GIUSEPPE PRIALE
(La prima parte si trova qui)
Dopo tante cadute, nella mia memoria rimangono però ancora in piedi le accese discussioni, fra il calzolaio comunista e il salumaio socialista Cecu Cèri, sotto il nostro portico, di cui Cecu possedeva il diritto di passaggio per poter accedere al suo laboratorio. In quelle dispute tra un lettore de L’Unità e l’altro dell’Avanti, il comunista aveva sempre la meglio, anche perché il socialista, che tratteneva un po’ la parola, ad un certo punto preferiva andare a discutere con i suoi salumi, che almeno gli davano sempre ragione, come attestavano diplomi e premi appesi in bella mostra alle pareti del negozio. Il portico, quando non era occupato dalle dispute tra un calzolaio e un salumaio su come cambiare il mondo per vie diverse, nelle giornate di brutto tempo veniva usato da me e mio fratello per fare dei giochi vietati in casa o perché non potevamo andare a giocare a pallone sulla grande piazza della chiesa o a pescare i gamberi con le mani e le bote (una specie di scorfanetti di acqua dolce) con la forchetta opportunamente raddrizzata e arrotata sulle punte. Ora di quei due abitatori dei nostri torrenti non vi è più traccia, non perché li abbiamo sterminati noi, ma per cause più recenti e facili da capire. Sono pure sparite le frotte di bambini che un tempo nei mesi estivi sguazzavano allegri nelle pozze d’acqua, fin troppo fresca, dell’Ellero e che d’autunno facevano le caldarroste, regolarmente rubate nei boschi vicini, con le padelle da cucina, bucate con un chiodo particolare dal gambo quadrato e la testa larga, come quelli che si vedono ancora, geometricamente allineati, sulle porte di vecchi casolari. La legna per il fuoco non c’era bisogno di andarla a rubare, perché il torrente, nostro amico, ce la regalava con le sue piene stagionali, depositandola secca e levigata, come i suoi bianchi sassi, sulle rive.
Ma uno dei giochi al coperto, che a me e mio fratello piaceva fare, era quello di saltellare, battendo forte i piedi, su un certo punto del suolo del portico, per produrre misteriosi rimbombi, che sembravano salire dal profondo inferno. Una volta, però, insolitamente il nonno usci fuori a interrompere il nostro gioco con in mano il tirapé, una funicella, unita ai due capi, che lui usava per tirar fuori la forma dalla scarpa finita, minacciando di usarla, se non la smettevamo immediatamente, sulle nostre gambe, non sui piedi, corazzati com’erano di zoccoli con i sèp (suole) fatti di duro legno, ma non infrangibili. Se li rompevamo, disse, ci avrebbe fatti andare scalzi anche se era inverno. Era però la prima volta che il nonno ci proibiva quel gioco, che oltre tutto serviva anche a scaldarci i piedi. La verità, come seppi in seguito, era un’altra. Il nostro calpestio indiavolato, infatti, poteva allarmare o quanto meno dar fastidio ad un ebreo che il nonno teneva nascosto, a suo rischio e pericolo, da qualche giorno nell’infernòt, una specie di santa santorum della cantina (la cui cupola si trovava proprio sotto quel punto particolare del portico da noi calpestata con forza), così chiamata la parte più recondita e fresca, consacrata al dio Bacco, fedele custode del vino migliore, lasciato a dormire tranquillo in attesa di essere risvegliato col botto alla prima occasione.
