SILVIA PIO
No, non mi voglio sedere. Voglio fare il viaggio in piedi, appoggiata sulla sponda della carretta. Per guardare la folla che aspetta il mio passaggio: quella indistinta sulla strada e i grappoli di persone alle finestre.
Uscita dall’Arcade, sono stata accolta con urla e insulti, ma da questa posizione rialzata posso vedere che soltanto un piccolo gruppo si pigia intorno e mi ingiuria. Dietro, sui marciapiedi, sulle soglie, ai balconi, gli spettatori stanno in silenzio, sbigottiti. Ad una finestra ho riconosciuto Robespierre, Desmoulins e Danton. Parlavano concitati, Danton mi fissava con quegli occhi piccoli. Ancora per poco, signori.
Scellerati assetati del sangue dei Francesi.
Ma tra loro ora non c’è più la bestia feroce, l’uomo di sangue. L’uomo… questa parola disonora il genere umano. Era un mostro.
Con l’arroganza e l’aiuto di un pugno di sanculotti ignoranti, due mesi fa arrivò a far arrestare i deputati girondini. Oh, non ho mai amato particolarmente i moderati, ma inorridii per i metodi usati dal tribuno, come si faceva chiamare. Ho sempre odiato quelli che si vestono della toga di avvocati del popolo per imporre tirannie personali.
Quell’episodio mi fece concepire un progetto ardito: emulare Bruto, giustiziere del despota. Ma ero torturata dal dubbio e dalla paura.
Alla notizia dell’esclusione dei deputati, Caen, la mia città, si levò a difendere la rappresentanza nazionale beffata. I proscritti si rifugiarono da noi, i loro discorsi mi infiammarono di entusiasmo. Forse ci sarebbe stata una rivolta, forse sarei stata dispensata dall’atto temerario.
Ma col passare dei giorni i cittadini divennero circospetti e gli animi si calmarono. Non il mio. Nel caldo di giugno presi un canovaccio e ci ricamai la mia incertezza: lo farò? non lo farò?
Lo devo fare.
Con un pretesto partii per Parigi.
Sono arrivata sei giorni fa e ho preso alloggio in una piccola locanda. Sabato, 13 luglio, mi faccio condurre in carrozza fino alla casa di Marat e chiedo di essere ricevuta. Il cittadino è malato e non riceve nessuno, mi viene detto. Ritorno più tardi, ma mi respingono di nuovo. Gli scrivo una lettera per chiedere che mi veda. Litigo con la sua donna e con la portinaia, faccio tanto rumore che egli, dal bagno, mi sente e si incuriosisce. Dice che mi facciano entrare.
C’è tanta gente per le strade e la carretta avanza lentamente. Il signore che mi accompagna è premuroso, galante e non mi stacca gli occhi di dosso; neppure lui capisce come una giovane donna possa sacrificarsi con tanto sangue freddo.
Sono così felice di essere stata utile al mio paese e di potergli offrire la mia vita. Sono pochi i patrioti veri, quelli che per la patria sono disposti a morire, c’è solo egoismo nel cuore della gente. Che popolo triste per formare una nuova repubblica.
Il signore mi dice, gentile, che il viaggio sarà disagevole. Che m’importa quando sono sicura di arrivare?
Marat è immerso nella vasca da bagno, con un asciugamano attorno al capo e il leggio al bordo. Mi hanno detto che ha una malattia che lo tortura con pruriti e mal di testa, e quello è l’unico modo per avere un po’ di sollievo. Il bagno è il suo studio e il luogo dove riceve gli amici, ci sono libri tutt’intorno e copie del suo giornale.
Mi chiede il motivo della visita. Incomincio a parlargli in modo vago di una rivolta contro Parigi, di una congiura per far cadere la testa dei rappresentanti del popolo, e la sua. Ne prende nota distrattamente, dicendo che sì, vuol dire che li faremo ghigliottinare tutti, questi traditori.
Finora me ne sono stata in un angolo, agitata e perplessa. Quel malato tormentato dai bruciori e immerso nell’acqua fino al collo mi è sembrato patetico, diverso dal demagogo indemoniato che mi ero aspettata. Ma le sue ultime parole decidono la sua sorte.
Dopo l’arresto hanno minacciato di inventare un nuovo supplizio per punire il mio crimine. Tutti i supplizi che potevano riservarmi non avrebbero tolto nulla alla beatitudine che provavo in quel momento, e che provo tuttora. Ringrazio il cielo della libertà che ho avuto di disporre della mia vita e di offrirla alla patria.
