La poesia di Bonifacio Vincenzi si muove secondo onde concentriche. Non è difficile intravedere un percorso che dalla soggettività si espande via via all’esterno e viceversa. Un itinerario flessuoso intensamente vissuto, così come intensamente affidato al logos della poesia quasi senza diaframmi retorici, senza filtri eccessivamente tecnici. Che è come a dire, ancora una volta, che vita e poesia in Vincenzi coincidono, ma anche che egli mira al coinvolgimento emotivo del lettore.
In La vita della parola questo percorso si manifesta già a partire dal titolo e dalla struttura del libro. Suddiviso in tre brevi sezioni, l’itinerario poetico si snoda dall’io della prima alla discorsiva socialità della seconda, fino al rientro nell’intima e commovente soggettività lirica della terza, esplicitamente dedicata al padre defunto.
La raccolta, di per sé esigua, è costituita da 35 testi di breve ma profondo respiro. Non inganni né il verso libero, né la libera strutturazione del tessuto testuale, che si presenta sotto forma di un monolito di una manciata di versi senza titolo.
Alla discorsività programmatica fa però da contrappunto il frequente ricorso a impennate liriche surrealiste di ben studiata efficacia, quasi lampi luminosi nel cielo plumbeo della concezione della vita e della società che il poeta manifesta.
La poesia di Vincenzi è un’onesta e convincente testimonianza di condanna di tanta fenomenologia comportamentale, sia individuale che sociale, svuotata del senso profondo dell’esistenza, trasformata in un “procedere vuoto… di vite esiliate e distanti” , come efficacemente mette in evidenza Rocco Salerno nella sua prefazione.
Si prenda ad esempio la tendenza generale, una vera e propria “religione”, che mira più all’apparire che all’essere, alla competizione spietata più che alla solidarietà, all’individualismo più che alla socialità, al cinismo più che all’etica: “Giorni in corsa da fuggiaschi, la religione / dell’apparire, fortezze di ego in costruzione…”. In questo stesso brano giunge un altro lancinante affondo: “E poi è così netta / la voragine tra padri e figli, un mondo / crolla mentre l’altro si edifica sulle / macerie…”. Ulteriore e più eclatante segno di questa frattura generazionale è presente nel testo successivo, in cui si condanna uno dei ”miti d’oggi” (per dirla con Roland Barthes) qual è l’abuso della connessione virtuale attraverso la ragnatela informatica: “Gioventù con pochi ideali, / mangia postando sempre il piatto / nella rete, orge di immagini vuote / di corpi…”.
Più volte il poeta richiama la concezione pirandelliana della vita come recitazione teatrale, cogliendo appieno quello che potrebbe definirsi lo stigma dominante dei comportamenti generali odierni. Basta connettersi ai social per affondare nel delirio della vacuità inconcludente, nell’apoteosi del vuoto assoluto, nell’esibizionismo (tanto spudorato quanto volgare) di corpi inanimati: “… Nessuno / mai a chiedersi come mai si è vivi, come mai la recita / appaia così reale nel grande teatro di questo mondo”.
Vincenzi è anche il cantore dell’amore, che non è sempre, però, una felice addizione. Anzi, molto frequentemente è vissuto come inconsolabile sottrazione, perdita, assenza. C’è nella raccolta una poesia in particolare degna di comparire in un canzoniere amoroso: “Spesso un bianco di pagina accoglie / la sera nel canneto e tu torni / come una brezza lieve: ad occhi chiusi / senza voce né tempo nel volo delle rondini / sfociano gli istanti. Pare vero il mio andare / nei tuoi occhi, la corsa per tagliare l’aria / che ci avrebbe accolti. Venne poi la pioggia / a cancellare le tracce, a portarti da sola / all’altro lato della nostra notte”.
Ecco, infine, l’ultima sezione dedicata al padre: La memoria dell’assenza. La poesia, annota l’autore, è usata come “tentativo di metabolizzare la sua scomparsa”. Qui la poesia procede tra la rarefazione e la materialità dei ricordi, raggiungendo esiti di rilevante pregnanza semantica: “Chiedo al sentiero degli ulivi / di ridarmi i tuoi passi. / Ma non c’è cielo ora / che riconosca il tuo sguardo / né paesaggio o angolo di strada / a ridare senso al mio cercarti. / Solo uno spasmo di nulla / recita il dolore e il suo trionfo”.
Parallelamente alla progressiva consapevolezza della dolorosa assenza, i testi si riducono all’essenziale, per spegnersi quasi nel silenzio della pagina bianca, vuota di segni, cioè di vita. Qui la poesia mira soprattutto al recupero di parole non dette che possano funzionare come illusorio sortilegio. In questi testi Vincenzi ci offre in dono la densa e commovente profondità della sua capacità lirica.
Spesso un bianco di pagina accoglie
la sera nel canneto e tu torni
come una brezza lieve: ad occhi chiusi
senza voce né tempo nel volo delle rondini
sfociano gli istanti. Pare vero il mio andare
nei tuoi occhi, la corsa per tagliare l’aria
che ci avrebbe accolti. Venne poi la pioggia
a cancellare le tracce, a portarti da sola
all’altro lato della nostra notte.
*
C’erano quattro finestre in quella casa.
Quattro finestre eternamente chiuse.
E c’era qualche sogno appeso alle pareti,
qualche follia legata alle finestre chiuse.
Ma non c’era più la vita in quella casa.
*
Saperti in un posto inimmaginabile,
vederti passare dove le querce
mutano con le stagioni.
Guardare la salita degli affanni,
gli specchi dei cambiamenti.
E chiedersi fino a che punto
gli impostori siano amici del dolore.
Fin dove arrivino le orme
ora che i tuoi sentieri
si perdono nella misura
dei pensieri.
Da La vita della parola, Macabor Editore, 2020