Nessun rischio, però, aveva corso il nonno dopo la guerra, quando concesse due stanzette gratuitamente fino alla loro morte, ad una coppia di poveri anziani, proprietari solo del vestiari e di poche suppellettili. Non sempre sapeva essere cosi altruista e pietoso. Ad esempio, quando uno, che non era suo cliente, andava da lui a farsi aggiustare un paio di scarpe malandate, ma non di sua fattura, senza alzare gli occhi dal lavoro e con tono di voce poco caritatevole, gli diceva di portare quegli “ossi” a chi aveva portato prima la “carne”. Il nonno era fatto così. Sicuramente non era un bonaccione facile da manovrare. Incapace di tenerezze e di bei modi, sapeva però essere compassionevole e generoso con i bisognosi, non certo con i maneggioni e gli approfittatori. Non era quindi un personaggio da santificare secondo i canoni evangelici. A volte era anche da biasimare per la sua rude schiettezza e inflessibile intransigenza, ma solo perché nel lavoro e nella vita esigeva sempre l’ordine e la precisione. Spirito libero, ma non anarchico, era autoritario a tal punto da meritarsi la storpiatura del cognome, diventato Imperiàl all’anagrafe popolare dei soprannomi, un tempo molto in uso per evitare disguidi dovuti alle frequenti omonimie, come a Prea, ma non a Roccaforte, dove il nostro cognome era unico, ma, così storpiato, poteva andare anche bene come marchio di un particolare modello di scarpe da montagna.
Se i due arnesi da lavoro al centro della bandiera rossa del P.C.I. mi erano famigliari, non mi era chiaro il significato del titolone nero del giornale che il nonno sorbiva ogni mattina neanche fosse un ricostituente e che io e mio fratello, a turno, andavamo a prendere alla censa (tabaccheria). Quel titolone nero riuscì anche a confondermi le idee, quando in terza elementare la maestra cominciò a spiegare le unità, le decine e le centinaia del sistema metrico decimale. Solo dopo aver digerito manuali e saggi di storia, il suo significato mi fu chiaro, ma mi fu anche chiaro che l’umanità formata da individui diversi e irripetibili non possono essere ridotti ad una unità, molto simile a quel “fascio” di verghe che ci siamo scrollati di dosso con la Resistenza, versando lacrime e sangue. Ora alla censa non arriva più l’organo del partito, perché dopo lunga malattia è morto all’età di 93 anni, senza aver realizzato “l’uomo nuovo, il nuovissimo Adamo”, che, privato del suo libero arbitrio, avrebbe dovuto abitare, senza più il biblico infortunio, in un nuovo e duraturo “paradiso terrestre”. Ma l’uomo, senza quel principio vitale, non è più tale, ma solo una cellula morta in un tessuto sociale senza vita, sotto qualsiasi regime. Ho anche capito che il concetto di unità contraddice quello di individualità dell’essere umano, che aspira ad essere libero di pensare, di fare e anche di sbagliare per realizzare se stesso in una società in continuo divenire. Infatti gli individui, troppo a lungo legati in un fascio come bastoni della stessa misura e sempre sotto la minaccia della mannaia del boia, ad un certo punto rompono i legacci del fascio, s’impossessano dell’ascia e decapitano il boia. Così l’uomo ritorna uomo, quando ritrova la libertà “ch’è si cara, come sa chi per lei vita rifiuta”, come dice Dante per bocca di Virgilio (Purg. c.I°).
