EVA MAIO
In questo tempo sospeso difficile doloroso rispolvero un vecchio lavoro, forse del 2005.
Non mi preoccupo di sapere ora la data giusta.
Riletto, mi ha ancora convinta.
Mi ha convinta per questo tempo sospeso difficile doloroso.
Svolazzare attorno alle parole.
Succhiarne il nettare.
O tentare di farvi immersioni sottili precise.
Insomma un’altalena tra serietà e leggerezza.
Nell’un caso e nell’altro andare dalle parole all’umano.
Un umano fragile e forte insieme, che a volte si chiude e a volte s’apre a incommensurabili generosità.
Per un uso
nonviolento
della lingua
Dappresso
Dappresso è un po’ antico
ma sa di vicinanze,
di continenti non più alla deriva,
di pelli che si mischiano
dopo qualche sfioramento.
Dappresso è poco usato
ma sa di tempo concesso
agli accostamenti
per la difficile educazione
alla prossimità.
I transitivi
I transitivi
sono verbi aperti:
non chiudono da soli l’esistenza
hanno compimento
non in se stessi.
Sono itineranti
inquieti,
passano ripassano
e vanno incontro al mondo
con esiti sconosciuti .
Trafelati
traboccano
si versano
cadono
nella parola che viene appresso.
Vanno come a morire
ma là dove tuffano
tutta l’energia
rifulgono
di nuova vita.
Assomigliano a chi
di noi
in altro s’invera.
E
A darmi qualche
consolazione
è il piccolo ponte
della congiunzione
e.
La scrivo e riscrivo
come fanno i bambini
ma forse con più tenerezza
e ostinata speranza.
Appena accennata
sa dire l’urgenza
di un incontro
la possibilità d’un collegamento
e supera confini
un po’ trasognata
un po’ribelle.
Ha il talento
dell’infinito
- e sa nasconderlo bene -
con quel sostare
equanime e quieto
tra inenarrabili diversità.
Ecco
Ecco:
vedi qui,
tieni,
ascolta,
senti.
Ecco:
un preambolo accorato,
l’anticamera d’un evento,
l’avvicinarsi d’una sorpresa.
Ecco:
uno sgabello su cui posare
un dono un invito
una richiesta d’attenzione.
Ecco:
una conchiglia
in cui soffiare
perle
di notizie.
Magari
Magari
è una parola
col retrogusto
di rammarico.
Ha il peso di tanta sopportazione.
Ma sa anche volare.
Magari
è una parola
che profuma
di bambino.
Ha il peso di tutte le concessioni.
Ma sa sperare.
Magari
è una parola
nella bocca
dei semplici.
Ha il peso di tante tribolazioni.
Magari
potremmo usarla ancora.
Nomi
Quando nascono
nomi
dai venti
d’altrove
sono nomi giusti
onesti
buoni come buon pane.
Sono piccoli
sobri
quei nomi ai crocicchi
della memoria e dell’attesa.
Concentrazioni audaci
come semi.
E come semi
leggeri.
Disposti a esodi
sottoposti a esili
per trasmigrare vivi
in altri cuori.
Noi
Venuti tutti
da uno sputo di sperma
posato
in caldo nido
sfioriamo appena l’idea
che il vicino in metropolitana
sia un tu
che con me
può diventare noi.
Per
Non se ne può fare a meno.
S’infila
duttile
nel pensare
e non s’imbarazza
nel cambiare posti
ruoli e senso.
Mi piace
e ne serbo l’alone
d’umile eleganza
quando allude
alla verità
che ogni cosa avviene
grazie a
qualcos’altro.
Non me ne posso
sbarazzare
quando tallona
i pensieri
e si fa indagatrice
sottile
di cause conseguenze
e scopi.
E quando si sofferma
nel cammino
a sottolineare le traversate
i percorsi
tra le povere cose usate
mi ammaestra.
Pronomi
Sottili
scrostati d’ogni velleità
duttili
sorvegliano
ogni dire
di me di te di noi di voi di tutti.
Accasciati e tristi
in stato d’accusa.
Mormoranti e leggeri
in regime d’amore.
Sorpresi a tremare
se invocati,
accovacciati in attesa
se evocati.
“Ri”
Perfino un giorno qualunque
dimesso e stanco
si veste
di soave chiarore
ri – ascoltando
parole sottratte
all’indifferenza.
E un’intera stagione
avara e triste
s’assolve
per un solo bel testo
ri – preso in mano
e diventato culla
a lenire i dolori
del mondo.
E il rosario delle ore grigie
s’avvolge di stupore
grazie al ri – tentare
di affidarci
all’altro e all’altrove.
Perfino un’esistenza costretta
e quasi stinta
s’accende d’attesa
e si solleva
nel ri – guardare
la trasparenza delle umili cose
attorno.
