Pollock e Rothko. Il gesto e il respiro.

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FULVIA GIACOSA

Nella nuova collana Einaudi VS-Stile Libero diretta da Paolo Repetti che gioca su termini antitetici in svariati campi del sapere, c’è un prezioso intervento di Gregorio Botta, artista e studioso, che mette a confronto due grandi dell’arte contemporanea, Jackson Pollock e Mark Rothko. Il testo non è solo per gli addetti ai lavori ma risulta di stimolante lettura per chiunque grazie ad un lessico chiaro anche quando specifico. Il percorso biografico ed artistico dei due protagonisti è sviluppato in parallelo e suddiviso in 14 capitoli di poche pagine, introdotti da brevi dichiarazioni degli artisti stessi.

Il libro si apre con il commento ad una famosa fotografia di Nina Leen del 1950 per Life che ritrae il gruppo dei 15 “Irascibili”, come si dissero inizialmente prima di passare alla storia dell’arte come “Scuola di New York” o “Espressionisti astratti” o più semplicemente “Informali”: Pollock è il terzo da sinistra della seconda fila, Rothko all’estrema sinistra in prima fila. Nell’atteggiamento dei due di fronte al fotografo l’autore individua già le relative personalità dei due pittori: l’irruenza maudis di Pollock che lo porterà all’aktion painting, e l’atteggiamento riflessivo di Rothko che testardamente riproporrà per anni i color fields in infinite varianti. Il “gesto” del primo e il “respiro” del secondo (è stato Rothko stesso a parlare di opere respirabili). Le loro vite non potrebbero essere più diverse, fin dalle origini. Rothko (1903-1970) viene da una famiglia ebraica benestante e colta di Dvinsk (allora in Russia, ora in Lettonia), Pollock (1912-1956) da Code (Wyoming), figlio di un agricoltore dalle scarse fortune cresciuto in case piene di ninnoli e merletti più che di libri; il primo conosce gli abissi della storia europea, il secondo l’immensità della prateria. Li unisce un’infanzia dominata dalle rispettive figure materne e una adolescenza segnata dalla perdita di quella paterna.

Gli esordi nei secondi anni Trenta sono irti di difficoltà per entrambi; nell’America della Grande Depressione la salvezza dalla miseria per molti giovani artisti senza speranza viene dall’istituzione rooseveltiana del Federal Art Project che ne finanzia l’attività garantendo loro una paga. Quando Pollock e Rothko cominciano la loro avventura artistica a New York condividono conoscenze, luoghi di ritrovo, gallerie, mostre, critici d’arte, pur divergendo profondamente per carattere e per scelte artistiche: il dripping di un Pollock introverso e rabbioso trasforma la tela in un’arena ove scaricare tutta l’energia repressa e lasciare la propria traccia nel mondo, mentre i color fields del malinconico Rothko sono una forma di sparizione dal mondo di chi abita le zone d’ombra della vita … dalle quali si protegge con la più regolare delle esistenze, con l’ossessione della ripetizione, con il lavoro costante. Alla pittura d’azione rapida istintiva disperata di Pollock, Rothko risponde con una pittura di inazione, lenta e in costante attesa di una epifania.

Fin dall’inizio l’aspirazione comune è trovare una americanità artistica, rompendo la lunga sudditanza all’arte europea, pur studiandone i grandi protagonisti, da Cézanne a Matisse, da Mirò a Picasso. Tutto il gruppo degli informali americani intuisce che l’arte USA può diventare il centro della contemporaneità sostituendo New York a Parigi; perseguire una finalità così impegnativa diventa un’urgenza ma l’impresa, che richiede dedizione totale, finisce per minare la serenità del vivere di molti di loro. Dovranno lottare per imporsi in gallerie e musei come il Metropolitan  e il Whitney accusati di chiuderle loro le porte, saranno “irascibili”, polemici, agitatori seriali. Al volgere del decennio Cinquanta l’Informale dominerà la scena artistica invadendo anche l’Europa: la Biennale di Venezia del 1950 dedica loro una intera sala. Il successo viene appena prima per Pollock, grazie a Peggy Guggenheim che già nel 1943 aveva ospitato nella sua galleria “Art of This Century” la prima personale dell’artista oltre a commissionargli il famoso “Mural” lungo sei metri per la propria casa. Anche Rothko espone in alcune mostre collettive pur rifiutandosi sempre di identificarsi con l’Espressionismo astratto. La sua sarà una strada in salita, personalissima, pur frequentando i colleghi nei luoghi storici e tra gli stessi collezionisti (Peggy Guggenheim, Betty Parson) quando per un breve periodo le loro ricerche si affiancano. Tuttavia la scelta di Pollock sarà iletica, unione di gesto e consistenza materica, l’arte di Rothko “liquida”, fatta di strati leggeri sovrapposti e vibranti di luce: come scrive Botta, Mark sussurra, Jack grida.

Dal 1946-‘47 Pollock realizza alcuni dei capolavori che lo consegnano alla storia, Rothko dipinge i primi veri campi di colore a bande orizzontali dai contorni sfrangiati; entrambi abbandonano ogni residuo figurativo e raggiungono la piena maturità estetica. Per Pollock la parentesi più serena della sua esistenza coincide con il trasferimento fortemente voluto dalla moglie Lee Krasner a Springs, Long Island (1945-1950), lontano dalle tentazioni di New York; beve poco e lavora molto. Rothko diventa sempre più punto di riferimento per giovani artisti anche se non ha lo stesso successo di “mercato” con cui ha rapporti difficili. Ma nuvole nere si addensano presto: Pollock riprende a bere smoderatamente, torna scostante, asociale, violento e la moglie lo abbandona nel ’56 quando per l’artista inizia la rapida discesa all’inferno; in quell’anno muore a 44 anni, ubriaco fradicio, in un incidente d’auto. Rothko, che si è risposato con una ricca disegnatrice, dopo alcuni anni felici sul piano esistenziale ed artistico torna a chiudersi nella sua malinconia, la sua tavolozza si incupisce e i toni si abbassano a partire dal ’56-‘57. Negli ultimi dieci anni insegue un sogno: ideare un ambiente destinato alla contemplazione: un luogo laico e allo stesso tempo sacro, l’equivalente contemporaneo delle celle di San Marco a Firenze di quel Beato Angelico che per ben due volte aveva voluto studiare ammirato. L’occasione arriva nel 1964 grazie ai coniugi De Menil, ricchi collezionisti francesi residenti in Texas, che gli lascino carta bianca oltre a pagarlo profumatamente; Rothko consuma qui gli ultimi anni (non vedrà l’allestimento), dipingendo tele di enormi dimensioni monocrome di un indefinito colore tra il violaceo e il nero e di cui spesso non sembra sufficientemente soddisfatto. A complicare le cose nel 1968 l’artista è colpito da un ictus e fatica a lavorare, il che accentua la depressione; l’anno dopo si rompe anche il matrimonio.

Scrive Gregorio Botta, citando Céline, che questi anni sono un viaggio al termine della notte e che il maestro assoluto della luce è diventato il profeta del buio. Nel 1970 si suicida, spegnendo tutto: luvce e buio.

Il libro si chiude con un Congedo che mette a confronto l’ultima opera dell’uno e dell’altro: “The Deep” di Pollock, un bianco abbagliante in cui si incunea un nero abissale, il buio sotto la luce, “Untitled” di Rothko, un rettangolo nero tagliato da una linea frastagliata azzurra, un cielo chiaro sotto l’ombra.