Voglio che il mio ultimo respiro sia utile ai miei concittadini, che la mia testa portata in giro per Parigi rallegri la vista di chi ancora crede nella legge. La Montagna ormai scossa veda la sua sconfitta scritta col mio sangue. Che io sia l’ultima vittima e dopo di me arrivi finalmente la pace.
In questo tempo di crudeltà la vista del sangue non fa più orrore e anch’io ho imparato a non averne paura. La mia mano non ha tremato quando ho affondato il coltello nel petto di Marat: l’ho fatto, il mostro è morto. Il tiranno che reclamava il terrore rivoluzionario e la dittatura della libertà (che sciocchezza). L’abile manipolatore del popolino, che voleva ridurre i nemici della rivoluzione in uno stato di salutare terrore, per il quale cinque o seicento teste abbattute erano abbastanza per assicurare riposo, libertà e felicità alla gente. L’aquila sola. L’amico del popolo. Il fautore dei massacri di settembre, in cui più di mille vennero bastonati a morte, gettati dalle finestre, sgozzati, passati da parte a parte. Il patriota che redigeva implacabile le liste di proscrizione.
I suoi crimini mi hanno guidato la mano. Ho ucciso un uomo per salvarne centomila e se ci saranno altri Marat forse d’ora in avanti avranno paura di incontrare di nuovo l’angelo del giusto assassinio.
È morto subito, tra le grida delle donne e l’affollarsi dei passanti. È morto un giorno in anticipo sul quarto anniversario della presa della Bastiglia.
Mi sono fatta arrestare senza difendermi, contenta di aver assolto il mio compito. Mi avrebbero uccisa appena fuori dalla casa se un deputato non avesse tenuto a bada la folla rabbiosa. Quelli idolatravano Marat, l’avevano sostituito al re nelle loro speranze sciocche e violente. Hanno dato al suo cadavere, che nel caldo terribile imputridiva rapidamente, un trattamento riservato ai sovrani.
Furono trattenuti dal deputato che urlava di lasciarmi viva per non perdere le fila del complotto. Ma io sola ho concepito il progetto e da sola l’ho portato a termine, mi sembrava così bello che non ne ho fatto parola con nessuno.
Salvata dall’ira della folla, sono pronta per il patibolo.
Ci avviciniamo alla piazza della Rivoluzione, sono impaziente di vedere la forca. Il signore che mi accompagna vorrebbe evitarmelo, non sa forse che è stata preparata per me?
Improvvisamente penso a mio padre, gli chiedo perdono per aver deciso della mia esistenza senza il suo permesso. Forse capirà che l’ho fatto per vendicare tante morti innocenti e per evitarne altre. Spero sia contento della mia sorte e della mia fine gloriosa, spero mi ricordi spesso agli amici e ai parenti.
Siamo arrivati. Lasciatemi guardare! Ho ben il diritto di essere curiosa, è la prima volta che vedo una ghigliottina.
(Foto di Lorenzo Avico)
Monologhi estremi è una raccolta di monologhi autopubblicata.
Dalla prefazione di Giuliana Bagnasco: «Silvia Pio dà voce e volto a figure femminili della Storia e della Letteratura, lasciando emergere “la diversità” della condizione femminile in un intreccio di relazioni che coagulano nello spazio dell’autentico, della genuinità. Dalla posizione storica di ciascuna si illumina con chiarezza, anche solo un sottofondo, una cornice, che, grazie al coraggio dello sguardo, trova un suo luogo privilegiato nella parola che la esprime, attenta ai movimenti dell’anima e del corpo. Solo la sensibilità femminile riesce a riferirsi ad altre donne con la capacità di guardare nell’interiorità più profonda. La parola di una donna appartiene ad un ascolto interiore che rifiuta ogni schermo simbolico. Nei monologhi Silvia Pio parla infatti all’intimità delle donne prescelte alle quali presta il verbo senza cadere nell’intimismo, svela potenzialità emotive, risonanze psicologiche acute in una parola ad alta frequenza evocativa. Le tappe della vita di ciascuna delle sue figure sono ripercorse come confessione, anamnesi, pur rifuggendo da ogni compiacenza psicologica. Si offre dunque una ricognizione per epifanie, deliri, nenie, liriche, disvelamenti, apparizioni in cui irrompe l’arcano delle creature.»