DINA TORTOROLI
Il conte Gio. Carlo Imbonati – è evidente – rispetta la struttura “a formule consecutive” dell’atto testamentario, e io ho l’impressione che padroneggi la tecnica notarile a un punto tale da riuscire a manifestare esigenze e finalità molto differenti da quelle dei testatori coevi, pur conferendo alla propria «schedola» un profilo ineccepibile.
L’esordio, ridotto ai minimi termini (i cinque sostantivi strettamente necessari: riflesso certezza morte incertezza vita) mi dice che lui non ama attribuire al testamento il valore di gesto religioso, ricorrendo a una formula stereotipata, e ne trovo conferma, più oltre, quando incontro parole autentiche, ponderate ed espresse «con tutta l’effusione del [suo] cuore», al «Sommo Iddio», «Padre e Creatore».
Noto, altresì, che l’Imbonati non dispone che vengano celebrate messe in suffragio della propria anima, rivelando di non essere soggetto alla dilagante ossessione della salus animarum.
La ritengo una questione di coerenza: il pensiero di avere bene agito lo induce a sperare che Dio voglia ricevere la sua anima. E quanto fosse orgoglioso della moralità delle proprie azioni glielo abbiamo sentito dichiarare nel poemetto La Résignation: «dieu, ma foi vive et sincère, / S’est attachée à ton serment. / À la voix des plaisirs j’ai fermé mon oreille; / D’un siècle perverti j’ai bravé les discours».
Proseguendo nella lettura del testamento, anche la lunga serie dei «legati», disposti a favore di familiari, amici, collaboratori e servitori promette importanti rivelazioni, ma per ora mi basta constatare che l’Imbonati dimostra concretamente senso di responsabilità, di giusta riconoscenza, di amicizia, di cura delle persone al suo servizio, perché la mia attenzione è calamitata dall’«istituzione di erede», l’elemento essenziale dell’atto.
Infatti, dopo aver istituito per erede universale Giulia Beccaria Manzoni, inaspettatamente, Gio. Carlo Imbonati aggiunge che ha disposto così, per un attestato dei sentimenti puri e giusti che «deve» e «sente» per detta sua erede. Di più: desidera che questa sua attestazione di riconoscenza alla «di lei virtù» sia resa pubblica, in maniera solenne.
Ciò significa che non sta pensando al testamento come strumento di trasmissione della proprietà, ma come occasione che gli si offre per riabilitare Giulia Beccaria.
Dunque, lui vuole indurre i concittadini (che hanno osato infierire contro il buon nome della sua «unica e speciale Amica») a riflettere costruttivamente sul proprio errore morale?
L’elogio è sublime, ma si tratta di parole. Come può sperare che acquistino tanto potere?
Nella mia mente, anche in relazione alle notizie fornite dalla successiva documentazione, rinvenuta in archivi e in biblioteche, si è radicato il convincimento che i due ultimi paragrafi del testamento suggeriscano la soluzione dell’enigma.
A me, essi dicono che l’Imbonati, proiettando anche sul futuro la sua ferma fiducia in Giulia, la nominava sua erede universale, per darle modo di dimostrare a tutti che era capace di rinunciare a un immenso patrimonio, tanto più necessario a contadini, in un momento grave della loro vita.
Ho l’impressione che lo lasci intendere abbastanza chiaramente non soltanto a me: «Nel caso poi, che il mio Erede premorisse a me testatore, od altrimenti morisse dopo di me senza avere spiegato in qualunque siasi modo la sua volontà di volere adire la mia Eredità; in questo caso sostituisco nella mia eredità lo Spedale di Como». Eccolo, quindi, aggiungere numerose e dettagliate prescrizioni: maggiori «pesi» e «obblighi», somme da corrispondere agli ammalati «di condizione contadina», con l’ordine, ripetuto due volte, di limitare le distribuzioni «al prodotto de’ frutti annui» e l’ingiunzione, che sembrerebbe persino superflua: «senza che mai possa essere intaccata la capitale somma».
L’Imbonati conosceva anche la scienza economica e, a questo punto, si avverte una viva preoccupazione del testatore per la salvaguardia del proprio patrimonio, nonché il timore che i nuovi amministratori vanifichino il gesto con cui lui intende “risarcire” intere generazioni di contadini comaschi – con particolare riguardo a quelli delle località di cui era feudatario – perché, insomma, “a favore dell’umanità” era bene non soltanto che si scrivessero libri.