Ricordo che il mio primo contatto con il Fascio Littorio lo ebbi in prima elementare, quando s’imparavano le lettere dell’alfabeto sui cartelloni appesi ai muri dell’aula. Ogni tanto la maestra chiamava anche me per verificare se avevo imparato a riconoscerle. Per far vedere che le avevo imparate bene, quando arrivavo alla lettera effe di farfalla, con la punta della bacchetta sollevavo il cartellone e leggevo tutte le volte anche il cartellone della effe di fascio lasciato sotto, non so se per sbadataggine o per segreta nostalgia per il recente passato da parte della maestra (era l’anno 1946). Lei ogni volta mi sgridava, ma solo bonariamente, perché sapeva quanto male quel fascio di verghe con l’ascia sporgente mi aveva fatto. Comunque il primo successo scolastico fu quello di mettere assieme quelle lettere dell’alfabeto che servivano a scrivere il mio nome, ma soprattutto il mio cognome, quello stesso che io avevo imparato perché urlato nella notte e da lontano da mio padre per farsi riconoscere dai partigiani che avevano lanciato l’alto là, chi va là? al posto di blocco all’ingresso di Prea. Lo scrissi con il suo urlo ancora nelle orecchie e il timbro della sua voce inciso nella mia mente. Ma quel primo successo scolastico mi creò nello stesso tempo uno strano disagio. Infatti, al primo appello mi sentii subito un po’ diverso dai miei compagni di classe, mi sentii quasi un estraneo. Il mio cognome, infatti, era unico in mezzo a tanti Somà e altrettanti Basso, tra cui anche quello della maestra Angela. Se fossi stato un Somà come mia madre o avessi avuto il cognome di entrambi i genitori, come si usa nei paesi di lingua spagnola, sicuramente avrei sviluppato meglio il mio senso di appartenenza sociale, necessario per vivere meglio con se stessi e con gli altri, come dicono gli psicologi. Rovistando ancora nello scrigno dei ricordi risalenti al periodo delle elementari, mi ritorna in mente l’effetto che aveva prodotto in me la lettura, fatta dalla maestra, della lunga poesia di Giovanni Pascoli intitolata Breus. Quei versi a rime baciate e ritmati sull’andatura di un cavallo spinto al galoppo, risuonano ancora nel mio cervello da ottuagenario, anche se a brandelli e privi ormai dell’antica emozione, quella cioè che, estraniandomi, mi aveva fatto diventare Morvàn, il cavaliere di Breus: un bambino mio coetaneo della Cornovaglia che, salito su un vecchio cavallo, abbandona la mamma e la sorella per farsi cavaliere e coprirsi di gloria. Ritornato dopo dieci anni, vede il castello circondato dalla boscaglia e aggredito dall’edera, vede il cortile coperto di erbacce e il ponte levatoio malandato. Dalla sorella, che non lo ha riconosciuto, viene a sapere che la mamma è morta di crepacuore, dopo che suo fratello è andato via. A quel punto Morvàn, sopraffatto dall’angoscia e dal dolore, esclama piangendo:
“Oh per vederla qui sul limitare,
Per riabbracciare qui con te pur lei,
le mie vittorie tutte le darei:
sarei felice, pur che a lei vicino,
di strigliar tuttavia il mio ronzino”.
Quel ronzino sul quale era saltato d’un balzo, per raggiungere quel bel cavaliere (più bello del San Michele della chiesa) che aveva incontrato un giorno nella boscaglia vicino al castello e che lo aveva affascinato col suo aspetto e incantato con i suoi racconti.
Rapito dalla leggenda del cavaliere di Breus, anch’io avevo galoppato a spron battuto al posto di Morvàn. Al mio ritorno dal sogno, però, mi ritrovai ancora senza genitori e senza casa. Il papà era morto con i partigiani in montagna. La mamma, a guerra appena finita, era stata colpita a morte da due cecchini fratellastri (tifo e paratifo) lasciati a far rappresaglie di retroguardia. Le sorelle, più giovani di me di uno e due anni, erano state recluse in un orfanotrofio. Il fratello, di un anno più grande di me, era andato a vivere con i nonni paterni a Roccaforte. Solo io ero rimasto a Prea con la nonna materna, rimasta vedova a 29 anni della Prima guerra mondiale con quattro figli. Alla casa, priva di vita e svuotata, furono chiuse le persiane, che odoravano ancora di vernice, come si fa con gli occhi di una mamma appena morta.
