Osman Kalin, con la stanza a Berlino est e la cucina a Berlino ovest

EVA MAIO

Non è proprio esattamente così.
C’è dell’inconsueto vero e c’è quello che ho immaginato.
Osman Kalin è veramente esistito.
Vero il suo abitare sul confine.
Vero il suo guardare la burocrazia con la magnificenza di un sovrano della propria vita.
Vero che era turco.
E poi c’è il sortilegio di dettagli arrivati come un profumo dal semplice immaginare ascoltando il bel racconto di Marco Aime*.

Che alla fine da quest’intreccio di reale e di inventato ci rimane il gusto che stare sul confine come se non ci fosse c’è da imparare tanto quanto a starci, vedere che c’è e dargli l’importanza d’un filo.
E coi fili si rammenda.
Coi fili si ricama.
Coi fili ci si collega.

Sapevano di spezie le mie mani
del rosso ocra di certe terre
d’Anatolia i miei piedi
ho agitato remi
di barche e navi ne so qualcosa
che capitai su un mercantile
a caricare scaricare
cipolle e cetrioli.
Tendini e pelle
a saggiar le onde il maestrale
con sottocute gli odori
di sabbia sale steppe e ortaggi.

Non me ne accorgevo neppure
e i mitocondri le reti neuronali
le trombe d’ Eustachio
il tessuto connettivo del mio cuore
gli occhi la fronte
come le mani e i piedi
s’apparecchiavano a divenir
accorti ben disposti e accorti
pronti solleciti porosi
a scenari dell’est dell’ovest
di flutti e varie terre e cieli
e visi come finestre e ponti.

Che poi conosco appena
microporzioni di questo nostro mondo
che poi non fu solo
l’indomita curiosità di opposti
a farmi camminare e navigare
fermarmi fare e disfare
fu l’immanente logica
di stomaco e duodeno
a dirmi di partire
fu fame semplice e nuda
e sete di letizia di oceani
e di piccole zolle da coltivare.

A quel tempo non sapevo
non sapevo e me lo domandavo
se venissi dagli Hurriti o dai Frigi
di sicuro dalle steppe a qui
con suole consumate remi premuti
e occhi arrossati dal guardare
incessante guardare
anche il più esile filo d’erba
e dall’avventurarsi in altri occhi
arditi o stanchi.
Ed ora a volte mi chiedo
se mi son fatto vento.

Intorno ad antiche speranze
ho messo respiro e forza muscolare
mentre mattone su mattone
alzavo le belle case dei borghesi
mattoni calce carriola
ore e ore
che ora sono qui a Berlino
e scavo all’ombra quieta
di un albero e del muro
per fare un orto
la casa degli attrezzi
e poi forse la mia di casa.

No, non sono vento
son carne a toccar terra
lavorarla gettare semi lì
e in corpo di donna e carezzarla
e carezzare figli dall’odor di latte
e carezzare ruvida corteccia
e carezzare l’acqua delle nubi
e carezzare scarti di ferro
e legno stagionato
e ciò che i borghesi buttano via.
Carezzare la mia lingua antica
carezzare la nuova.

Sono vento e carne
est ed ovest
nord e sud
lo dico tra me e me
che ho il piede sinistro a Berlino ovest
il destro in Germania dell’est
e dono cipolline alle guardie di qui
cavoli e fagioli alle guardie di là.
Sorrido che son di qui e di là
senza patemi senza fogli
d’affitto di vendita d’acquisto.
Son vento e carne sono Osman Kalin.

* “Racconti in tempo di peste” Marco Aime – wwwteatropubblicoligure

L’autrice legge la poesia:

Osman Kalin su Wikipedia lo trovate e trovate subito notizie sulla sua “casetta a due piani realizzata con materiali di scarto”: la Baumhaus an der Mauer.