Sé
Cos’è mai
quel se stessi
a cui ci avviciniamo
per sottrazioni sottili
e tagli audaci
all’ingombro
dell’io.
Vi andiamo incontro
sempre più spogli
porgendo ambedue le guance
al soffio
che ci trasloca il cuore
e affina il passo.
Ne attendiamo
la forma
per farvi ingresso
e plasmarvi
la nostra trans-figurazione.
Tu
Dimmi come
pronunci
tu
e un po’ conosco
da quali luci
è attraversata
la geografia
dei tuoi incontri.
Dimmi come
lo scrivi.
Alto leggero sfumato.
Col profumo di rugiada.
Quasi danzante sul rigo:
è lì attorno
quel tu
a regalarti pace
solletico o sorrisi.
Spesso,
deciso a penetrare il foglio:
ogni tu
desiderato,
lontano
o in casa ma assente.
Piegato come salice
piangente
quello ancora da incontrare.
Arenato verso
qualche remoto ieri
quello lasciato.
I gerundi
Hanno malinconia
d’altro
e son sempre in attesa
di compimento.
Un po’ ci somigliano
nel mendicare
senso e compagnia.
Umili
assumono in spazio stretto
il peso dei perché
la ruota del tempo
i dubbi le ipotesi il destino
di ciò che detto
prima o dopo
ha sempre l’aria d’essere
più importante.
Quieti
soltanto in apparenza
portano in grembo
il perché il come
gli indugi e i forse
d’ogni affermazione
e vanno a partorirli
in luoghi marginali
dove non posa l’accento
il lettore spedito.
Le virgole
A darmi qualche
imbarazzo
sono le virgole.
Il più delle volte
ne amo
l’assenza.
Preferisco
righe di pensieri
esposti ai venti
delle interpretazioni.
I pensieri
li stendo come sul filo
del bucato
uno alla volta
senza troppi legami.
Quasi sospesi
m’importa che zoomino
finestre di mondo
e strati di dolore
e innocenti frattali
con la stessa
dignità.
Gli esclamativi
È come se avessi un’allergia
per gli esclamativi.
Sanno di battimani
di voce forzata
di acclamazioni
di esclusione della ferialità.
Mica le mie banalità
diventano importanti
se le faccio seguire
da un punto
sull’attenti.
Preferisco quel punto
appena accennato
con la biro
che sfiora
il rigo
e offre
frammenti
di riposo
al nostro dire.
Il punto di domanda
Quello di domanda
non è un punto.
È uno spazio bianco
che il foglio ci regala
per appendervi
parole prese dal fondo di noi.
E le facciamo dondolare
incerte
sull’albero nodoso del dubbio.
E le mettiamo in scena
acute dolenti
sul palcoscenico ombroso
di qualche aporia.
Quello di domanda
non è un punto.
È un sospirare
lento incontro all’ignoto
o un accatastare affanni
che reclamano
riposo.
Quello di domanda
è l’ irrisolto
in noi
che prende voce.
Quelli che preferisco
Quelli che preferisco
sono i pronomi
personali
così poco ingombranti,
senza pretese,
spesso nascosti.
S’acquattano quando è il caso
e variano con poco impiego
di penna.
Personali
non sanno mentire
né delegano ad altri
la responsabilità delle loro azioni .
Mancano i congiuntivi
Mancano
i congiuntivi
alla televisione
e sui giornali
e nel parlare d’ogni giorno.
È come un mancamento
del respiro
ed una debolezza
di polmoni
questo dire certo sicuro
mai sfiorato
da un dubbio un’ipotesi una probabilità.
È come
una febbriciattola sorniona
ed una fiacchezza
del pensare
questo dire tutto compresso
nell’indicativo delle cose che come stanno stanno
o nell’imperativo dell’acquisto.
Sono le parole
Sono le parole
a farmi visita
a convocarmi
in un punto del tempo.
A me tocca
soltanto dire
- ci sono -.
Di alcune
vengo a sapere
non so come
la provenienza
l’odore le trasparenze
il peso di vita
la luminosità.
Di nessuna
so
dove mi voglia portare.
Non le posseggo le parole.
Vi abito dentro
senza pagare affitto
perché sono magnanime.
Solo qualcuna
s’accuccia
come cane fedele
e di me fa la sua casa.
Le parole degli occhi
Di quale profondità
le orecchie
dovrebbero dotarsi
per suggerire
le parole giuste
alla propria lingua
per l’interlocutore
perso in qualche dolore.
Saranno parole come carezze
o come brezza,
parole senza peso
per spalle già provate
e senza cunei
in cui far impigliare il cuore.
Saranno parole
che la lingua degli occhi
saprà dire
posandole appena
tra il respiro dei due
ormeggiati
presso umide palpebre.
(Foto di Bruna Bonino)