Senza dubbio, quando decise di fare testamento, in vista dell’espatrio, Carlo avrà esposto alla compagna le proprie intenzioni e si può ben credere che Giulia abbia reagito, dicendo che anche lei avrebbe scritto il proprio, con un particolare intento.
E quale avrebbe potuto essere, se non quello che riferiscono i testimoni della sua disperazione, quando l’Imbonati morì, e lei gridava di volere rinunciare a tutto, al mondo, all’eredità, per diventare «religiosa ospedaliera»?
Possiamo persino immaginare con quali espressioni, in quell’occasione, abbia detto a Carlo quanto sarebbe stata irreparabile la sua perdita, leggendo ciò che scrisse agli amici Francesco Melzi D’Eril e Vincenzo Monti, dopo la morte del venerabile compagno: “il pensare che devo avere un indomani è una pena rinascente per me”, “l’universo intero è spento per me”; “Voi non potete immaginare che si ardisca tentare di mettere una lacuna nella eternità, già cominciata per me”.
Si è tentati di dire che, nei momenti cruciali della vita, l’abbandono del mondo fosse per Giulia una tentazione ricorrente: anche a diciott’anni, appena uscita dal collegio delle monache di San Paolo ¬ lo dice Pietro Verri ¬ aveva avuto «l’idea» di «farsi cappuccina».
Nella monografia Manzoni (Rusconi, p. 75), Ferruccio Ulivi sintetizza le azioni della Beccaria, dal giorno della morte di Carlo fino all’epilogo della vicenda finanziaria: «aveva prima pensato di rifiutare l’eredità. Almeno ne aveva manifestato l’idea. Finalmente domandò consiglio a Milano a un amico, ora personaggio in vista, Melzi D’Eril. Non voleva suscitare avversioni a sé, e alla memoria di Carlo. Il saggio suggerimento (che era in fondo quello che lei voleva sentirsi dire) fu di non prendere decisioni affrettate, e di accettare l’eredità trattando con larghezza, al di là dei termini legali, le sorelle del defunto».
Un’ultima considerazione: Carlo era un malato cronico e aveva nove anni più di Giulia, che (a detta di Pietro Verri) era «sana» e «robusta»; nonostante “l’incertezza della vita”, la premorienza di lei era davvero poco probabile.
L’idea del testatore di una eventuale sostituzione dell’erede poteva, quindi, dipendere soltanto dalla convinzione che Giulia avrebbe dimostrato il proprio disinteressato attaccamento, rinunciando «al mondo» e soprattutto all’enorme ricchezza. In questo caso, l’elogio di cui si è detto, solennizzato pubblicamente, avrebbe davvero scosso non poche coscienze.
Avremmo importanti riscontri, se potessimo leggere il testamento nuncupativo implicito che anche la Beccaria effettivamente consegnò al notaio Francesco Franzini, il 28 ottobre 1795, come risulta dall’atto di consegna, consultabile nell’Archivio di Stato milanese.
Invece, altra documentazione notarile attesta che il giorno «11 Agosto 1806», desiderando di «richiamare», la sua “schedola”, Giulia Beccaria domanda alla Delegazione Notarile di autorizzare il notaio Francesco Franzini a restituirle quel «piego», consegnandolo al suo procuratore, Francesco Zinammi. Ciò accade il «16 Agosto 1806», come attesta un documento, sottoscritto dal Procuratore stesso.
A fianco di un uomo “raro” come l’Imbonati, Giulia aveva dato il meglio di sé, ma, senza di lui e con la preoccupazione di un figlio che si rivelava, ogni giorno di più, problematico e inerte, lei si tradì.
Alessandro provò a offrirle il conforto della voce dell’Imbonati: «Dille ch’io so ch’ella sol cerca il piede / Metter su l’orme mie» (In morte di Carlo Imbonati, vv.228-229), ma era una pretesa puerile.
La “virtù” non si improvvisa: anche per Carlo era stata una faticosa conquista.
Con impegno costante, aveva dovuto imparare ad «ammaestrare la volontà», a praticare la «moderazione dell’animo», a «sfuggire le occasioni che possono essere cagione di male», a opporsi ai «pregiudizi» del proprio tempo, soprattutto durante l’esilio romano (dal 1770 al 1774).
Nel 1771, Marina, una delle sue sette sorelle, sposò il senatore Giuseppe Foppa.
