traccia di quest’ombra e di questo vuoto nella foresteria del monastero di Koyasan; sebbene provvisto di tutte le comodità contemporanee, il vuoto delle stanze decorate dalle delicate pitture sulle pareti sottili, l’opalescenza della luce filtrata dalla carta delle finestre, la penombra dei corridoi dove s’aprono vani segreti, suscitano una sottile e strana emozione.
Un’allusione al vuoto, che forse chiarisce con semplicità il concetto (spero non banalizzandolo), si scopre nei pacchetti giapponesi; dove l’incarto, la confezione d’accurata e geometrica raffinatezza prevale sull’oggetto avvolto, anzi “è l’involucro (a essere) consacrato come cosa preziosa, sebbene gratuita; (…) è (quasi) la scatola il vero oggetto del regalo, non già ciò che contiene” (Roland Barthes, L’impero dei segni, 1970), mentre il contenuto ha scarsa importanza; anzi potrebbe, paradossalmente, non esistere. Il vuoto, in effetti, sarebbe il perfetto contenuto del pacchetto.
Proseguendo sull’onda del medesimo pensiero, si può affermare che l’haiku (breve componimento poetico), respingendo ogni interpretazione e senso, indica null’altro che il vuoto. Infatti, la sua forma è l’involucro, il suo contenuto (anche questa è definizione purtroppo fuorviante e inadeguata) il puro vuoto. Lo spiega bene il poeta e monaco zen Basho (1644/1694):
“Come è ammirevole / colui che non pensa / “la vita è effimera” / vedendo un lampo”.
Un altro esempio. L’esperienza del vuoto pervade i magnifici e perturbanti giardini zen. Dalla superfice geometrica di ghiaia mossa appena da leggere modulazioni, simili a piccole onde incurvate, le rocce emergenti perdono peso, si smaterializzano, assumono senso in quanto circondate e affioranti da quella sorta di mare di pietra: guardando mi è balenata la sensazione che si trattasse dell’oceano dell’essere (strana e improvvisa risonanza che, tuttavia, non saprei spiegare) e, nello stesso istante d’un vuoto che si percepisce denso d’energia. Un vuoto di cui le increspature appena percettibili sulla ghiaia definiscono la presenza; le rocce che ne affiorano sono segni perentori, richiamano la macchia nera di china dell’ideogramma sul bianco della carta. Anche quest’ultima, la carta, è un vuoto che attende la scrittura e da essa è indissolubile.
Mi auguro che questi esempi incrociati siano riusciti a suscitare una almeno vaga approssimazione dell’idea giapponese del vuoto.
La carta giapponese è morbida, “simile al manto della prima neve” (Tanizaki) e l’ideogramma dipinto sembra succhiare energia dal suo spazio bianco e vuoto, concentrarla nel segno nero d’inchiostro di china, corposo e risoluto.
Sotto l’occhio vigile e benevolo d’un elegante monaco in kimono bianco, abbiamo fatto prove di calligrafia. I risultati discutibili hanno suscitato alcune considerazioni. Il pennello, tenuto perpendicolare al foglio bianco e guidato dall’avambraccio, produce, scorrendo senza staccarsi dalla carta, segni decisi o morbidi, sottili o più larghi, Qui, pittura e scrittura coincidono. Il segno s’impone, ma il vuoto dello spazio invaso, lo preme tentando di forzarne i margini. È una lotta tra opposti. Bianco e nero.
La nostra scrittura corsiva occidentale pare, piuttosto, incidere il supporto cartaceo oppure, in certi casi, sovrapporsi a esso; sovente ha la forma del grafico d’una qualche funzione corporea (cardiogramma, encefalogramma, ecc.). Decifrandolo, i grafologi possono intuire la personalità di chi scrive. Dall’analisi dell’ideogramma giapponese (e cinese) credo si possano ben ricavare le minime variazioni del suo significato ma nulla sullo scrivente. Il corsivo occidentale è soggettivo, quindi funzionale alla scrittura automatica, che ritengo impossibile in Giappone, poiché il significante possiede un’oggettività inattaccabile.
Allo sguardo, superbo appare il torii (portale) rosso, segno potente, sorgente dall’acqua della baia dell’isola di Miyajima e affascinante il santuario di Itsukushima, anch’esso di legno purpureo, sospeso su palafitte. Imponente svetta il castello medioevale di Himeji a Hyōgo.
Enigmatico il grande Budda bronzeo di Kamakura, gli occhi chini sul proprio ombelico, chiuso nella sua imperturbabilità; d’intorno, lo sciame di turisti lo mitraglia con migliaia di selfie fotografici.
Sono molto belli e fotogenici i kimono che ogni giorno trovavamo nella stanza dell’albergo, ma problematiche le microstanze (in Giappone lo spazio va sfruttato al massimo) in cui eravamo ospiti.
Variopinto come una tavolozza di colori e di sapori molteplici, è il sushi, preparato davanti ai tuoi occhi. Assai meno gradevole (per il nostro gusto) il tofu; sebbene la zuppa di miso venga servita in raffinate ciotole di lacca. Curiose (per noi) le hashi, bacchette con cui si porta il cibo alla bocca. Non sono affilate e pungenti come le nostre posate. Non tagliano, stringono il cibo morbidamente, quasi con delicatezza; esigono eleganza e destrezza manuale; e, all’inizio, infinita pazienza.
(Foto di Maria Novella Brenelli)
Questo articolo è stato anche pubblicato sulle riviste in rete ODISSEA e La Tigre di Carta