“Strategia della sparizione” di Franco Acquaviva

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GABRIELLA MONGARDI

Una raccolta poetica che s’intitola “Strategia della sparizione” (Ladolfi editore 2020) sembra fatta apposta per questo periodo in cui prima sono spariti dalla circolazione gli esseri umani e adesso ci si rende conto che è sparito un mondo, un modo di vivere e di convivere, e bisogna reinventarsi tutto, a caro prezzo. E inevitabilmente, irrazionalmente, dalla lettura ci si aspetta almeno l’indicazione di una strategia per sopravvivere, nella sparizione…

C’è stato un giovane a modo che il tuo
saluto ha preso e in un modo ha voltato
ch’esso è sembrato un addio: sai
la strategia della sparizione anche
si riconosce da questo, da ciò che
crediamo di veder fare a qualcuno
quando sappiamo benissimo che noi
siamo a far quella cosa dentro di noi.

Nella poesia eponima, la sparizione implica quasi uno sdoppiamento della personalità: di sicuro implica la capacità di “voltare un saluto in addio”, di prendere congedo anche e innanzitutto da se stessi. Come insegna Montale, “Svanire / è dunque la ventura delle venture”… E Acquaviva gli fa eco: “Da particella divenire onda / e poi disfarsi…”.

Colpisce, ad apertura di libro, l’impasto linguistico (sintattico e lessicale) di cui si serve Acquaviva: i termini scientifici abbondano (“esavalente”, “rictus”, “PH”…), così come gli iperbati più o meno violenti (“mentre il giorno l’umidità condensa”;“un cane che senza abbia / volere abbaiato”; “là i piedi battono degli spettatori”), per dare al lettore un preciso “segnale di pericolo”: «Attenzione, questa è poesia, cioè una lingua “altra” per cui non hai anticorpi: potresti infettarti!».

Colpiscono in particolare, in questo libro uscito a febbraio 2020, ma contenente liriche scritte tra il 2017 e il 2018, i riferimenti a “malattie incipienti”, “virus d’aria”; e versi come “dal malato soltanto m’allontano, / dall’untore, agli altri del contagio il / privilegio volentieri lasciando” non possono che suonare profetici, in tempi di pandemia, come se la realtà si fosse incaricata di prendere alla lettera, e di inverare, le metafore del poeta, quasi gareggiando con la deformazione espressionistica del linguaggio a cui tende, ossimoricamente, la regolarità degli endecasillabi sciolti.

Dopo i segnali di pericolo della prima sezione, l’intento esplicitamente dichiarato dal titolo della seconda sezione è quello di una pedagogia in battere e in levare. L’ambiguità di significato dei due verbi fa sì che coesistano, in questa “pedagogia” di cui faremmo volentieri a meno, l’asse della leggerezza ritmico-musicale e il suo opposto, l’asse della pesantezza, della violenza, della privazione: giustamente Ivan Fedeli, nell’illuminante prefazione, parla di “senso di sconfitta imminente”, “ atto di denuncia titanico nei confronti di un mondo senza sbocchi”, “scacco esistenziale”.

Non deve illudere il titolo apparentemente positivo della terza sezione: Verso la luce. Il titolo indica semplicemente una direzione, una tensione destinata a non avere sbocco, uno Streben: “la ricerca poetica di Acquaviva non dà certezze, né le ammette” (Fedeli).

Il verso può apparire all’improvviso
tra una spazzolata ai denti
e un’apertura di portiera
sempre nel mezzo di un fare
mai nella fissità del foglio bianco

Così inizia Apparizione. Nemmeno la poesia è una certezza, men che meno una consolazione – e si ritorna a quanto detto all’inizio: è la poesia il “virus” contro cui si costruisce un cordone sanitario e i Muri di cui parla la poesia omonima sono soprattutto quelli che imprigionano il poeta e rendono afone le sue grida.