Per fortuna nonna Margherita, quando non c’era scuola, mi mandava dai nonni paterni a Roccaforte, dove trascorrevo giorni felici in compagnia di mio fratello, al quale volli trasmettere la mia passione per i castelli, raccontandogli la leggenda del cavaliere di Breus. Lo scopo era quello di convincerlo a salire con me sulla cima della montagnola, di proprietà del nonno, chiamata Castello, per scavare tra i ruderi, che apparivano ancora tra la fitta boscaglia dalla parte che scoscende quasi sull’Ellero. Chissà quali tesori avremmo potuto trovare; chissà quali misteri avremmo potuto svelare! Come ad esempio quello della fantomatica galleria che, si diceva, collegasse il castello col palazzo della contessa Clara Asinai, vissuta nel XVI secolo. I nostri ripetuti tentativi, però, furono sempre infruttuosi, non certo per mancanza d’impegno, ma perché le nostre forze, già indebolite dall’erta salita e dagli attrezzi sulle spalle, ben presto venivano meno. Ogni volta ritornavamo a casa delusi, ma sempre con il fermo proposito di ritentare l’impresa archeologica un’altra volta, magari con miglior fortuna. Con il passare degli anni, però, venne meno anche il proposito, ma soprattutto svanirono poco alla volta la fantasia e la capacità di sognare. A me rimase però la passione per l’archeologia, se non per quella vera e propria, per quella linguistica, fatta a tavolino, che si dedica all’origine e alla storia delle parole, specialmente di quelle che contengono frammenti di storia familiare e locale, perlopiù negletta o andata perduta. Così il nome della montagnola, che sembra far da guardia a Roccaforte, si capisce facilmente che le viene da un castello medievale costruito su un’antica fortezza di epoca romana, risalente all’imperatore Adriano (76-138 d.c.), costruita per controllare, all’imboccatura della valle, la via militare fatta costruire dal generale Pompeo Magno (106-48 a.c.) o da suo padre Pompeo Strabone per il commercio del sale. L’antichissima via, infatti, collegava Alba (Pompeia) con Albenga (Album Ingaunum) passando per Pollenzo (Pollentia), Benevagienna (Aiugusta Bagiennorum), Breolungi (Bredulum), Roccaforte (Rupe Fortis), Rastello (Subtenianum), Ponte Murato (di fattura romana andato distrutto nelle ultime vicende belliche), il Passo delle Saline, Carnino (Pagus Carninus), Viozene, Nava e Pieve di Teco. Se è chiaro che Roccaforte prese il nome, a buon diritto, da due fortezze: quella più antica che lo domina dall’alto e quella più recente del Ricetto (Receptum) sul piano, un quartiere che in passato era protetto da un alto e possente muro (un tratto ancora ben visibile) e da un fossato alimentato dall’Ellero. Se i nomi delle altre antiche località lungo la Via Pompeia non presentano difficoltà etimologiche, quello di Viozene (La Viozena su antiche carte topografiche), invece, non lo è altrettanto, perciò mi fa venire una gran voglia di scavarci dentro. Comincerei col dire che non deriva da nessun precedente nome latino, ma da un nome composto della parlata di stampo ligure-occitano, in cui Vio significa via e zena significa Genova (italianizzato sarebbe Viagenova). Era quindi il territorio con il suo paese omonimo che dovevano attraversare coloro che provenivano dal Piemonte occidentale e dall’Alta Provenza per andare nella Repubblica di Genova. Così, dopo aver scavato un po’ nella storia locale, sono venuto a sapere che il territorio durante i secoli fu diviso in vari feudi (spesse volte in lotta fra loro per questioni di pascolo), alcuni dei quali sono poi passati alla Repubblica di Genova, altri al Ducato di Savoia. E’ così che il toponimo al singolare Viozena (come si dice ancora a Prea) divenne al plurale Viozene.
Queste sono solo divagazioni di un ottuagenario, che da bambino sognava di diventare archeologo, ma che da grande ha dovuto accontentarsi, per compensazione, di scavare per diletto nelle parole, meravigliose e arcane scintille donate all’uomo dal VERBO, capaci a volte di provocare e spegnere incendi, a volte diventare macigni e pugnalate, altre volte carezze e balsamo per le ferite. All’uomo spetta farne l’uso che vuole, per il suo bene o per il suo male, in nome del suo libero arbitrio. Ma le parole dei toponimi e dei cognomi sono sempre state quelle che più mi hanno affascinato e destato in me grande curiosità. Era naturale che cominciassi a curiosare prima di tutto nel mio, dato che in prima elementare aveva disturbato non poco il mio senso di appartenenza sociale a causa della sua unicità e insignificanza in mezzo a tanti altri uguali e significativi dei miei compagni, che tra l’altro parlavano in un modo diverso dal mio. Mentre loro per dire io dicevano chiè, io, quasi vergognandomi, dicevo mi.
Anche se non ero escluso dai loro giochi, io mi sentivo sempre un po’ “straniero”, pur essendo nato nello stesso paese, pur appartenendo allo stesso comune di Roccaforte da tre generazioni, da quando la famiglia del bisnonno vi si era trasferita, non so per quale ragione, da Giaveno (TO) in Val Sangone nella prima metà dell’800. Naturalmente non ho potuto far a meno di curiosare anche in quello dei miei compagni di classe. Dallo scavo è venuto fuori un comune stato sociale d’origine, dal quale i nostri antenati della Val Sangone e dell’Alta Vall’Ellero sono usciti, versando lacrime e sangue: da semplici esseri umani si sono elevati alla dignità di esistere come persone (pur non avendo una goccia di sangue blu nelle vene), grazie anche all’acquisizione di un cognome da mettere vicino al semplice nome, che oggi si da solo più agli animali domestici.