Per le nozze, ci fu una fioritura di poesie, tra le quali – segnala Erminio Gennaro – il sonetto dello zio materno, il dottor Giovanni Maria Bicetti, traboccante di soddisfazione, perché il novello sposo avrebbe saputo essere di guida al suo giovane cognato, al termine del corso di studi, che stava affrontando, a Roma:
Non te vegg’io nelle natie contrade,
Tra ‘l vaneggiante lusso, e ‘l piacer folle,
Carlo snervar, effeminato e molle,
Il buon vigor della più fresca etade;
Ma te vegg’io nell’inclita Cittade,
Ch’al Tebro in riva il regal capo estolle,
Con franco passo di virtude al colle
Poggiar per lunghe dirupate strade.
Ma allora poi che attinto il bello, e ‘l vero
Da greca fonte avrai, e da Latina,
E a Temi volgerai quindi il pensiero,
Te non ritenga la Città reina,
Che qui duce ti sia nel gran sentiero
Lui ch’oggi alla Germana il Ciel destina.
L’assenza del fratello, naturalmente, amareggiava Marina, e lo zio volle trasformare quel rammarico in compiacimento, ma dubito che potesse immaginare come concretamente, ogni giorno, il giovane allievo dei Padri Somaschi fosse indotto ad attingere il bello e il vero, per quali lunghe dirupate strade salisse di virtude al colle, e tantomeno quanto intensamente e seriamente volgesse il pensiero a Temi, «nell’antica Grecia dea del diritto e della legge che regola i doveri che legano gli uomini agli dei e i rapporti tra gli uomini» (Treccani).
Io ricordo la meraviglia, suscitata in me dalla monografia Il Clementino, di Lina Montalto, e il mio sconcerto, allorché, nell’Archivio Generalizio dei Chierici Regolari Somaschi, lessi un Inventario del Collegio Clementino, della prima metà del Settecento.
È la copia di un documento, conservato nell’Archivio Vaticano (Visite apostoliche 1700, v. 65).
Si tratta di un fascicolo di 15 fogli − annota l’archivista − scritto nell’ottobre del 1726, dal padre Pisoni, vicerettore del collegio, in occasione di una visita apostolica.
La relazione contiene «l’elenco dei beni con le rispettive rendite e la descrizione degli oneri per censi passivi, tasse, affitti. Vi sono notizie sui locali del collegio, sulla suppellettile delle tre cappelle dell’Assunta, della Purificazione, del Nome di Maria. Si descrive la giornata degli alunni, seguita da informazioni sulle pratiche di pietà, sull’educazione intellettuale e morale. Il documento ci immette nella vita concreta del celebre collegio».
Vale la pena di trascrivere gli ultimi due capitoli:
Famiglia religiosa
Il detto collegio è solito mantenere tredeci sacerdoti tra ufficiali e maestri di scuola, sei studenti chierici e sei laici. […] Nelle camere del collegio, che servono al pubblico, non ci sono che quadri divoti, oppure ritratti de signori cardinali nostri convittori, altri de signori resi celebri con le loro gesta pure nostri alunni, con qualche altro quadro d’imprese. Le scuole sono dipinte. Così il teatro ed il refettorio, in cui è espressa la vita con i miracoli del ven. servo di Dio Girolamo Miani nostro fondatore. Vi è pure dentro il collegio una libreria competente, la quale serve a pubblico uso. Vi sono tre congregazioni overo oratorii, due de quali servono per li cavalieri ed uno per il restante della famiglia, celebrandosi in tutti tre ciascun giorno la santa messa. Le due prime, una sotto il titolo della beatissima Vergine Assunta è dipinta con oro, l’altra sotto il titolo della Vergine Purificata è solamente dipinta; la terza poi, che è sotto il titolo del nome di Maria, non ha che pitturato il soffitto, essendo nel resto decentemente ornata. [Il Collegio Clementino era ospitato nell’antico palazzo del cardinale Pepoli, in Piazza Nicosia].
Famiglia de signori convittori.
È incerto il numero de signori convittori. Al presente sono settantuno, del sangue più illustre d’Europa.
Pagano scudi novantasei l’anno per loro mantenimento, che serve ancora per quello delle persone impiegate a loro servizio. E perché non è da mettersi in dubbio che la Santità sua non desideri più d’ogni altra cosa d’essere informata della nostra condotta intorno alla buona educazione di detta gioventù, già che la santa memoria di Clemente VIII si degnò di crederci i più atti all’esercizio di questa santa opera, giudico perciò bene di umiliare sotto il di lei purgatissimo giudizio la pratica che da noi si tiene, affinchè questi signori vadano alle loro case instruiti prima ne’ doveri di un perfetto cristiano e poi in quelli che convengono all’essere di un vero cavaliere. Alzati perciò la mattina al suono della campana, devono orare prima mentalmente e poi vocalmente, a norma di quanto prescrivono le regole del collegio. A questa orazione succedono subito due ore in circa di studio, da cui, doppo un quarto d’ora, si passa alla scuola, la qual è di cinque ore in ciascun giorno per li studenti di lettere umane, di quattro per li filosofi, compresavi la ripetizione, e di tre per li teologi, al servizio de quali vi sono due lettori, acciocché possano più approfittare quei cavalieri, che a suo tempo pensassero d’incaminarsi per la via ecclesiastica.
