Il colore del tempo, poesie e foto di Giancarlo Baroni

copertina-il-colore-del-tempo_v2s

GIANCARLO BARONI

Autoritratti

Spavaldo il primo
l’ultimo rassegnato

la vita scorre.

*

Il discobolo

Energia concentrata in un punto
torsione del dorso Bang

esplode l’universo.

*

Voglio averti sempre più vicino

Voglio averti sempre più vicino
per me sei Cheope Chefren Micerino.
Monte di pietra cima da scalare
cunicolo profondo da esplorare

Stella Polare alla mia imbarcazione
di canna e di papiro. Fonte
di luce rischiari il mio mattino
per me sei Cheope Chefren Micerino.

Giancarlo Baroni, Il colore del tempo (Poesie e fotografie), Quaderni della Fondazione Daniele Ponchiroli

1

Prefazione di Fabrizio Azzali

Questo “Quaderno” dalla natura ibrida, in cui poesia e fotografia si avventurano sugli stessi sentieri e si intrecciano e flirtano in modo complice incuranti dei confini che separano i generi, sembra riportarci a quel tempo avvolto nel mito in cui immagine e parola giocavano a rincorrersi e finivano poi per mischiare le loro acque: “la pittura è una poesia muta e la poesia una pittura parlante”, diceva il lirico greco Simonide di Ceo.

I bravi fotografi non differiscono troppo dai pittori, solo dipingono con la luce e danno forma a ciò che sembra spiegabile soltanto con le parole; d’altra parte, talvolta ci sorprende in un verso la forza che possiedono certe figure retoriche nel conferire l’impressione di animazione e di azione alle immagini a cui analogicamente si riferiscono. È vero che gli scrittori operano su materiali verbali, ma in fondo il loro canto sgorga dalla visione, dunque dagli occhi – aperti o chiusi che siano – e assume sostanza d’immagine, come se tutte le visioni fossero da sempre addormentate nel buio della bocca del poeta e venissero risvegliate da un moto dell’anima o della coscienza.

In questo libro, che ci guida a passo lento in un breve viaggio tra parola e immagine attraverso i secoli della storia dell’Arte e lungo i mutevoli volti che assume la bellezza, la simbiosi tra poesia e fotografia è talvolta così perfetta che la prima diviene un riflesso, una narrazione della seconda, un reciproco riconoscersi e raccontarsi in un gioco di sguardi e di risonanze.

Quella di Baroni è una poesia oggettiva, impressionistica e sempre in bilico sul confine labile della prosa, dunque in qualche modo già “fotografica”. Talvolta i versi sembrano persino rassegnarsi a semplice nota memoriale attraverso la longitudinalità degli anni. E, di pagina in pagina, con lo scopo forse di conservare lacerti impalliditi di un mondo già addentato dalla corsa rapinosa del tempo, le strofe fanno riemergere dalle profondità alcuni luoghi simbolo del mondo classico come l’antichissima Petra, Delfi, poi le mura ciclopiche di città sognate di cui restano solo racconti “forse neppure veritieri” assieme a templi vetusti divenuti ormai “fantasmi/copie spente incolori”.

In particolare nella prima parte della raccolta poetica i versi sembrano infatti esibire elementi dimessi, residuali o sfigurati del bello: apparizioni da una lontananza ormai quasi inattingibile, per quanto possa sembrarci vicina, persino fruibile. Sono ombre smunte di una bellezza impallidita dagli anni o sfregiata dall’incuria e dalla violenza dell’uomo e degli elementi, “colori dilavati”, affreschi impalliditi su cui fioriscono macchie d’umidità o è l’emergere di preoccupanti screziature “sulla pelle dell’albicocca” di una tela secentesca.

3

Talvolta, semplicemente, pare che l’occhio del poeta, con vivida impressione, veda per la prima volta la bellezza che ha trovato sede in quadri e statue e non voglia andare oltre una descrizione puramente referenziale, forse perché, come diceva Wilde, “la bellezza non ha bisogno di spiegazioni” e “il vero mistero del mondo è ciò che si vede, non l’invisibile…”, per cui già il dato oggettivo contiene e rivela la sua allegoria.

Dunque non si tratta tanto di una mera esposizione sinottica di colonne mozze, capitelli atterrati, mosaici corrosi e quasi illeggibili: forse questa resurrezione nel presente, grazie al miracolo orfico della poesia, di un contenuto di vita sbiadito o sfregiato sottintende altro; forse vi potremmo leggere una realtà nascosta dietro il concreto sensibile, una riflessione che il poeta ci invita a fare sul trascorrere del tempo e il trascolorare e il venir meno della bellezza immersa nel divenire.

