RINO GIACHINO
“Se si frega a lungo e fortemente le dita di una mano sul dorso dell’altra e poi si annusa la pelle, l’odore che si sente, quello è l’odore della morte.”
Miliu lo disse lento, come si dice una cosa solenne, che pochi sanno.
Ci provai a sfregare le dita, le scostai per annusare ma Miliu disse che era troppo poco, che dovevo farlo più a lungo. Continuai, mi venne il dorso caldo e sentii nel naso un odore come di pelle bruciata.
Eravamo nel portico diroccato di Migiu, c’era nebbia che correva sulla collina e non riuscivo a vedere l’ora sul campanile, “sono le 10 e mezza” Miliu guardava verso la chiesa serrando gli occhi a fessura, “sarà perché hai gli occhi più piccoli, che non vedi l’ora”.
Del resto ero il più piccolo da sempre e certe volte non mi facevano entrare nei loro discorsi, specialmente se parlavano di donne.
Ci trovavamo lì per fumare di nascosto, a me che avevo nove anni non era consentito di fumare, specie se c’era mio fratello. Se non c’era mio fratello capitava che mi facessero fare un tiro “ma non mandare giù il fumo” mi dicevano.
Una volta mi sono portato delle sigarette che aveva fatto mio padre, dopo molte mie insistenze, dentro le cartine al posto del tabacco c’era della camomilla, ma non era cosa, mi faceva sentire ancora di più il più piccolo.
“Vai a comprare un pacchetto di MS” Guido mi allungò 500 lire spiegazzate “e prendi anche un pacchetto di wafer”.
Non mi spiaceva andare al paese, potevo fare un giro largo di già che c’ero e loro mi avrebbero aspettato come si aspetta qualcuno che ti porta qualcosa che ti fa gola.
Entrai nel negozio di Gavarino e la porta scricchiolò sulla pietra di marmo del pavimento. Sembrava che a causa dell’umidità tutto si fosse gonfiato. Nel negozio c’era una luce giallastra e un odore di salame e di bon-bon.
Aspettai un po’, ero lì per dare un colpo di tosse per far sentire che stavo aspettando, quando spuntò il vecchio Gavarino. Mi guardò torvo, come se l’avessi distolto da una cosa importante, aveva gli occhiali spessi e i suoi occhi dietro le lenti erano enormi.
Alzò il mento come a dire che era pronto e allora gli comandai le sigarette e i wafer.
Lo salutai e lui alzò la mano, appena.
Mi incamminai verso la chiesa, l’aria forte comandava la nebbia che si infilava nei portici e sui fienili.
Avevo la passione per le chiese e i cimiteri, ma solo quando erano vuoti e silenziosi, ma non lo dicevo a nessuno per la paura di passare da tabalori.
Dentro la chiesa c’era un freddo che ghiacciava il sangue. La candela accesa sotto la statua del crocifisso faceva vibrare le costole del Signore macchiate del suo sangue.
Stetti in fondo allo scuro per un po’ e poi andai verso il cimitero.
Dal cimitero di Mombarcaro la vista è una delle migliori di tutte le Langhe, di lì lo sguardo si apre sulla Valle Bormida e Val Tortagna e poi dà sulla pianura di Torino e sulle montagne. Dietro la chiesa se la giornata accompagna si vede un pezzo di mare.
Ma quello non era giornata da vedere le cose da lontano e li si è esposti come da nessun’altra parte del mondo e la nebbia dentro il vento frustava le croci, i nomi e le date della gente messa lì a riposare.
Sulla destra c’era la parte nuova, sembrava una scatola da scarpe al contrario chiusa da un tetto grigio e opprimente. Mi chinai a guardare una fotografia che si notava, era messa da poco tanto era lustra e pulita. GOVERNOLO CIPRIANO vidi scritto sul marmo, poi la data di nascita 01/03/1912, la data di morte non era compilata. Restai secco, non avevo sentito che Ciprian fosse morto. Pensai all’ultima volta che lo avevo visto.
Era stata la penultima domenica di settembre, venti giorni prima. Giocavano a pallone nella lizza tra il portico e il forno di Braida e Voarino prese la palla al volo ma storto e quella finì nell’orto di Ciprian. “Valla a prendere” urlò Giorgio a me che ero lì a guardare la partita “che poi ti pago il gelato.”
L’orto era cintato da una rete spessa e alta un metro e mezzo e la casa era chiusa da un portone robusto, dipinto di un nero superbo e ostile. Appena fui vicino al cancello mi sentii addosso il latrato rabbioso di un cane lupo. Mi venne in soccorso Guido che aveva capito che ero nel difficile.
Stimammo che non c’erano buchi nella rete e non restava altro che chiamare il padrone per farci dare il pallone. Prima chiamammo piano ma non rispondeva nessuno e i giocatori ci urlavano di disbrogliarci. Allora Guido urlò più forte, finche’ si sporse Ciprian. “Cosa volete?” lo disse in italiano e tra i guaiti del cane.
Cercammo di avere i migliori modi possibili, Ciprian fece un urlo al cane, che immediatamente si zittì. Aveva il cranio lucido, era senza sopracciglia, sul mento sporgeva un’escrescenza con un po’ di peluria.
Scese da casa, gli indicammo il punto in cui era finito il pallone, mentre si chinava a raccoglierlo, mi accorsi che al posto della cintura aveva un cordino come usano i pagliarini che lavorano dietro le trebbiatrici.
Fece una smorfia che mi sembrava un mezzo sorriso e poi in modo che ci spiazzò “Vincete o perdete?” chiese. Guido aveva afferrato il pallone ed era già diretto verso la lizza, io ero genato da quell’uomo che sembrava venuto da un mondo discosto dal nostro, “Io non gioco” dissi “sono ancora troppo piccolo”. Lui sorrise. Mi sembrò molto vecchio e triste. Forse malato.
Mi restò addosso tutto il giorno la solitudine di quella faccia e quando chiesi da dove veniva Ciprian mi fu detto che era di Savona, la casa dove abitava ora apparteneva alla vecchia maestra e gli era stata venduta per conto degli eredi di questa, dal geometra Gonella di Murazzano.
L’amicizia non era il suo forte, l’unico a cui si era legato un poco era Cora degli Scravenzi, che gli vendeva le tume e il burro, si diceva anche che fosse comunista e comandante nei partigiani.
Stetti ancora pensoso a guardare quella tomba lustra e la fotografia di Ciprian con la testa pelata e gli occhi da cane bastonato. Nella foto aveva una camicia bianca e una cravatta nera che gli davano un’aria da autorità.
Scesi in paese magonato, quel giro mi aveva messo sangue gramo addosso e passai davanti alla casa di Ciprian. Mi avvicinai e mi venne incontro il latrato del cane, poi sentii l’urlo del padrone e il cane che si ritirava. Scorsi dalla finestra sferzata dal vento nebbioso di quella giornata la sagoma di Ciprian e la sua testa pelata, che guardava verso di me.
Mi misi a correre, sentivo freddo addosso e il cuore che sbatteva come un matto.
Venni poi a sapere che Ciprian, sapendosi solo si era fatto preparare la tomba per quando fosse morto. Per non dare fastidio a nessuno, in silenzio e solitudine come aveva vissuto in quegli anni a Mombarcaro.
(Foto di Stefano Panero)