Terminata la scuola, ascoltano la santa messa sempre con l’assistenza di un superiore e de loro padri prefetti; e perché imparino ad assistere in ogni qualunque tempo al gran sacrificio con quella devozione che si ricerca, cadauno è perciò obbligato a recitare da per sé l’ore col vespero e compieta della beata Vergine, recitandosi il matutino con le laudi in compagnia nelle loro camere la sera dopo lo studio.
Passano indi alla tavola, durante la quale sempre si legge qualche libro d’istoria e nella quaresima è costume che sempre si leggono vite de santi e pure altre opere spirituali, come serebbono le tanto famose et utili del padre Granata.
Doppo la tavola v’è sempre un ora di ricreazione, nella quale, perché questa gioventù sia occupata con qualche profitto, se le permette con l’uso di qualche esercizio cavalleresco lo studio delle lingue, il disegno e da molti che non ponno in tempo di studio, si apprenda anche la matematica.
A questa ricreazione succede un ora incirca di studio, che serve da preparamento alla scuola, nella quale sono li convittori occupati al pari della mattina, restando loro dalle ventitre un breve respiro sino alle ore ventiquattro, nel qual tempo incomincia lo studio di due ore, ove a teologi si permette di imparare ambidue le leggi, sodisfacendo frattanto gl’altri all’incombenze prescritte loro da padri maestri, sempre sotto l’occhio de padri prefetti e del padre ministro, il quale specialmente in questo tempo gira per le camere.
Doppo la cena vi è la solita ora di ricreazione, finita la quale, incomincia l’orazione di mente, indi la vocale e poi si ritirano con silenzio al riposo.
Questo è lo stile quotidiano della nostra disciplina ne’ giorni feriali. Ne festivi poi, comecché non vi sono se non due ore di studio, così si tiene da noi esercitata questa gioventù in altre opere di pietà; e prima:
Trovansi la mattina di buon ora due padri spirituali, uno dell’abito nostro e l’altro forestiero, per ascoltare le confessioni; dopo le quali, divisi nelle loro congregazioni, li cavalieri recitano il mattutino e le laudi della santissima Vergine, succedendo a tal recita il ragionamento spirituale, che da padri direttori si fa prima della santissima comunione, alla quale, sebbene non obligati, tutti si accostano quasi ogni domenica, benché vi sia in ciascun mese una comunione generale.
Siccome è nostra particolare premura d’insinuare a questi signori una devozione distinta verso la santissima Vergine, così oltre il digiuno delle vigilie sono anche tutti obligati nelle festività della Madonna a fare le loro devozioni. Ogni sabbato si cantano da tutti le littanie doppo la spiegazione del catechismo, che si fa nella scuola da padri maestri. Tre volte la settimana si recita il terzetto del santissimo rosario e le littanie de santi, particolarmente nella quaresima.
A quei signori poi, che per giudizio del padre direttore dello spirito sono creduti i più atti e disposti, si accorda dal padre rettore nel tempo di quaresima la pratica de santi spirituali esercizii, volendosi per altro che tutti distinguano questo tempo con qualche opera particolare di pietà, vale a dire con visite più frequenti delle chiese, con ascoltare, oltre quelli del collegio, anche altri sagri oratori, colla recita de divini ufficii e finalmente coll’adorazione della santissima Croce, che si fa da tutta la famiglia nella congregazione più capace.
Eguale che nella pietà è il nostro zelo, perché questa nobile gioventù approfitti sì in quelle cognizioni che servono ad erudire l’intelletto, come nell’altre, le quali ammaestrano la volontà, affinché ritornino alle loro case con tutte quelle sode massime, che riguardano la vera vita civile.
Per l’acquisto delle prime, oltre l’accennato studio quotidiano di nove ore, vi sono fra l’anno publiche e private accademie, in cui i giovanetti più adulti fanno spiccare il loro profitto con la recita de’ propri componimenti, essendovi anche ciascuna settimana due dispute, una di filosofia e l’altra di teologia, fuori delle pubbliche, che sempre si fanno nel chiudersi dell’anno scolastico.