Solitamente si ritiene che alla bellezza sia affidato il compito di riconnettere in un’unità armonica il disordine fondamentale della realtà, ponendola in grado di rivelarne il segreto ultimo, al di sopra del suo stesso caos. Addirittura la si carica di una missione palingenetica: “La bellezza salverà il mondo” fa dire Dostoevskij al principe Miškin. Ma Baroni sembra volerci disilludere affermando che essa, ammesso esista in una dimensione oggettiva rispetto all’occhio di chi guarda, non sembra neppure in grado di salvare se stessa; forse la bellezza che vuole salvare il mondo rimane un inizio incompiuto, un lampo subito sommerso nell’oscurità del mondo. Probabilmente, nella migliore delle ipotesi il bello consola, mitiga le piaghe dell’anima, tenta la riconciliazione di ciò che è lacerato, o semplicemente ci guarda silenzioso ed enigmatico e ci interroga. E in questo volumetto la memoria che ci riporta le tessere sfiorite di quel passato di bellezza è già insidiata da aritmie e dal vuoto, porta le stimmate del destino comune a tutti gli esseri e a tutte le cose. L’armonia fredda del verso, lieve come una danza di parole e di immagini, accoglie così anche l’ansia dinanzi all’ombra del tempo che scorre.

“Si dice che il tempo è il Lete, ma anche l’aria delle lontananze è un’acqua simile” afferma Mann ne La montagna incantata.

E, volendo trasporre al côté fotografico di questo libro la suggestione manniana, emerge che in queste immagini ciò che concorre alla costruzione della rappresentazione e della sua sostanza pare essere, oltre alla luce, la percezione della dimensione cronologica e del distacco da essa operato.  Potremmo infatti leggere la raffigurazione fotografica come il tentativo di sottrarre al fluire rugginoso del Tempo, cioè alla caducità e alla morte, le forme della bellezza, congelandole in un eterno presente. Si pensi, ad esempio, alla perduta Natività con i santi Lorenzo e Francesco di Caravaggio, rinata a Palermo grazie alle fotografie di essa conservate, oppure alla sola istantanea rimasta de Gli spaccapietre di Millet, opera arsa nella tempesta di fuoco di Dresda nel ’45. Ma in verità la riproduzione fotografica nell’attimo in cui salva, uccide la vita che recupera e ciò che pare presenza è frutto di un artificio mimetico, il riflesso, appunto, di una lontananza e di un oblio, proprio come accade ad Orfeo, che condanna la sua Euridice alla definitiva notte degli Inferi con un solo sguardo raggelante. Da una parte potremmo dunque pensare che Baroni sembri, con queste fotografie, voler significare che la bellezza ancora persiste nel nostro quotidiano, ci accompagna, reclama il suo seppur angusto spazio e proietta un po’ di luce cangiante e discreta sui nostri inverni; ma queste immagini si prestano forse ad una lettura ulteriore.

2

Da un lato, infatti, l’autore con le sue foto spoglia l’opera d’arte della sua aura accademica, della sua irripetibilità nello spazio e nel tempo, ce la avvicina, dall’altro, così facendo, isola l’oggetto artistico, decontestualizzandolo e rendendolo infinitamente riproducibile, quasi ordinariamente fruibile e così ne sottolinea la massificazione e dunque, in un certo senso, la perdita.

In una realtà come la nostra, che consuma immagini con enorme rapidità annullando ogni gerarchia, anche la bellezza raccontata da Baroni appare infatti sempre un po’ fuori asse, scollata dal proprio supporto, interfacciata sì con gli uomini, ma in modo mai del tutto empatico, quasi lì a rimarcare, spesso in chiave sottilmente ironica, sia le molteplici imperfezioni del mondo sia il sorriso leggero, quasi “ariostesco”, con cui l’autore guarda ad esse.

In queste fotografie, appunto, l’arte sbuca in maniera spesso surrettizia e decentrata, talvolta copia di una copia riflessa su quinte involontarie come oggetto infinitamente riproducibile e illusorio, oppure si mostra in scorcio costretta nel reticolo delle strutture del quotidiano, tra vicoli, impalcature e al fondo di negozi; il bello appare sempre un po’ accessorio e fuori scena, osservato in maniera “laterale” e spesso frammisto agli oggetti più comuni del nostro tempo.

Tuttavia l’arte, salvifica o reificata e “commerciale” che sia, ha accompagnato, enigmatica ma rassicurante presenza, il nostro viaggio sul mondo e nelle città e quando la terra e il cielo sembreranno essersi svuotati di ogni simbolo e ogni attrattiva e il buio sembrerà più fondo e opprimente, rimarranno forse solo gli occhi del poeta a ricordarci la luce tiepida e fedele della bellezza.

(Le foto sono dell’autore)