Esclusi i pochi parenti sparsi tra Piemonte e Liguria, da una indagine fatta con internet, il mio cognome ha risposto presente nel mondo una quarantina di volte, mentre come nome di località italiane è venuto fuori cinque volte: tre volte in Piemonte nei comuni di Coazze (TO), Pozzana (VC) e Cavaglià (BI); una volta in Veneto nel comune di Vò (VI) e una in Sicilia nel comune di Ficarra (ME). Questi toponimi, che vanno dal nord al sud dell’Italia, potrebbero essere considerati possibili centri di diffusione del cognome, assunto da persone che hanno avuto qualche relazione con le vicende storico-sociali di quelle località. Nel Medioevo, infatti, esistevano varie categorie di servi della gleba, tra cui i servi prediali (dal lat. PRAEDIUM=podere), cioè quelli legati a terreni coltivi. L’aggettivo prediale del lessico giuridico divenne, nel lessico popolare, un sostantivo che, contraendosi in priale, è poi diventato anche cognome nelle anagrafi parrocchiali dei battesimi e in seguito comunali delle nascite.
Anche i Basso, massicciamente presenti in tutte le regioni italiane, non ci devono far pensare semplicisticamente ad una carenza di statura, ma bensì ancora ai servi della gleba, a coloro che erano legati alle terre in genere dei padroni feudali, tra i quali era diviso l’intero territorio della penisola italica. Molto probabilmente erano così chiamati, perché occupavano il livello più basso della piramide sociale del feudalesimo.
I Somà, presenti un po’ in tutto il Monregalese, ma specialmente nell’Alta Vall’Ellero con centro di diffusione in Prea, fanno immediatamente pensare a quel carico di sale che i liguri con il somaro (soma nella loro parlata) portavano fino al Passo delle Saline. Di qui quel carico detto somà (da SOMATA come CARÁ da CARRATA = carico di un carro) veniva preso sulle spalle da quei poveri cristi dell’Alta Vall’Ellero, così poveri che non potevano permettersi una bestia da soma, che oltre tutto avrebbero dovuto bardare, ferrare e foraggiare. Così la somà è diventata tutt’uno con chi faceva il portatore di mestiere, tanto da essere chiamato, per estensione (detta sineddoche dal grammatico di mestiere), pure lui Somà, anche dopo aver scaricato la sua somà al primo deposito in Valle, alla Casa del Sale, che ha lasciato, se non i resti, il nome alla località dove sorgeva poco a sud di Rastello.
Svanito il sogno del cavaliere di Breus in Cornovaglia; fallita l’infantile impresa archeologica tra i resti millenari del castello di Roccaforte (resti che io fantasticavo fossero venuti in eredità da chissà quale fantomatico feudatario di nomina imperiale, ma che il nonno Giovanni considerava meno delle macerie di uno scau, di un seccatoio diroccato), la mia antica passione per tutto ciò che sa di antico non è però mai venuta meno. Anzi, viene ora in qualche modo gratificata dai risultati ottenuti dallo scavo fatto su quei tre cognomi che mi avevano causato in età infantile quello strano disagio esistenziale, meritevole, per i perditempo, di essere sottoposto ad un’indagine psicanalitica. A me basta essere modestamente soddisfatto d’aver portato alla luce (almeno credo) le radici comuni dei nostri lontani antenati, che da servi sono diventati, prima di tutto, padroni di se stessi; che, quando la storia li ha chiamati, hanno risposto fino all’estremo sacrificio in nome della giustizia e della libertà, come ha fatto uno sconosciuto calzolaio che, pur “tenendo famiglia”, andò combattere e morire con i partigiani in montagna, lui che aveva fatto il soldato nel Pinerolo Cavalleria come suo nonno.