Per conseguimento poi delle seconde si spiega da padri maestri delle scuole superiori la moral filosofia, col quale esercizio, conoscendo la gioventù quali veramente sono gli estremi viziosi, incomincia di buon ora a sfuggirli. E ne vediamo, Dio mercé, sul piede i riscontri in tanti che qui capitarono dalle loro case pieni di moltissimi pregiudizii e soggetti a gravissimi malnati trasporti.
Ma perché sopra tutto giova al buon costume della gioventù il tenerla lontana da quelle tali occasioni, che sebbene non male in se stesse, ponno però essere caggione di male, resta perciò con legge inalterabile proibito a chi si sia di questi signori, anche romani, il pernottare fuori del collegio, eccettuato in tempo di vacanze appresso li loro genitori in occasione di villeggiatura. E pria che in ogni altro tempo si proibisce in quello del carnevale, in cui i doppo pranzo niuno può uscire dal collegio, perché stiano lontani dal corso, come da ogni altro divertimento secolaresco. Perlocché si tengono divertiti in casa con la recita di due delle più castigate tragedie rappresentate da essi nel domestico nostro teatro, le quali servono di divertimento anche a molti personaggi qualificati, da cui si onora la rappresentanza con la loro riverita presenza.
E perché la moderazione non meno dell’animo che di ogn’altra estrinseca apparenza si reputa tanto necessaria in un cavaliere, succedendo molte volte che per le spese esorbitanti di uno, veggonsi ridotte ad un’estrema mendicità moltissime nobili antiche famiglie, perciò affinché questi signori, la maggior parte de quali sono primogeniti delle loro case, apprendino di buon’ora a far capitale di questa virtù, si fa da noi opposizione di ogni spesa che pensano di fare superfluamente, volendosi per tal fine che questi vestino con tutta la maggior civiltà, ma unita a una somma modestia. Perloche non si permette d’inverno altro uso che di panno nero e nell’estate quello della stamigna, essendo vietato l’usare i merletti con tutto il resto che mai potesse avere sembianza di vanità.
Questo è la [sic] metodo che da noi si prattica per il buon allievo della nobile gioventù, alla quale nel separarsi ch’ella fa da noi si lusinghiamo di poter dire come l’apostolo a Filippesi: Quae didicistis et accepistis et studistis et vidistis in nobis, haec agite, et deus pacis erit vobiscum.
Che se con tutto ciò tal’uno di questi signori vi fosse, il quale rimesso una volta in libertà pensasse a vivere con certa licenza non mai conveniente all’essere d’un cavaliere cristiano, vogliamo sperare nel Signore che la colpa non sia imputata a noi, ma bensì piuttosto alla di lui indole contumace, per riformare la quale possono bensì far tutto gli uomini, ma poi il crearne una nuova non è opera che solamente di Dio, a cui, perché questo non mai succeda, tutti li raccomandiamo ne’ nostri sagrifici e nelle nostre sebbene deboli orazioni, troppo premendoci che del gregge a noi commesso niuno perisca per sua e molto meno per colpa nostra.
È sperabile che il Signor Dio esaudisca questa nostra così giusta premura, quando la Santità sua, che ha tanto impegno per la buona educazione della gioventù, si degni di aumentare il nostro zelo in questa pia opera con l’apostolica sua benedizione, che genuflessi a piedi santissimi umilmente preghiamo».
Per non rischiare di banalizzare il documento e di fraintenderlo, è d’obbligo, prima di tutto, estraniarsi dal proprio tempo, dai parametri e dalla mentalità attuali.
La citazione latina della Lettera ai Filippesi mi suggerisce di leggere attentamente le Lettere di Paolo di Tarso, e mi trovo immersa in un’ atmosfera suggestiva.
I vocaboli tematici acquistano una pregnanza insospettata, e ho l’impressione di riuscire, infine, a capire non soltanto il concetto di vita cristiana – di santa condotta di vita – del padre somasco Pisoni, ma anche di intendere quello di “obbedienza” di cui parla Carlo Imbonati, quando, nel poemetto La Résignation, rievoca la propria esperienza di convittore del Clementino.
Mi riferisco ai versi: «J’obeis, et de la vieillesse / J’usurpe avant le temps la grave austérité», che ora mi rivelano la completa disponibilità di Carlo ad assecondare con consapevolezza, nonostante fosse ancora un ragazzo, l’impegno missionario dei Somaschi, “collaboratori di Dio”.
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